Belinda e il mostro.

di
La Fata

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I

C’era una volta un ricco mercante che aveva sei figli; tre maschi, e tre femmine. Siccome era uomo molto saggio non risparmiò spesa né cura per dare loro una buona educazione. Le tre femmine erano molto bolle, specialmente la minore, la quale anche da piccola era chiamata da tutti Belinda. Era poi buona quanto bella e le sorelle s’ingelosivano di lei sentendola lodare da tutti.

Belinda non era soltanto più bella delle sorelle, ma aveva anche un carattere migliore, perché esse andavano superbe della loro bellezza e della loro posizione, avevano molto sussiego e ricusavano di far visita alle figlie degli altri mercanti, non volendo frequentare altro che persone di qualità.

Tutti i giorni andavano a balli, divertimenti e passeggi, e si burlavano della sorella minore, la quale perdeva il tempo a leggere e a lavorare. Era cosa nota che quelle ragazze avrebbero fatto bei matrimoni, poiché ricchi mercanti le avevano domandate in ispose; ma le due maggiori rispondevano sempre che per conto loro non avrebbero sposato altro che un duca o per lo meno un conte.

Belinda aveva anche più offerte che le sorelle; ma essa rispondeva di esser molto grata a quelli che domandavano la sua mano, ma che voleva stare alcuni anni col padre, e credeva di essere troppo giovine per maritarsi.

Ad un tratto, una perdita fortissima distrusse il patrimonio del mercante, al quale non rimase altro che una villetta in campagna.

Dopo quella sventura egli disse piangendo a calde lacrime:

— Figliuoli miei, bisogna ritirarci nella nostra casuccia in campagna, e là c’ingegneremo a lavorare perché non abbiamo più mezzi di sussistenza.

Le due figlie maggiori risposero che non sapevano lavorare, e volevano rimanere in città giacché v’erano tanti giovani, contentissimi di sposarle anche senza un picciolo di dote. Ma s’ingannavano davvero; quando i corteggiatori seppero la perdita fatta dal padre loro, dissero:

— Quelle ragazze erano tanto altere e vantavano così spesso le loro ricchezze che non è male che abbiano una lezione. Vedremo se faranno le superbe anche in mezzo alle vacche ed alle pecore.

Invece ognuno ebbe compassione della povera Belinda, perché era così dolce di carattere e cortese con tutti. Diversi signori saputa la sua sventura le offrirono di sposarla benché povera. Belinda ricusò le loro offerte dicendo che non poteva pensare ad abbandonare il padre in quel doloroso momento.

Da prima Belinda piangeva e si disperava, ma dopo poco tempo disse a sé stessa: — Disperandomi non rimedio a nulla; voglio vedere se riesco ad esser felice a dispetto della sorte.

Allorché andarono ad abitare la villetta, il mercante ed i tre figli si misero a vangare ed a seminare i campi ed il giardino. A Belinda toccò pure la sua parte di lavoro. Essa si alzava ogni mattina alle quattro, accendeva il fuoco, puliva la casa e allestiva la colazione per tutta la famiglia.

In sulle prime quelle occupazioni le parevano assai penose, ma man mano ci si avvezzò e le faceva volentieri. Il lavoro giovava inoltre moltissimo alla sua salute. Quando aveva terminato si divertiva leggendo, suonando o cantando mentre filava.

Le due sorelle maggiori non sapevano invece come passare il tempo. Esse facevano colazione a letto e non si alzavano fino alle dieci. Quasi sempre andavano a spasso, ma si stancavano subito, e spesso sedendosi all’ombra di un albero rimpiangevano le carrozze e le vesti eleganti.

Avrebbero detto a chiunque: — Che stupida ragazza che e mai la nostra sorellina, per contentarsi della vita che fa.

Ma il padre loro pensava molto diversamente ed amava ed ammirava moltissimo la dolcezza della sua figlia minore. Dopo che la famiglia ebbe vissuto un anno in quel modo, il mercante ricevé per lettera la notizia che uno dei suoi bastimenti, che credeva perduto, era entrato sano e salvo in porto. Questa notizia colmò di gioia le due figlie maggiori, le quali credettero che sarebbe terminata la vita meschina che menavano, e che avrebbero ricuperato tutte le belle cose a cui erano assuefatte.

Allorché il padre dovette mettersi in viaggio per andare al porto dove era ancorato il bastimento, le due sorelle maggiori lo pregarono di portar loro vesti, cappelli, anelli ed ogni sorta di ornamenti. Belinda invece non domandò nulla pensando che le ricchezze che conteneva il bastimento non sarebbero state sufficienti a comprare tutto quello che desideravano le sorelle.

— Belinda — disse il mercante — perché non mi domandi nulla: che cosa debbo portarti, carina mia?

— Giacché siete tanto buono da pensare a me, caro padre — rispose — sarei ben contenta se mi portaste delle rose, perché non ve ne sono nel nostro giardino.

Lo disse per non offendere le sorelle, ma Belinda in cuor suo non desiderava né rose né altro. Se avesse detto che non aveva alcun desiderio, le altre avrebbero supposto che volesse ingrazionirsi col padre.

Il mercante disse addio a tutti e si mise in cammino; ma quando giunse al porto ov’era ancorato il bastimento tante persone gli disputarono il carico, che dopo aver sofferte molte pene, ripartì per tornare a casa povero come prima.

Ad una trentina di miglia dalla sua villetta, ripensando alla gioia colla quale s’era separato dai suoi figli, fu sopraffatto dal dolore e si smarrì in una scura foresta. Pioveva e nevicava ed il vento inoltre era tanto forte che pareva dovesse ad ogni istante rovesciarlo da cavallo. Venne la notte ed ebbe paura di morire di freddo, di fame e sbranato dai lupi che sentiva ululare d’intorno.

(Continua)

II

Alfine si trovò all’imboccatura di un lungo viale e in fondo ad esso vide brillare un lume. Si diresse subito verso quel punto, e avvicinandosi scôrse uno splendido palazzo tutto illuminato. Il portone di bronzo era spalancato e metteva in un bel cortile, dove il mercante non vide anima viva.

Vi erano stalle bellissime e in una di esse legò il suo povero cavallo rifinito dalla fatica e dalla fame, e senza scrupoli gli dette biada e fieno. Poi uscì e penetrò in una vasta anticamera vuota. Di là andò in una bella sala da pranzo dove brillava un buon fuoco. La tavola era imbandita con eccellenti vivande, ma non v’era che un piatto e una posata. Si avvicinò al fuoco per asciugarsi la neve e l’acqua, pensando che il padrone di casa o qualcuno dei servi, i quali non potevano tardare a comparire, l’avrebbero scusato della libertà che prendeva.

Ma aspettò un pezzo e nessuno venne. Finalmente l’orologio suonò le undici e sentendosi venir meno dalla fame si ristorò con un pollo e due bicchieri di vino, ma tremava dalla paura mentre mangiava e beveva. Suonarono anche le dodici ed allora si fece coraggio e credé bene di guardare nel resto del palazzo se v’era gente. Aprì la porta in fondo alla sala e penetrò in una bella e vasta camera da letto e siccome era molto stanco, richiuse l’uscio, si spogliò e si coricò.

Erano le dieci della mattina quando aprì gli occhi e fu molto sorpreso di trovare abiti nuovi invece dei suoi che erano sporchi e consumati. — Sono certo — disse fra sé — che questo palazzo appartiene ad una buona fata che ha avuto compassione delle mie sventure. — Si affacciò alla finestra e invece di vedere il bosco tutto coperto di neve come la sera prima, scôrse bellissimi alberi rivestiti di ogni sorta di fiori.

Ritornando nella sala, dove aveva cenato la sera avanti, trovò la tavola preparata per la colazione.

— Davvero buona fata — esclamò il mercante — ti sono gratissimo delle attenzioni che mi usi! — e dopo aver ben bene mangiato prese il cappello per andare nella scuderia a far visita al suo cavallo, ma passando vicino ad un rosaio in fiore, pensò che Belinda gli aveva detto di portarle delle rose, e ne colse una rama.

Nel medesimo istante udì un gran rumore e vide venire verso di sé una bestia d’aspetto così orribile che metteva paura a guardarla.

— Uomo ingrato! — disse la bestia con voce spaventosa. — Vi ho salvato la vita accogliendovi nel mio palazzo, e voi per ricompensa rubate le mie rose che amo sopratutto. Ma sarete punito della vostra colpa, e morirete fra un quarto d’ora.

Il mercante si buttò in ginocchio e giungendo le mani disse:

— Signore, io vi chiedo umilmente perdono. Non credevo di offendervi cogliendo delle rose per una delle mie figlie che me le ha domandate. Non mi uccidete signor mio!

— Non sono un signore, ma una bestia — replicò il mostro. — Odio i complimenti e non saprete intimorirmi in nessuna maniera. Mi avete detto che avete delle figlie. Vi concederò la vita purché una di esse venga a morire in vostra vece. Se no, promettetemi di tornare voi stesso fra tre mesi, per morire nel modo che io sceglierò.

Il buon uomo non pensava neppure a far morire una delle figlie per aver salva la vita, ma rifletté che accettando la proposta del mostro poteva rivederle. Così fece la promessa, e aggiunse sarebbe tornato più presto che poteva.

— Ma — disse la bestia — non voglio che andiate a casa colle mani vuote. Tornate nella camera ove avete dormito, e troverete là una cesta; empitela di quel che più vi piace e portatela a casa.

Dopo aver dette queste parole il mostro scomparve. Il buon mercante rimasto solo, incominciò a pensare che doveva morire — perché non voleva rompere la promessa fatta alla bestia — ma gli era di conforto il pensiero di non lasciare sprovvista la propria famiglia.

Ritornò in camera e ci trovò mucchietti di monete sparse qua e là. Ne empì la cesta fino all’orlo, la chiuse, salì a cavallo e lasciò il palazzo tanto infelice quanto era felice quando vi entrò.

Il cavallo prese un sentiero nella foresta e in poche ore giunsero alla casa del mercante.

Le figlie gli corsero incontro, ma invece di abbracciarle con gioia non poté trattener le lagrime vedendole. Teneva in mano la rama di rose e nel darla a Belinda disse:

— Prendila, ma non puoi figurarti come costi cara al tuo povero padre — e allora narrò quanto aveva veduto e udito nel palazzo del mostro.

Le due sorelle maggiori incominciarono a piangere ed a rimproverare Belinda che era, come dicevano, causa della morte del padre.

— Eccola lì — dicevano le sorelle — tutta colpa del suo orgoglio: non poteva chiedere cose come le nostre? Ma la signorina bisogna che si distingua dalle altre persone; a pensare che sarà cagione della morte del babbo, e non versa neppure una lagrima!

— Sarebbe inutile che piangessi — rispose Belinda — perché mio padre non morirà. Il mostro ha detto che si contenterebbe di una delle figlie in vece sua; mi sacrificherò io, felice di provare il mio affetto al migliore dei padri.

— Ma sorellina — esclamarono ad una voce i tre fratelli — ciò non accadrà: andremo in cerca di quel mostro e morirà lui e moriremo noi.

— Non potete sperare di ucciderlo — disse il mercante — poiché esso è potentissimo. Ma la povera Belinda non dev’essere sacrificata. Io sono vecchio né posso sperare di viver lungamente; gli do volentieri i pochi anni di vita che mi rimangono per il bene dei miei figli.

— No babbo! — esclamò Belinda — sarebbe inutile che tu andassi dal mostro; non potresti impedirmi di seguirti. Benché giovane non sono attaccata alla vita e preferirei esser divorata dal mostro, piuttosto che morire di dolore per averti perduto.

Il mercante cercò invano di vincere la fermezza di Belinda, essa fu incrollabile. Le sorelle gioivano internamente; esse erano gelose dell’affetto che ognuno le dimostrava.

Il mercante invece era profondamente afflitto di perdere sua figlia e non pensava più alla cesta piena d’oro, ma la sera, con sua grandissima sorpresa, se la trovò accanto al letto. Non disse nulla delle ricchezze che possedeva alle due figlie maggiori, sapendo bene che avrebbero voluto ritornare in città, ma disse a Belinda il suo segreto, e questa lo informò che nella sua assenza erano venuti due signori che s’erano invaghiti delle sue sorelle. E Belinda pregò il babbo che glie le desse subito in moglie, perché era dolce di carattere e godeva vedendo le persone felici.

I tre mesi passarono molto presto e allora il mercante e Belinda si misero in cammino per andare al palazzo della bestia. Le sorelle s’erano stropicciati gli occhi colla cipolla per versare molte lagrime, però il mercante ed i figli piangevano davvero. Belinda soltanto aveva gli occhi asciutti.

In poche ore giunsero al palazzo, ed il cavallo andò da sé alla stalla dove s’era riposato la prima volta. Il mercante e Belinda si diressero verso la sala da pranzo e trovarono la tavola coperta di cose squisite e apparecchiata per due. Il padre aveva poco appetito, ma Belinda che sapeva meglio dominare il suo dolore, si mise a tavola e cercò di consolare e distrarre il padre dicendogli che era sicura che la bestia voleva farla ingrassare prima di mangiarla, altrimente non avrebbe preparato pietanze così gustose.

Allorché erano così seduti a cena, udirono un grandissimo rumore e il povero vecchio incominciò a congedarsi dalla figlia, perché sapeva che la bestia stava per giungere. Belinda appena vide il mostro fu spaventata, ma riuscì a domare lo spavento. Il mostro le si avvicinò, la guardò da capo a piede domandandole con voce terribile se era venuta in vece del padre.

— Sì! — rispose Belinda.

— Siete una buona fanciulla e vi sono molto grato.

La risposta era tanto cortese che sorprese Belinda e le rese coraggio. Ma lo perdé di nuovo allorché il mostro dirigendo la parola al padre gli disse che desiderava partisse la mattina di poi per non più tornare al palazzo.

— Buona notte mercante. Buona notte Belinda.

— Buona notte bestia — rispose quando il mostro usciva dalla stanza.

— Mia cara figlia — disse il mercante baciandola — sono mezzo morto pensando di doverti lasciare con quella bestia terribile, parti e rimarrò io qui.

— No — disse Belinda risolutamente — non lo farò mai; tu devi tornare a casa domattina.

Si augurarono scambievolmente la buona notte e andarono a letto sicuri di non poter chiudere occhio. Ma quasi subito si addormentarono, invece, placidamente per non svegliarsi altro che la mattina seguente.

Belinda sognava che una signora si avvicinava a lei dicendole: — Sono ben contenta Belinda che tu abbia dimostrata affezione a tuo padre da sacrificare la tua vita per lui. Non temer di nulla, e sarai ricompensata.

Appena Belinda fu desta raccontò al padre il sogno che aveva fatto, ma nonostante egli non poté consolarsi e ci volle molto tempo prima di poterlo convincere a partire. Finalmente Belinda lo vide allontanarsi sano e salvo.

Quando non lo scorse più Belinda incominciò a piangere amaramente. Ma essendo coraggiosa, risolse di non affliggersi soverchiamente, tanto sapeva che era inutile, e di tollerare con pazienza la sua sorte. Si mise a girare per il palazzo e le piacque molto l’eleganza di esso.

Ma quale fu la sua sorpresa quando vide una porta, sulla quale stava scritto Camera di Belinda. L’aprì in fretta e fu abbagliata dallo splendore e dal lusso con cui era addobbata. Ma ciò che maggiormente destò la sua meraviglia, fu una bella libreria con molti libri, un’arpa e diversi pezzi di musica.

— Il mostro non pensa certo a divorarmi subito — disse, — se ha cura che mi diverta.

Aprì la libreria e sulla copertina di un libro, scritti in caratteri dorati, lesse i seguenti versi:

Bella dama asciuga il pianto
Di tremar non hai cagione,
Poiché ognun nella magione
Ubbidire deve a te.

— Dio sia lodato! — esclamò — vorrei soltanto vedere il mio povero babbo e sapere cosa fa in questo momento. — Volgendo gli occhi su uno specchio che aveva a portata di mano, vide dentro di esso un quadro che rappresentava la vecchia casa e suo padre che cavalcava pensieroso in prossimità di quella. Le sorelle gli andarono incontro, e benché facessero finta di essere afflitte, era facile accorgersi che in cuore erano ben felici. In breve il quadro sparì, ma fece pensare a Belinda che il mostro oltre all’essere molto potente, era pure molto gentile.

A metà della giornata trovò la tavola bene apparecchiata per lei sola, e durante il pranzo suonava una buona orchestra invisibile. Ma quando fu per sedersi a cena udì lo strepito che faceva il mostro e non poté fare tanta forza a sé stessa da non tremare.

— Belinda, mi volete concedere il permesso di assistere alla vostra cena?

— Fate quel che vi pare — rispose spaventata.

— Non dovete rispondermi così — disse il mostro. — Voi sola comandate qui e se non potete sopportare la mia vista, ditelo pure che io sparirò subito. Ma confessate, Belinda, non vi paio troppo brutto?

— Sì, sì — rispose non so dir bugie; ma siete, credo, molto buono.

— È vero, sono buono — replicò il mostro — ma oltre ad essere brutto sono anche molto stupido. Lo so bene che sono una vera bestia.

— Vi sono molte persone stupide che non si riconoscono.

Udendo queste cortesi parole la bestia parve tutta contenta e rispose gentilmente:

— Vi contentate che vi serva a tavola? Vedrete che non vi mancherà nulla. Tutto ciò che vedete vi appartiene e mi dispiacerebbe se abbisognaste di qualcosa.

— Siete molto gentile, tanto gentile che fate dimenticare la vostra bruttezza — disse Belinda seriamente.

— Sì! — rispose la bestia felice — spero di avere un buon carattere, ma sono sempre un mostro.

— Vi sono molti mostri che hanno aspetto umano; dei due è meglio aver cuore d’uomo e forma di bestia.

— Vorrei ringraziarvi Belinda, ma non sono capace di dirvi qualcosa che possa andarvi a genio — replicò la bestia con voce afflitta, e mostravasi così infelice e buona che Belinda, la quale aveva il miglior cuore del mondo, cessò di aver paura. Cenò con molto appetito parlando con quella sua manierina affettuosa e aggraziata, ma da ultimo, quando la bestia stava per uscire, fu atterrita nuovamente sentendosi dire a un tratto.

— Belinda, volete sposarmi?

Allora Belinda dovette confessare la verità, perché suo padre le aveva detto che la bestia amava di sentirsela dire. Così rispose con voce ferma:

— No, bestia.

Il mostro non andò in collera, si mostrò soltanto afflitto e partì.

Allorché Belinda fu sola, incominciò ad aver pietà di esso.

— Peccato — esclamò — che metta paura a vederlo, sarebbe tanto buono!

Belinda passò tre mesi nel palazzo e vi stava molto bene. La bestia andava a tenerle compagnia ogni sera all’ora della cena; i suoi discorsi non erano molto arguti, ma rivelavano sempre maggior bontà.

Invece di tremare quando doveva giungere il mostro, essa guardava costantemente l’orologio per sapere quanto mancava alle nove, ora in cui le faceva visita. Le dispiaceva soltanto di sentirsi domandare ogni sera se voleva sposarlo e di dover rispondere no.

Finalmente una sera Belinda disse al mostro:

— Mi dispiace molto che mi forziate così spesso a rifiutare le vostre offerte. Vorrei potervi voler tanto bene da sposarvi, ma devo dirvi che non credo sarei felice. Vorrei però esservi sempre amica; cercate di contentarvi così.

— Devo contentarmi perché so bene quanto sono spaventoso, ma vi voglio più bene che a me stesso. Sono felice che stiate volentieri con me e promettetemi Belinda, che non mi lascierete mai.

Belinda avrebbe voluto prometterlo e soffriva per lui, ma in quel giorno aveva veduto nello specchio magico, nel quale guardava sempre, il suo povero babbo che moriva dal dolore di averla perduta.

— Ohimè! — disse — desidero da tanto tempo di rivedere mio padre che mi sento spaccare il cuore.

— Vorrei piuttosto che schiantasse il mio, Belinda — rispose la bestia. — Vi manderò a casa di vostro padre, ma se vi rimarrete la povera bestia morirà di dolore.

— No! — esclamò Belinda — Vi voglio troppo bene per esser causa della vostra morte. Vi prometto di tornare fra una settimana. Sapete che le mie sorelle si sono maritate, che i miei fratelli sono andati a fare i soldati, così mio padre è solo. Lasciatemi stare una settimana con lui.

(Continua)

III

Belinda trovatevi da lui domani mattina. Ma non dimenticate la promessa. Quando volete tornare dovete soltanto posare il vostro anello sulla tavola quando andate a letto. Buona notte Belinda.

La bestia sparì pronunziando quelle parole, e Belinda andò a letto afflitta di vederla addolorata.

Nello svegliarsi la mattina si trovò nella casa di suo padre. Suonò il campanello che era da un lato del letto, e comparve una serva, ma, appena vide Belinda si mise a urlare. Il mercante accorse e vedendo la figlia la baciò e ribaciò mille volte.

Finalmente Belinda si rammentò che non aveva vestiti, ma la serva le disse che appunto nella stanza vicina aveva trovato una gran canestra piena di splendide vesti ricamate in oro e ornate di perle.

Belinda ringraziò in cuor suo il mostro e si mise lo abito più semplice che trovasse. Gli altri disse alla serva di riponerli perché voleva darli alle sorelle. Ma appena ebbe pronunziate queste parole la cesta sparì. Il padre disse che forse era meglio li avesse serbati per sé, e subito videro la cesta ricomparire al posto dove era prima.

Allorché Belinda fu vestita la serva andò a dirle che le sorelle erano giunte coi loro mariti per fare una visita. Esse non vivevano felici insieme coi signori che avevano sposati. Il marito della maggiore era molto bello, ma anche molto vano e non pensava dalla mattina alla sera altro che a sé, così non aveva tempo di pensare alla bellezza della moglie. La seconda aveva sposato un uomo molto dotto, ma egli non faceva uso delle sue cognizioni altro che per tormentare ed offendere gli amici e più di tutti la moglie.

Le due sorelle furono lì lì per crepare di dispetto quando videro Belinda vestita come una principessa e bella quanto mai. Non fecero attenzione a tutte le gentilezze che disse loro, ma più di tutto s’indispettirono udendo che viveva felice nel palazzo della bestia. Quelle invidiose creature andarono in giardino a sfogare la loro collera.

— Non si sa perché quello scricciolo debba essere più fortunata di noi che siamo più belle di lei!

— Sorella — disse la maggiore — mi viene un’idea in testa. Tratteniamola qui più del tempo che le ha accordato la bestia. Quando tornerà al palazzo sarà tanto infuriata che forse la discaccierà subito.

— Ben pensato — rispose l’altra — ma per trattenerla qui bisogna mostrarsi molto gentili.

Tutte e due andarono a raggiungerla in casa e le dimostrarono tanta falsa affezione, che Belinda non poté trattenersi dal gridare dalla gioia.

Terminata che fu la settimana le due sorelle mostrarono tanto dolore di perderla, che essa accondiscese a rimanere una settimana di più, ma tutto quel tempo Belinda tremò pensando al dolore che cagionava alla povera bestia, perché l’amava sinceramente e desiderava la sua compagnia. Fra tutta la gente di distinzione che vedeva non trovava nessuno buono, amoroso, premuroso e gentile quanto il mostro.

La decima notte che passava nella villa sognò d’essere nel giardino del palazzo; la bestia giaceva su un praticello erboso e col suo ultimo respiro le rammentava la promessa. Belinda si destò spaventata e scoppiò in lagrime.

— Sono veramente cattiva — disse — facendo soffrir tanto il povero mostro che mi dimostrava tanta bontà. Perché non lo sposo? Sono sicura che sarei più felice con lui che le mie sorelle coi loro mariti. Non deve soffrire più a lungo per me, altrimenti ne sentirei rimorso per tutta la vita.

Si alzò, posò l’anello sulla tavola e dopo tornò a letto dove si addormentò subito. La mattina destandosi s’accorse con gioia di essere nel palazzo della bestia. Si vestì con cura per piacere al mostro e le parve di non essere mai stata così lenta. Finalmente l’orologio sonò le nove, ma il mostro non venne! Belinda sgomentata pensando di avergli cagionato la morte, percorse correndo una stanza dopo l’altra urlando:

— Bestia, cara bestia! — ma non ottenne risposta.

Ad un tratto si rammentò del sogno, andò in giardino, e sul prato vide il mostro disteso vicino alla fontana, come morto. Dimenticando la sua bruttezza, si gettò in terra per sentire se il cuore batteva, gli spruzzò d’acqua la faccia piangendo e singhiozzando.

La bestia aprì gli occhi.

— Avevate dimenticata la promessa Belinda, ed io voleva morire, perché senza di voi non potevo vivere. Mi uccidevo non prendendo cibo, ma ora morirò contento perché vi ho riveduta.

— No cara bestia — esclamò Belinda disperata — non dovete morire, dovete vivere per sposarmi. Credevo di provare soltanto amicizia per voi, ma sento affetto vero.

Nel momento in cui Belinda pronunziava quelle parole il palazzo s’illuminò da cima a fondo, si udirono da ogni lato grida di gioia, suoni, ma Belinda non vi faceva attenzione, commossa com’era. Finalmente si mise le mani al viso e pianse di gioia. Quando guardò intorno a sé la bestia era sparita. Al suo posto vide inginocchiato dinanzi a lei un grazioso principe che la ringraziava colle più tenere parole di averlo liberato dall’incantesimo.

— Ma dov’è il mio povero mostro? Io voglio lui solo — disse singhiozzando Belinda.

— Il mostro sono io — rispose il principe — una fata cattiva mi aveva condannato ad avere le sembianze di bestia, e mi aveva proibito di dar prova di senno e di ingegno, finché una bella fanciulla non mi sposasse. Tu soltanto, cara Belinda, non mi giudicasti dall’aspetto, e dalle qualità della mente. Tu apprezzasti soltanto il mio cuore; esso ti appartiene per tutta la vita.

Belinda, piena di meraviglia, ma felice, permise al principe di accompagnarla al suo palazzo dove trovò il padre e le sorelle, portate là dalla buona fata che erale apparsa in sogno la prima notte che aveva passato nel palazzo.

— Belinda — disse la fata — avete scelto bene, e siete ricompensata; vale più un buon cuore, che la bellezza e l’ingegno. In quanto a voi signore — aggiunse volgendosi verso le sorelle — conosco tutte le vostre cattive azioni, ma non v’è punizione più dura per voi di quella di sapere vostra sorella felice. Sarete convertite in statue e sarete collocate alla porta del palazzo di Belinda, ma se vi pentirete delle vostre colpe, potrete ridiventare donne. Ho paura peraltro che resterete statue per sempre.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Belinda e il mostro
AUTORE: La Fata

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.

SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti