Buon giorno Annuccia!

di
Sofia Albini

tempo di lettura: 16 minuti


Ad Antonietta R.

I

C’era una volta una bambina che si chiamava Annuccia: aveva otto anni, ed era buona, con de’ grandi occhi neri pieni di foco e d’intelligenza. E non dicevan bugie quegli occhioni! Annuccia era proprio un demonietto, e con poca fatica, proprio pochina, a scuola faceva sempre la prima figura. Quando tornava a casa, fiera colla sua cartella ad armacollo, pareva un soldato che tornasse da una manovra.

La mamma l’accoglieva con un sorriso, ma era raro che la baciasse. Perché mai?… Forse, non voleva bene alla sua bambina?

Ma una madre può non amare la sua figliuola? Oh, no! Perché dunque quand’ella parlava all’Annuccia il suo occhio era sempre così serio, quasi severo?

Una sera c’era gente in salotto, e quando l’orologio di sul caminetto sonò le nove, la mamma diede una occhiata all’Annuccia. Ella capì subito che cosa volesse dire, ma si voltò da un’altra parte, e andò a rincantucciarsi dietro una poltrona dove una signora ciarlava allegramente, dicendo delle cose molto curiose!

Ma a un tratto la mamma disse: — Ti prego, Teresa, di guardar bene dietro a te, perché mi pare che ci sia qualcuno a origliare.

La signora si voltò, e Annuccia dovette rizzarsi, rossa come un papavero.

— Oh, no, mamma! — esclamò colla vocina strozzata. — Non m’ero nascosta per ascoltare…

— Perché allora?

— Per…

— Per disubbidire alla mamma, non è vero?

La bambina scappò senza dir altro.

— La mamma non mi vuol bene punto punto! — mormorava mentre la donna l’aiutava a svestirsi. — Oh, sono ben disgraziata!… Anderò anch’io un giorno o l’altro a domandar soccorso alla buona fata.

Chi era mai questa fata buona?

Annuccia non ne sapeva niente neppur lei, ma una sua compagna di scuola le aveva detto, proprio quel giorno, che in un gran giardino c’era una fata che consolava i bambini infelici.

I bambini infelici… Annuccia sollevò la testa dal guanciale, e si guardò intorno.

Com’era graziosa la sua cameretta tappezzata di indiana rosa a mazzi di margheritine; in quel momento era rischiarata da un raggio di luna, ed ella vide il ritratto della mamma ai piedi del suo lettino, che la guardava affettuosamente. Si sentì inondare il cuore da una gran felicità, ma ripensò alla vergogna provata un minuto prima in salotto, e al suo dispiacere di essere a letto mentre di là pigliavano il thè colle paste… e si mise a sospirar forte. — Oh, sono proprio infelice! — esclamò tirandosi il lenzuolo fin sul nasetto, e strinse gli occhi due o tre volte per vedere se ne voleva uscir qualche lagrima, ma finirono col chiudersi a un sonno profondo.

Il domani era domenica: una serena domenica di dicembre, con un sole magnifico che scioglieva la neve e consolava la povera gente.

Annuccia, dopo la messa, aveva voluto salire a far una visita a una bambina sua amica che abitava al secondo piano e vi era rimasta fin dopo le due. La mamma aveva mandato su la donna a dirle che scendesse subito perché, non aveva ancora fatto il suo compito di scuola. Ella si fece aspettare una buona mezz’ora, poi arrivò, tranquilla e soddisfatta, e andò in cucina a cercar dell’insalata per i suoi canarini.

— Annuccia, mettiti a fare il tuo compito — disse la mamma.

— Oh, aspetta un minuto, un minutino appena! Son tre giorni che non guardo i miei canarini!

Il viso della mamma diventò freddo, quasi rigido. Annuccia sapeva ch’era sempre il dolore che dava al bel viso della mamma quell’espressione. Ma che cosa aveva ella detto infine perché si rattristasse tanto?… Tutte le bambine avrebbero risposto così: — Aspetta un minuto. Guardo i miei canarini.

È vero: le parole non erano cattive, ma era il tono di voce di Annuccia che le rendeva tali. Esso era sempre risoluto, fiero, petulante, come i suoi occhioni neri che non mandavano mai raggi, ma sempre lampi. Sua madre lo disse seria seria: — Anna!

Null’altro: ma un’altra bambina avrebbe lasciato stare subito i canarini, e avrebbe preso i quaderni, confusa, senza osar di parlare.

Ma l’Annuccia non c’era caso che s’intimidisse.

— Oh mamma! che cosa ho fatto di male ora? — esclamò.

— Tu non obbedisci, come sempre. — E la mamma portò la gabbia de’ canarini nell’altra stanza.

Annuccia si lasciò cader sul tappeto, singhiozzando disperatamente. — Le altre mamme non fanno così coi loro bambini! — gridava. — Luisa va tutte le domeniche alla lezione di ballo, e la sera resta nel salotto della sua mamma fino alle undici!… e io… io non posso neanche guardar i miei canarini, la domenica! … e vado a letto alle nove!…

— Luisa è l’ultima della sua classe e tu sei la prima.

La bambina non s’aspettava una simile risposta e sollevò il viso dal suo grembiale bianco per guardar la mamma. Ma dopo un momento di riflessione rispose: — È appunto perché io studio, mamma, che tu dovresti lasciarmi un po’ di libertà ne’ miei giorni di vacanza!

— E i tuoi compiti?

— Trovo sempre de’ ritagli di tempo per farli, lo sai bene.

— Ah! de’ ritagli di tempo!… per i tuoi doveri! È forse nei miei ritagli di tempo che faccio i vestiti all’Annuccia? Che ordino il pranzo e bado che tutto vada bene in casa? No, non è vero? Perché quelli sono i miei doveri; e il dovere deve camminar sempre primo nella vita di tutti. È soltanto dopo che ho adempito ai miei doveri ch’io prendo in mano il ricamo, e leggo i libri che il tuo babbo mi porta.

Annuccia ripassava fra le dita con impazienza l’orlo del grembiule.

Quel che aveva detto la mamma era vero, e non poteva quindi più risponder nulla mentre aveva tanta ragione lei!… Il babbo entrò in quel punto, col soprabito e col cappello in mano. — Sapete ch’è una magnifica giornata? — disse con voce allegra. — Via, preparatevi, e andiamo a far una bella passeggiata fuori di porta!

— Non possiamo, Camillo — rispose la mamma. — Annuccia non ha ancora fatto il suo compito, né studiata la lezione.

— Come! alle tre non ha ancor fatto nulla! Annuccia corse a pigliar la sua cartella e si mise a frugarvi dentro levando in furia penna e quaderni.

— Rimarrà a casa sola — continuò il babbo. — Non c’e proprio nessuna ragione che la mamma si sacrifichi per una bambina così negligente. Vai a prepararti, Giulia.

La mamma uscì dal salottino, e Annuccia scoppiò in un pianto rumoroso, dicendo fra le lagrime e i singhiozzi:— Faccio presto, babbo!… Aspettate!… mamma, faccio… faccio presto! — E intanto scriveva in furia: “Problema d’aritmetica: un merciaio comperò metri 107.65…”

Ma l’uscio di casa fu sbattuto, risonarono i passi del babbo e della mamma nel cortile, e Annuccia, dopo essersi slanciata all’uscio desolata, pensò bene di tornar addietro, di asciugarsi il viso e di mettersi al tavolino.

Finito il compito, si sedette vicino alla finestra che s’apriva sul giardinetto — abitavano al pian terreno! — a studiar la lezione, ma avrebbe avuto tutt’ altra voglia.

Il cielo era così trasparente e il sole così caldo! come doveva essere bello fuori di porta, lungo i fossati pieni di ghiaccio, che scricchiolava sotto i piedi dei monelli che vi facevan le lunghe scivolate empiendo l’aria dì risate e di strida!

Mah! la mamma e il babbo sono proprio stati cattivi. Ieri sera a letto presto, e neppure una pasta! oggi dover stare in casa con questo bel tempo!

Appoggiò il nasetto ai vetri sospirando, e si mise a guardar sul viale la neve, che sciogliendosi al sole, pareva agitarsi e palpitare come cosa viva, e brillava come un mucchio di diamanti. I passerotti saltellavano qua e là picchiettandola col becco e lasciandovi le impronte delle loro zampine.

— Il Signore manda forse colla neve delle briciole di pane per gli uccelletti? — pensò Annuccia — oppure qualche altra cosa, come la manna degli ebrei? — Ella provò una gran tentazione di uscire a guardare la neve, ma c’era quella benedetta laitière et son pot au lait da studiare. Ci diede una ripassatina, e arrivata finalmente all’ultimo verso.

Le lait tombe: adieu, veau, vache, cochon, couvée! Annuccia gridò addio al suo libro, buttandolo in aria, e spalancò i vetri!

Raccolse un po’ di neve e la lasciò liquefare nel palmo della sua manina calda e grassotta, poi guardò attentamente nel fondo per veder se qualche cosa vi fosse rimasto, ma non trovò nulla.

— Forse il Signore non vuole che noi le troviamo — pensò — e si mise a correre torno torno all’aiuola: A un tratto, contro il muricciolo del giardino vide appoggiata una scala a pioli, e fu una gioia! L’arrampicarsi era la sua passione.

Ah!… che magnifico giardino c’era al di là del muro! A sinistra si vedeva un gran palazzo che doveva essere quello della duchessa di Mariano. E anche il giardino era forse suo. Come era grande! c’era un bosco di olmi, spogli, secchi, che parevano scheletri di giganti: e dietro gli olmi de’ pini, sempre verdi: e dietro i pini, sulla riva di un laghetto, c’era una casina, uno châlet, che pareva caldo caldo sotto quel largo cornicione coperto dalla neve, come da un cuscino di velluto bianco.

— Chi ci starà là dentro? — pensò l’Annuccia. — Vorrei starci io,

colle mie bambole, i miei canarini e il mio Giornale per i Bambini: io sola…

Ma un’idea balenò in quel punto alla sua mente. Luisa non le aveva detto con un’aria di mistero, che la fata buona abitava in un gran giardino vicino alla sua casa, alla casa di Annuccia?

La bambina guardò all’intorno. Dall’altra parte c’era pure un giardino, ma piccolo e nuovo, con certe piantine da bambole. Oh, no no: non può esser che qui, nel giardino della duchessa, che dicono sia il più grande e il più bello della città. E chi mai può abitare in quella casina di legno, nascosta in mezzo ai pini, sulla sponda del laghetto, se non una fata? Un desiderio ardente di vederla, quella buona fata, s’impadronì di Annuccia.

— Oh, se mi vedesse qui sola, e sapesse che la mamma mi ha lasciata a casa e mi sgrida sempre, verrebbe certo a consolarmi come consola tutti i bambini infelici! — E salì fin sull’ultimo scalino perché la fata potesse vederla caso mai s’affacciasse a un finestrino.

A un tratto il coricino parve volesse saltarle fuori! Immaginate che s’era accorta che il terreno al di là del muro era lì a un mezzo metro da lei, e con un salto ella poteva scendere nel giardino della fata!…

(Continua)

II

Un minuto dopo Annuccia si strisciava lungo i grandi olmi, verso la casina misteriosa. Poco mancò non cadesse nel laghetto, ma finalmente arrivò senza fiato e pallida per la commozione, sotto il largo tetto della casina di legno.

— Mio Dio! e se non fosse la casa della fata? — pensò. — E se saltasse fuori un canaccio?

In quel momento ella avrebbe voluto trovarsi ancora nel salottino della mamma a studiare la sua Perrette au pot-au-lait.

— E se ci sta proprio lei, la fata, che cosa mi dirà a trovarmi qui?… e che cosa dirò io a lei?

Svoltò pianino l’angolo della casa e si trovò davanti a un piccolo portico, a una veranda tutta chiusa da vetri. Essi erano così appannati che si stentava a distinguere bene che cosa ci fosse dentro, ma Annuccia appoggiò anche lì il suo nasetto, e le parve di vedere tre bambini vestiti di bianco, all’ombra di una palma, e con intorno piantine di rose e di giacinti fioriti.

La maggiore, una bambina sui dieci anni, era adagiata in una seggiola a sdraio, e aveva un aspetto patito, poverina, ma era tanto bella! e sorrideva tristamente ai suoi fratellini che giacevano vicino a lei.

Annuccia trasalì.

Dietro i tre bambini s’era sollevata una tenda turchina, e una figura di donna era apparsa, e vi rimaneva immobile.

Era lei! la buona fata! Vestita di nero, con una croce d’oro sul petto: i suoi capelli inargentati, fini, incorniciavano un viso pallido, affilato, triste; ma giovine e dolce nella sua tristezza.

Ella guardava quella bambina che stava affacciata ai vetri: poi lasciò ricader la tenda dietro di sé e s’avanzò lentamente.

— Chi è? — chiese con una voce tranquilla e colle labbra che s’aprivano a un sorriso — mentre spalancava i vetri. Annuccia si tirò da una parte e, per la prima volta forse, s’intimidì.

— Di dove vieni?

La bambina esitò un momento, poi rispose con una voce tremante: — Dal muro…

— Dal muro?!

— Sì… ho scavalcato il muro… del giardino.

— Ah! e perché? Chi cerchi?

— La buona fata — rispose Annuccia senza mai alzar gli occhi.

— La fata?… dei bambini infelici?

— Sissignore.

— Oh, vieni pure, carina, vieni dentro. — E presala per mano, entrò sotto il portico.

Annuccia si trovò in faccia ai tre bambini vestiti di bianco; e spalancò gli occhi sorpresa. Erano di marmo!

— Oh! — fece attonita; — poi dimandò sommessamente.

— Sono forse i tre poveri bambini morti della duchessa?

— Sì — rispose la fata — e accolse le tre belle testine di marmo in una lunga, dolorosa occhiata: poi sollevò la tenda turchina, e disse all’Annuccia: entra.

Che stanza di fata!… Alle finestre v’eran de’ vetri colorati gialli e azzurri, che mandavano una luce quieta, strana, che non pareva di questo mondo. Il soffitto di legno era dipinto a stelle d’oro, e le pareti erano azzurre, esse pure seminate di stelle: sopra una v’era dipinta una bella madonna prostrata ai piedi della croce. Non v’era altro mobile fuor che dei seggioloni torno torno e un gran scrittoio di legno scuro intagliato che pareva una cattedra di chiesa antica; esso era ingombro di grossi registri e di vasi di cristallo pieni di fiori.

La fata s’era seduta in uno de’ seggioloni antichi, e Annuccia, ritta davanti a lei, colle manine nelle sue, tremava paurosa e felice nello stesso tempo.

— Come ti chiami, piccina mia? — le chiese la fata sollevandole dolcemente il viso.

— Annuccia.

— Povera Annuccia! Tu hai dunque saputo che vi era in questo giardino…

— La buona fata.

— Già — replicò ella con un sorriso. — La fata de’ bambini abbandonati, de’ bambini che non hanno la mamma, de’ bambini, che senza colpa loro hanno preso a camminare per una cattiva via… Tu sei dunque infelice, mia povera piccina? Oh, dimmi il tuo dolore. Ti è forse morta la tua mamma?…

Annuccia ebbe un movimento di terrore. — Oh, no, no, no! l’ho la mamma mia! Non sono infelice, io!… Soltanto mi pareva… ma non è vero! non è vero! — E singhiozzò svincolandosi e correndo all’uscio per fuggire.

La fata riuscì a calmarla e ricondurla presso di sé.

— Guardami, Annuccia — le disse. — Lasciami guardare in fondo ai tuoi occhi.

La bambina sollevò verso di lei i suoi occhioni neri.

— Oh, come sono fieri e risoluti piccina mia! Vi è molto, molto foco: ma perché così poca dolcezza? L’occhio è lo specchio dell’anima. Che cosa vorrà dir questo, Annuccia?

Ella chinò la testa arrossendo, e non rispose.

— Sei docile e ubbidiente colla tua mamma?

— Credo, mi pare, ma lei… lei non è mai contenta! — proruppe piangendo di nuovo.

— Davvero? La tua mamma è dunque cattiva?

— No, ma…

— Ma ella comanda troppo, non e vero? e tu sei venuta a chiedere alla fata di far diventar buona la tua mamma.

Annuccia si sentiva sempre più confusa; eppure la voce della fata era così piena di bontà.

— Ebbene, piccina mia — seguitò — io ti dirò come le bambine possono rendere buone le loro mamme. Mettiti a sedere qui vicino a me: così. Dunque, senti: Quando la mamma dice: Annuccia, fai il tuo compito. E tu, presto! mettiti al tavolino e fallo. Quando la mamma dice: Annuccia, lascia un momento le tue bambole, e vieni ad aiutarmi in questa cosa. E tu, via, presto! le bambole a letto e: Eccomi, mamma! e l’aiuti. Io scommetto, mia cara, che dopo un mese ti parrà che la tua mamma sia la più buona mamma del mondo!

Le palpebre di Annuccia sbattevano, sbattevano: il rossore le saliva al viso, e insieme vi scoppiettava fuori da mille angolini una risatina irrefrenabile.

— Perché ridi, Annuccia?

— Non rido — rispose facendosi seria a un tratto, come fosse offesa. — Mi pareva… che lei mi canzonasse…

— Che ti pare! parlo sul serio: prova, e vedrai se ho scherzato. Hai capito: sempre dir di sì, sempre accorrere col visetto allegro… Di’: ti piace studiare, non è vero?

— Tanto! — rispose con ammirazione la bambina.

— Ma faccio così presto io, che è inutile, proprio inutile che mi ci metta appena levata. Lo dicevo anche oggi alla mamma, ma lei, anche per questo, mi ha sgridata.

La fata la guardava così fissa, che Annuccia si fermò turbata.

— Non abbassar gli occhi: lascia che veda bene, Annuccia. Mi pareva di scorgere una magagna nella tua animina. Ora, è vero, e appena appena abbozzata, ma col tempo potrebbe disegnarsi chiara, e allora sarebbe una gran disgrazia…

— Che cos’è — dimandò impallidendo la bambina.

— Ecco qua — e la fata la guardava negli occhi, co’ suoi occhi dolci, come se vi leggesse. E compitò:

L’intelligenza basta. Uh! tu devi correggere, e mettere un non davanti a quel basta così orgoglioso. Annuccia chiuse gli occhi turbata, ma la fata attirò quella testolina sul seno e le disse, accarezzandola, con la sua voce tranquilla e armoniosa:

— E un grande e bel dono quel che Dio ci fa dell’ingegno! e un uomo, quando lo ringrazia di avergli concesso un buon padre e una buona madre, e di dargli il pane quotidiano, non dovrebbe dimenticarsi di ringraziarlo anche dell’ingegno che gli ha dato. Perché un uomo deve ad esso la sua posizione, la stima che gode, il bene che fa… Ma per noi donne nella maggior parte de’ casi, l’ingegno è un egoismo. Scrivilo sul tuo quadernetto, quando sarai a casa, e rileggilo quando sarai grande, e capirai allora se la fata aveva o no ragione.

Ma la bontà, bambina! La bontà no: non è mai egoista: la bontà è generosa: dà tutto agli altri. È ad essa che noi donne dobbiamo le nostre maggiori soddisfazioni: essa che ci dà modo di rendere felici gli altri e di render felici anche noi stesse.

La buona fata si rizzò, riscotendosi, come se si ricordasse solo allora che stava parlando a una bambina di otto anni. Ma negli occhioni intelligenti di Annuccia lesse ch’ella aveva compreso, o almeno che ogni sua parola s’era scolpita nella memoria di lei, e un giorno ella ve le avrebbe ritrovate e le avrebbe certo capite.

— E ora vai a casa, bambina mia. La mamma può essere inquieta — disse.

— Oh, mi permetta di tornare — supplicò con dolcezza l’Annuccia.

— No, piccina. Tu hai vicino a te una fata più buona di me, di cui devi essere la consolazione. È a lei che tu devi chiedere soccorso ne’ tuoi piccoli dolori, è lei che tu devi render sempre contenta. Va’: io prometto di rivederti il giorno che la tua mamma sentirà che la sua Annuccia è buona come è intelligente. Sei contenta?

La bambina fece segno di sì, e sorrise commossa.

— Oh che bel giorno sarà quello! — esclamò.

— Un buon giorno, Annuccia! Addio.

Un minuto dopo Annuccia scendeva dalla sua scala a pioli e rientrava nel salottino della mamma, turbata e inebriata come se avesse fatto un sogno.

Il babbo e la mamma non erano ancora tornati e nessuno in casa s’era accorto del suo viaggio nel mondo della fata.

Sono passati cinque anni, nientemeno! da quel giorno. Una mattina del maggio passato, Annuccia saliva la gradinata della chiesa, vestita di bianco, con un velo bianco che l’avvolgeva come in una nuvola trasparente. Il suo viso era pallido e commosso, e i suoi grandi occhi neri e intelligenti guardavano innanzi con una espressione di bontà che le illuminava tutta la fisonomia. C’era tutta la sua famiglia con lei. La mamma, il babbo. la nonna, le zie e le cugine, e perfino le persone di servizio avevano voluto assistere alla prima Comunione della loro amata padroncina.

Quella mattina Annuccia pensò alla buona fata, e si dimandò — come faceva ogni giorno dopo le sue preghiere: — “Quando arriverà questo buon giorno? Sarà oggi?” — L’organo suonava nella vasta chiesa piena di gente: un raggio di sole entrò dal finestrone della cupola e fece brillare come un fascio d’oro gli atomi nell’aria, e le piccole nubi d’incenso che salivano salivano, e pareva portassero verso il cielo le preghiere di tutte quelle fanciulle inginocchiate davanti all’altare.

Fu il giorno più solenne nella vita di Annuccia. Mentre scendeva i gradini della chiesa, sollevò il viso raggiante verso il cielo sereno, aperse le labbra a quella buon’aria tepida e disse con una voce commossa alla sua mamma:

— Oh, che bel giorno, mamma!

Buon giorno, Annuccia! — emesse una voce dolce che la fece trasalire di gioia.

Appoggiata a una colonna della chiesa, c’era una signora alta, velata, vestita di nero, con una gran croce d’oro sul petto. Ella stese la sua mano alla fanciulla, che esclamò felice: Ah! la buona fata!

— … della fanciulla felice, non è vero? — le rispose con quella voce che pareva una musica triste ma consolante. E si perdé nella folla.

— Ma tu conosci quella signora? La buona duchessa di Mariano? — dimandò sorpresa la mamma di Annuccia.

— Sì, mamma: è la buona fata.

Poco dopo Annuccia, seduta nel salottino che s’apriva sul giardinetto, in mezzo alla mamma, alla nonna e a tutta la brigata, raccontò il suo viaggio nel mondo della fata, e la promessa ch’ella le aveva fatto di rivederla in un buon giorno.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Buon giorno Annuccia!
AUTORE: Sofia Albini
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti