Il medico miracoloso
John Silence
Caso IV. Culto segreto

di
Algernon Blackwood

tempo di lettura: 57 minuti


Harris, il commerciante di sete, si trovava in un paese della Germania meridionale in procinto di ritornare a casa da un viaggio d’affari, quando gli venne improvvisamente l’idea di prendere la ferrovia di montagna da Strasburgo e di andare a visitare la sua vecchia scuola, dopo qualche cosa come oltre trent’anni. E fu a questo impulso casuale del più giovane socio della ditta Harris Brothers di St. Paul’s Churchyard che il Dr. Silence dovette uno dei casi più curiosi di tutta la sua esperienza. In quel medesimo istante, egli percorreva infatti quegli stessi monti con un zaino da turista sulle spalle, e, da punti diversi, due uomini si dirigevano verso la medesima trattoria.

Ora, in fondo al cuore di Harris, che per trent’anni si era dedicato con profitto all’acquisto e alla vendita della seta, quella scuola aveva lasciato l’impronta di una influenza tutta particolare, e, forse a sua insaputa, aveva colorato a forti tinte tutta la sua esistenza successiva. Quella scuola faceva parte della vita profondamente religiosa di una piccola comunità protestante (che non occorre specificare), e suo padre ve lo aveva mandato all’età di quindici anni, sia perchè apprendesse le usanze germaniche sullo sviluppo degli affari della seta, sia perchè la disciplina vi era rigida, e la disciplina era quanto alla sua anima e al suo corpo allora per l’appunto occorreva, più di ogni altra cosa.

La vita infatti si era dimostrata oltremodo severa, in quel luogo, e il giovane Harris ne beneficiò appunto per questo. Sebbene la punizione corporale vi fosse sconosciuta, vigeva colà un sistema di correzione mentale e spirituale che rendeva in qualche modo l’anima orgogliosa della correzione stessa, mentre colpiva il fallo alla sua stessa radice e insegnava al ragazzo che il suo carattere stava per essere purificato e rafforzato, e che egli non veniva punito unicamente per una specie di rappresaglia personale.

Erano passati trent’anni, ed era a quel tempo un giovanetto di quindici anni, trasognato e impressionabile. Ora, mentre il treno saliva lentamente fra le gole tortuose della montagna, la sua mente viaggiava a ritroso, con viva tenerezza, verso quel suo remoto passato, e particolari dimenticati sorgevano nuovamente, vividi, davanti a lui, dalle ombre lontane. La vita era stata tanto meravigliosa, gli sembrava, in quel villaggio di montagna, protetto, contro i tumulti del mondo, dall’amore e dalla religiosità della pia Confraternita che sopperiva ai bisogni di un centinaio di ragazzi, venuti da ogni paese di Europa. Le scene di quella vita gli si riaffacciavano ben distinte. Respirava di nuovo l’aria dei lunghi corridoi di pietra, delle calde stanze in legno di pino, dove trascorreva le ore afose dello studio estivo, mentre le api ronzavano attraverso le finestre spalancate, e i paesaggi della Germania lottavano nella sua mente coi sogni delle radure inglesi. Poi, all’improvviso, gli giungeva il grido imperioso del maestro in lingua tedesca:

«Harris, alzatevi! Non dormite!».

Ricordava quel terribile doversene stare immobile, per un’ora, col libro in mano, mentre le ginocchia gli sembravano di cera e la testa gli diventava più pesante di una palla di cannone.

Perfino il profumo del vitto gli ritornava alla mente… i crauti acidi di ogni giorno, la cioccolata acquosa delle domeniche, l’aroma della carne fibrosa servita due volte alla settimana, all’ora del pranzo. E sorrideva ripensando alle mezze razioni che erano la punizione per gli errori della lezione di inglese. Lo stesso odore delle scodelle di latte, l’aroma caldo e dolce che si levava dal pane rustico inzuppato nella colazione delle sei, gli ritornavano ben distinti nella mente. Vedeva l’enorme sala da pranzo con quei cento ragazzi in divisa scolastica, tutti intenti a mangiare, sonnacchiosi e muti, intenti a trangugiare il pane scuro e il latte bollente, col terrore della campana che avrebbe presto troncato ogni loro agio… All’estremità lontana, dove sedevano i maestri, vedeva la finestra, stretta, come una feritoia con la vista seducente dei campi e dei boschi in lontananza.

Questo lo faceva pure pensare alla grande stanza simile a un granaio, all’ultimo piano, dove tutti i ragazzi dormivano insieme, su giacigli di legno. Udiva nel ricordo il crudele scampanìo che li svegliava nei mattini di inverno, alle cinque, e li faceva accorrere nella sala lastricata dove si lavavano e dove ragazzi e maestri, dopo uno scarso e gelido lavacro, si vestivano in assoluto silenzio.

Da qui, la sua mente passava rapidamente, con vivaci fantasticherie, ad altre cose. Con un brivido passeggero, ricordava quanto lo avesse angustiato il tormento di non poter mai essere solo. Ogni cosa; lavoro, pasti, sonno, passeggiate, ozio, doveva svolgersi nella sua «squadra» di venti altri ragazzi, sotto gli occhi di almeno due maestri. L’unica solitudine possibile consisteva nel chiedere di soffermarsi per mezz’ora nelle stanze della musica, simili a celle, e Harris sorrideva tra sè al ricordo dello zelo che aveva perciò messo nello studio del violino.

Mentre il treno sbuffava faticosamente attraverso le vaste foreste di pini, che ricoprono quei monti di un gigantesco tappeto di velluto, rievocava gli strati più piacevoli della memoria come risuscitati dalla morte. Ricordava ammirato la gentilezza dei maestri, che tutti chiamavano «fratello». Si meravigliava ancora della loro devozione nel seppellirsi così, in quel luogo, per degli anni, solo per lasciarlo, nella maggior parte dei casi, per una vita anche più dura, quali missionari nelle regioni più impervie del mondo.

Ripensava all’atmosfera tranquilla e religiosa che pendeva come un velo sulla piccola comunità della foresta, tenendo lontano il mondo afflitto e affliggente; le pittoresche cerimonie di Pasqua, Natale e Capodanno, numerosi giorni festivi ed i piccoli festini incantevoli. La festa della befana, particolarmente, risuscitava nella sua memoria, i giorni in cui tutta la comunità si faceva in quattro per distribuire dei regali, molti dei quali erano costati settimane di fatica o i risparmi di mesi. Vedeva la cerimonia di mezzanotte, nella chiesa, a capodanno, e il volto raggiante del predicatore del villaggio sul pulpito. L’ultima notte dell’anno, il vecchio predicatore poteva vedere laggiù, nella galleria, i volti di coloro che avrebbero anche potuto morire nell’anno nuovo, e pensava che anch’egli avrebbe potuto morire…. E a metà della predica, passava in uno stato di rapimento estatico, e si abbandonava a cantare fiducioso le lodi al Signore.

I ricordi gli si addensavano intorno. La visione di quel piccolo villaggio sognante la vita di abnegazione fra le vette dei monti, in una vigorosa comunanza con Dio, la educazione con quei cento ragazzi, per il grande cammino della vita, gli sorgeva nella mente con tutto il fascino di un lontano incantesimo. Sentiva di nuovo l’antico mistico entusiasmo, più profondo del mare e più meraviglioso delle stelle. Sentiva di nuovo i venti sospirare per chilometri e chilometri di foreste, sui tetti rossi, nel chiaro di luna. Sentiva le voci dei Fratelli parlare delle cose dell’al di là, come se le avessero effettivamente sperimentate col corpo… Mentre sedeva nel treno traballante, uno spirito di ineffabile nostalgia passava nella sua anima stanca e inaridita, agitando, nel profondo del suo essere un mare di emozioni che da molto tempo credeva raggelato e immobilizzato.

Il contrasto gli era purtroppo penoso… Allora, il sognatore idealista, ora, l’uomo d’affari… Un sentimento di pace e di bellezza che non era più di questo mondo, gli toccava il cuore, movendo stranamente la superficie delle sue acque tranquille.

Harris rabbrividiva un poco e guardò fuori del finestrino della vettura vuota. Il treno aveva da tempo sorpassato Hornberg. Lontano, in fondo, i torrenti precipitavano in bianche schiume, giù, per le rocce di calcare. Di fronte a lui, vette di montagne selvose si profilavano contro il cielo. Era il mese di ottobre. L’aria era fresca e tagliente, esalazioni di bosco e muschio si mescolavano squisitamente col profumo dei pini. In alto, fra le cime degli abeti più alti, vide spuntare le prime stelle. Il cielo era di un puro e pallido colore d’ametista, lo stesso colore di cui tutti quei ricordi si rivestivano nella sua mente.

Reclinò il capo nel suo angolo e sospirò. Era un uomo grave. Non aveva nutrito per anni sentimenti del genere. Era un pezzo grosso, e, di solito, ci voleva parecchio per smuoverlo. I sogni sereni che frequentano l’anima nella gioventù, benchè ricoperti dalle scorie che si accumulano nella lotta per la vita, non erano tuttavia completamente morti in lui.

Stava ora per rientrare in quel piccolo lembo negletto degli anni, in cui tanto oro purissimo si era accumulato per giacervi indisturbato, con le palpitanti emozioni di una eletta spiritualità. Mentre osservava le cime dei monti che si avvicinavano, e aspirava i profumi dimenticati della sua infanzia, qualche cosa si fuse alla superficie della sua anima lasciandogli una strana sensibilità ch’egli aveva già conosciuta, nella sua intensità trent’anni prima.

Un brivido lo pervase quando il treno si fermò con un sobbalzo davanti a una minuscola stazione e vide il nome, a grandi lettere nere, sulla grigia costruzione di pietra. Sul muro era indicato il numero dei metri a cui la stazione si trovava, sopra il livello del mare.

«Il punto più alto della linea!» esclamò. «Come lo ricordo bene… Sommerau… ‘Prato d’Estate’. La prossima stazione è la mia!…».

Mentre il treno correva a valle, coi freni alle ruote, sbuffando nuvole di fumo, sporse la testa fuori del finestrino. L’uno dopo l’altro, riconobbe nel crepuscolo i segni distintivi che gli erano familiari e che lo fissavano, come visi di morti, in una visione di sogno. Strani, acuti sentimenti, in parte molesti, in parte dolcissimi, gli si agitavano nel cuore.

«Ecco la strada, calda, bianca, che spesso percorrevamo coi due «Fratelli» sempre alle calcagna», pensava. «Ed ecco, perbacco!, c’è la svolta attraverso la foresta verso le ‘Forche’, forche di pietra, dove impiccavano le streghe nei giorni lontani!».

Sorrise un po’, quando il treno vi passò accanto.

«Ecco la radura in cui Calame, il ragazzo francese, cacciava le farfalle con me, e il Fratello Pagel ci appioppava mezze razioni per aver abbandonato la strada senza permesso…».

Rise di nuovo, a quei ricordi che gli rievocavano nella mente vividi particolari.

Il treno si fermò, ed egli rimase ritto sul marciapiede di ghiaia come assorto in un sogno. Gli pareva che fosse passato mezzo secolo da quel giorno lontano in cui vi aveva atteso il treno, coi bauli di legno legati da corde, ed era ripartito per Strasburgo, per tornare a casa dopo un esilio di due anni. Il tempo gli cadde addirittura di dosso come un vecchio vestito e si sentì di nuovo ragazzo. Ma le cose sembravano assai minori del ricordo che egli ne conservava. Apparivano contratte e rimpicciolite, e le distanze diminuite ad una curiosa scala ridotta.

Si avviò per la strada, in direzione della piccola osteria e, mentre camminava, i visi e le figure dei compagni di scuola di una volta, tedeschi, svizzeri, italiani, francesi, russi, uscivano dai boschi ombrosi e lo accompagnavano. Scorrazzavano al suo fianco, levando nei suoi occhi degli sguardi interrogativi, tristi. I loro nomi li aveva dimenticati. Anche alcuni «Fratelli» erano con loro, e la maggior parte di essi li ricordava per nome… il Fratello Röst, il Fratello Pagel, il Fratello Schliemann… e la faccia barbuta del vecchio predicatore che aveva visto proprio lui, nella galleria, fra quelli predestinati a morire… il Fratello Gysin, ed altri ancora… La oscura foresta giaceva intorno a lui come un mare che ad ogni momento avrebbe potuto avventarsi con onde di velluto sulla scena e spazzar via tutti quei visi. L’aria era fresca e meravigliosamente fragrante, ma con ogni soffio profumato veniva a lui un pallido ricordo…

Eppure, malgrado il fondo di tristezza di tutti quei vecchi ricordi, la rievocazione era interessantissima ed offriva un piacere del tutto particolare, tanto che Harris, felicissimo, impegnò una stanza e ordinò la cena, con l’intenzione di andare su a rivedere la vecchia scuola quella stessa sera. Essa si ergeva al centro del villaggio, a circa quattro miglia di distanza al di là della foresta. Ricordò ora per la prima volta che la piccola colonia protestante si trovava isolata in una parte del paese, che per il resto era tutto cattolico. Crocifissi e santuari circondavano quella radura, come le sentinelle di un esercito assediante. Al di là del piazzale del villaggio, coi suoi pochi acri di campi e di orti, la foresta si infittiva in solide falangi. Oltre il margine degli alberi, cominciava il paese, dominato dai sacerdoti di un’altra fede. Ricordava pure vagamente che i cattolici avevano talvolta manifestato una certa ostilità contro la piccola oasi protestante che fioriva, tranquilla e benigna, in mezza a loro. Tutto ciò, appariva di ben poca importanza, in confronto alla sua vasta esperienza della vita e la sua conoscenza di altri paesi, nel vasto mondo. Era come un camminare a ritroso, non di trenta, ma di trecento anni.

C’erano soltanto due altri, oltre a lui, a cena. L’uno di essi, un uomo barbuto, di media età, vestito di lana, sedeva nel punto più lontano, ed Harris lo evitò, perchè era inglese anche lui. Temeva fosse là per affari, magari per trattare seta, e che avrebbe forse parlato dei suoi affari. L’altro era invece un prete cattolico. Era un uomo piccolo, che mangiava l’insalata col coltello, ma con tanta gentilezza da parere quasi inoffensivo. Fu quella vista del «clero» che gli richiamò il ricordo del vecchio antagonismo. Harris parlò dello scopo sentimentale del suo viaggio, e il prete lo guardò fisso con sopracciglia corrugate e con un’espressione di sorpresa e sospetto che lo urtò e che attribuì alla differenza di fede.

«Sì!» continuò il commerciante di seta, compiaciuto di parlare di cose di cui la sua mente era piena. «È stata una curiosa esperienza, per un ragazzo inglese come me, di trovarmi buttato là, in quella scuola, fra un centinaio di stranieri. Ne ricordo bene la solitudine e l’intollerabile nostalgia, al primo momento». Il suo tedesco era assai scorrevole.

Il prete di fronte a lui alzò lo sguardo, dal suo vitello freddo con patate in insalata, e sorrise. Ancora un bel volto. Spiegò tranquillamente che non era del paese, ma stava facendo un giro fra le parrocchie del Württemberg e del Baden.

«Era una vita rigida», aggiunse Harris. «Noi inglesi, ricordo, la chiamavamo addirittura una vita da coatti!».

Il volto dell’altro, per qualche ragione inesplicabile, si offuscò. Dopo una lieve pausa, più per cortesia che per desiderio di continuare nell’argomento, disse tranquillamente:

«Era una scuola fiorente, a quell’epoca, infatti. In seguito, ho inteso dire…». Ma si strinse lievemente nelle spalle. Quello strano sguardo, che gli parve quasi allarmante, gli ritornò negli occhi. La frase rimase in sospeso.

Qualche cosa, nel tono di quell’uomo, riuscì sgradito al suo ascoltatore… in un senso offensivo, assolutamente singolare. Harris si trattenne, suo malgrado.

«Si è cambiata?» domandò. «Cosa volete dire? Non potrei crederlo…».

«Non avete dunque sentito?» osservò il prete gentilmente, facendo un gesto come se volesse interrompersi, ma continuò. «Non avete sentito cosa vi è accaduto, prima che venisse abbandonata…?».

Era proprio puerile, davvero! Era forse stanco o estenuato, ma le parole e le maniere del piccolo prete gli sembrarono talmente offensive, tanto sproporzionatamente offensive, che notò appena la frase conclusiva. Ricordò il vecchio rancore e il vecchio antagonismo, e per un momento perdette quasi la padronanza di se stesso.

«Che sciocchezze», interruppe con un riso forzato, «Dovete scusarmi, reverendo, se vi contraddico. Ma ci sono stato allievo io stesso! Ci sono stato a scuola! Non c’era un posto come quello! Non posso credere che possa esservi accaduto qualche cosa di così grave da… da toglierle il suo carattere particolare. La devozione di quei preti potrebbe difficilmente essere uguagliata altrove…».

Si arrestò subito, accorgendosi di aver alzato la voce oltre il necessario. Temeva che l’uomo all’altra estremità della tavola potesse comprendere il tedesco. Levò lo sguardo, nello stesso momento, e vide che gli occhi di quell’individuo erano attenti e fissi sul suo viso. Erano degli occhi particolarmente lucenti e piuttosto sorprendenti. Il modo col quale incontravano i suoi, servì, in qualche modo inesplicabile, a trasmettergli un rimprovero e un avvertimento. Il volto di quello sconosciuto gli fece infatti una viva impressione. Era un volto, come ora notò per la prima volta, alla cui presenza non si sarebbe potuto dire o fare, di proposito, qualche cosa di indegno. Harris non riuscì a spiegarsi come mai non si fosse accorto prima della sua presenza.

Ma si sarebbe morso la lingua per essersi tanto dimenticato, da mettersi quasi a gridare. Il piccolo prete si raccolse in silenzio. Una volta soltanto disse, levando lo sguardo e parlando a voce bassa, in un modo tuttavia che non intendeva essere frainteso. «La troverete diversa». Poi si levò e lasciò la tavola con un cortese inchino rivolto ad entrambi i commensali.

Dopo di lui, all’altra estremità, si levò pure l’altro commensale, lasciando Harris completamente solo.

Rimase ancora per un poco nella sala già buia, gustando il caffè e fumando il sigaro da quindici pfennig, finchè venne la cameriera ad accendere le lampade a olio. Si sentiva seccato per aver contravvenuto in tal modo alle buone maniere, ma era quasi incapace di darsene una spiegazione. Probabilmente, riflettè, si era indispettito perchè il prete aveva rovinato, senza cattiva intenzione naturalmente, il carattere piacevole del suo sogno, introducendovi una nota stonata. Più tardi, avrebbe dovuto cercare un’occasione per fare ammenda. Ora, tuttavia, era troppo impaziente di visitare la scuola e, afferrato il bastone e il cappello, uscì all’aperto.

Passando davanti all’osteria, notò che il prete e l’uomo dal vestito di lana si trovavano già impegnati in una conversazione talmente seria che quasi non lo videro passare e levarsi il cappello.

Si incamminò svelto, ricordando bene la strada, e sperando di raggiungere il villaggio in tempo per intrattenersi con uno dei «Fratelli». Lo avrebbero certamente invitato a prendere una tazza di caffè. Era sicuro del benvenuto che lo attendeva, e i vecchi ricordi s’impossessarono nuovamente di lui. L’ora del ritorno non poteva avere importanza di sorta.

Erano da poco passate le sette, e la sera d’ottobre stava per calare, con freschi effluvi dalle profondità della foresta. La strada si addentrava diritta nel folto della vegetazione, e in pochissimi minuti gli alberi gli fecero vôlta sul capo mentre il rumore degli stivali risuonava attutito e senza eco fra i fusti serrati di una moltitudine di abeti. Era molto buio. Non si distingueva un tronco dall’altro. Egli camminava rapido, roteando il suo bastone di agrifoglio. Incontrava di tanto in tanto un contadino diretto verso casa e il saluto gutturale «Grüss Gott», che da tanto tempo non aveva più udito, gli faceva risaltare il passare del tempo, pur facendogli apparire il passato assai più vicino. Nuove fantasticherie affollavano la sua mente. I compagni di scuola di un tempo gli correvano incontro, dalla foresta, e camminavano al suo fianco, sussurrando le cose del passato. Una visione si succedeva immediatamente ad un’altra. Egli conosceva ogni svolta della strada, ogni radura della foresta, e ogni cosa, di conseguenza, rimetteva in vita particolari dimenticati. Egli ne godeva in pieno.

Camminava sempre avanti. C’era dell’oro in polvere, nel cielo, finchè apparve la luna. Allora, un vento leggermente argentato si diffuse silenziosamente fra la terra e le stelle. Vedeva risplendere le cime degli abeti. Ne udiva il bisbiglio, mentre la brezza volgeva i loro aghi verso là luce. L’aria di montagna era indescrivibilmente soave. La strada risplendeva come la schiuma morbida di un fiume, nel buio. Bianche falene svolazzavano qua e là come silenziosi pensieri attraverso il sentiero, e centinaia di profumi lo salutavano dalle caverne della foresta, come a ricordo di quegli anni lontani.

Allora, quando meno se lo aspettava, gli alberi vennero improvvisamente a mancare d’ambo i lati, e si trovò al margine della radura del villaggio.

Camminava ora più rapidamente. Ecco i contorni familiari delle case, rivestite d’argento! Ecco gli alberi, nel piccolo piazzale al centro, con la fontana e piccole aiuole verdi! Ecco comparire la sagoma della chiesa accanto alla locanda della comunità dei «Fratelli»! Subito dopo, con un brivido improvviso, vide levarsi oscuramente nel cielo l’enorme caseggiato massiccio della scuola, come un blocco isolato, simile ad un castello, con ombre profonde nel chiaro di luna, eretto, quadrato e formidabile, ad affrontarlo, dopo i silenzi di oltre un quarto di secolo.

Passò rapido per la strada deserta del villaggio e si fermò immediatamente sotto quell’ombra enorme, guardando su, verso quelle mura, che lo avevano una volta tenuto prigioniero per due anni… due anni ininterrotti di disciplina e di nostalgia! Ricordi ed emozioni sorgevano nella sua mente, poichè le sensazioni più vive della sua giovinezza erano concentrate in quel luogo, e là aveva per la prima volta cominciato a vivere e a conoscere il valore della vita. Non un passo turbava il silenzio, benchè le luci scintillassero qua e là attraverso le finestre dell’edificio. Guardando in su, verso le alte mura della scuola, ora oscurate dall’ombra, immaginò facilmente i visi a lui ben noti pigiati alle finestre per salutarlo… finestre chiuse che in realtà riflettevano unicamente il chiaro di luna e lo splendore delle stelle.

Quello era dunque il vecchio edificio della scuola: un quadrilatero dalle imposte chiuse, con l’alto tetto a tegole, e i parafulmini armati di punte protese come nere dita ad artiglio. A lungo ristette a guardare. Poi rientrò in sè, e si accorse con gioia che una luce splendeva ancora nella finestra della stanza dei «Fratelli».

Varcò allora la cancellata di ferro, salì i dodici gradini di pietra e si trovò di fronte al nero portone di legno, dalle pesanti sbarre di ferro. Quel portone l’aveva una volta detestato e temuto con l’odio e la passione di un’anima imprigionata, ma lo guardava ora con tenerezza, con una specie di puerile diletto.

Quasi timoroso, tirò il cordone del campanello e ascoltò con un tremito di eccitazione il tintinnìo della campana in fondo al fabbricato. Il suono, da tanto tempo dimenticato, rievocò il passato con un senso di realtà così vivo, che addirittura rabbrividì. Era come la campana magica della fiaba, che rimuove la tenda del passato e chiama a raccolta le immagini dalle ombre della morte. Non si era mai sentito tanto sentimentale in vita sua. Gli pareva di essere ridiventato giovane. Al tempo stesso, cominciò a gonfiarsi ai propri occhi, dandosi arie di superiorità. Era un pezzo grosso venuto dal mondo della lotta e dell’azione. In quel piccolo luogo di pacifici sogni non avrebbe forse sacrificato qualcosa del proprio prestigio?

«Proverò ancora una volta», pensò, dopo una lunga pausa, afferrando il cordone di ferro del campanello. In quel momento un passo si fece udire nell’andito di pietra, e l’enorme portone lentamente si aprì.

Un uomo alto di statura, dal volto di un’impronta piuttosto austera, stava ritto sulla soglia guardandolo silenziosamente in viso.

«Devo scusarmi… è un po’ tardi». Cominciò piuttosto pomposamente, «ma sono un vecchio alunno. Sono arrivato or ora e non ho potuto proprio trattenermi dal venire subito». Il suo tedesco non gli sembrava scorrevole come al solito. «Il mio interessamento è assai grande. Sono stato qui nel ’70».

L’altro aprì ancor più il portone e, inchinandosi, lo fece subito entrare, dandogli con un sorriso genuino il benvenuto.

«Sono il Fratello Kalkmann, disse tranquillamente, a voce bassa. «Sono stato anch’io maestro a quell’epoca. È sempre un grande piacere per me porgere il benvenuto a un vecchio alunno». Lo guardò con molta attenzione per alcuni secondi, e poi soggiunse: «Credo che abbiate fatto una bellissima cosa a venire… Una bellissima cosa davvero…!».

«È per me un grandissimo piacere», rispose Harris, entusiasta di quell’accoglienza.

Il corridoio debolmente illuminato, col suo pavimento in pietra grigia, e il suono familiare di una voce tedesca che vi echeggiava… con quella peculiare intonazione che i Fratelli sempre usavano parlando… tutto concorreva a sollevarlo, in carne ed ossa, nell’atmosfera sognante dei vecchi giorni dimenticati. Entrò felice nell’edificio, e il portone si rinchiuse col familiare rimbombo che completò la ricostruzione del passato. Riebbe quasi l’antica sensazione dell’imprigionamento, di dolorosa nostalgia, la sensazione di aver perduto la sua libertà.

Harris sospirò involontariamente e si volse verso il suo ospite, che gli rese debolmente il sorriso e lo guidò poi lungo il corridoio.

«I ragazzi si sono ritirati», spiegò, «e, come ricorderete, manteniamo qui il regime delle ore piccole. Ma, almeno, vorrete venire da noi, nella stanza dei «Fratelli» a prendere una tazza di caffè». Era proprio quello che il commerciante di seta aveva sperato, ed accettò perciò con un fervore che cercò di temperare con bel garbo. «E domani», continuò il fratello, «dovete venire a trascorrere con noi un giorno intero. Potrete anche ritrovare delle vecchie conoscenze, poichè alcuni alunni della vostra epoca sono qui ritornati in qualità di maestri».

Uno sguardo che fece sussultare il visitatore passò per un attimo negli occhi di quell’uomo. Ma si dileguò con la stessa rapidità con cui era venuto. Era impossibile definirlo. Harris si convinse che era l’effetto di una ombra gettata dalla lampada sulla parete, ed eliminò l’impressione dalla sua mente.

«Siete molto gentile, certamente», disse, cortese. «È forse per me un piacere più grande di quanto possiate immaginare, il rivedere questo luogo. Ah!», e si fermò di botto davanti ad una porta vetrata a metà, e guardò dentro. «Certamente, è questa una delle stanze da musica dove mi esercitavo col violino. Come tutto mi ritorna alla mente, dopo tutti questi anni!».

Il Fratello Kalkmann si fermò indulgente, sorridente, per permettere al suo ospite di osservare.

«Avete ancora l’orchestra dei ragazzi? Ricordo che ero “secondo violino”. Il Fratello Schliemann dirigeva al pianoforte. Davvero, mi pare ancora di vederlo, coi suoi capelli neri e… e…». S’interruppe di colpo. Di nuovo quello strano sguardo tetro si manifestò nel rigido volto del suo accompagnatore. Per un istante, parve curiosamente familiare…

«Teniamo ancora l’orchestra dei ragazzi», disse. «Ma il Fratello Schliemann, sono triste di dovervelo dire…» esitò per un istante, e aggiunse poi, «il Fratello Schliemann è morto».

«Già, già…», disse Harris in fretta. «Sono triste di doverlo apprendere». Era conscio di una lieve sensazione di malessere, ma se derivasse dalla notizia della morte, del suo vecchio maestro di musica, o… da qualche cosa d’altro… non seppe comprendere bene. Guardò in fondo al corridoio che si perdeva fra le ombre. Sulla strada e nel villaggio tutto era sembrato assai più piccolo di quanto ricordasse, ma qui, nell’edificio della scuola, ogni cosa sembrava assai più grande. Il corridoio era più elevato e più lungo, più vasto e spazioso, di quanto lo ricordasse la sua immaginazione. I suoi pensieri vagarono per un istante, come in sogno.

Levò lo sguardo, e vide il frate che lo osservava con un sorriso di paziente indulgenza.

«Siete in preda ai ricordi», commentò gentilmente, e lo sguardo austero assunse un’espressione quasi pietosa.

«Avete ragione», rispose il commerciante. «È stato il più meraviglioso periodo della mia vita! Eppure, lo detestavo…». Esitava, desiderando non urtare i sentimenti del Fratello.

«Secondo le idee inglesi, il trattamento poteva sembrare rigido», confermò l’altro.

«Sì, in parte era questo. Ma in parte era l’incessante nostalgia della solitudine, che derivava dal non essere mai solo. Nelle scuole inglesi i ragazzi godono una grande libertà, sapete!».

Si avvide che il Fratello Kalkmann lo ascoltava molto attentamente.

«Ma questo ha avuto su di me un effetto che non ho mai completamente perduto», continuò Harris con un certo orgoglio, «e ve ne sono molto riconoscente».

«Ah! come mai?».

«La costante pena interiore mi ha immerso tutto quanto nella vostra vita religiosa, cosicchè tutta la forza del mio essere sembrava protendersi verso la ricerca di una soddisfazione più profonda… di un’autentica consolazione dell’anima. Durante i due anni trascorsi qui anelavo verso Dio in un modo sia pure infantile, come non ho mai anelato così fortemente in seguito. Inoltre, non ho mai perduto completamente quel senso di pace e di gioia interiore che accompagnava quell’aspirazione. Non potrò mai dimenticare del tutto questa scuola e le cose profonde che mi ha insegnato!».

Fece una pausa, al termine del suo lungo discorso, e un breve silenzio si fece tra loro. Temeva di aver detto troppo, o di essersi espresso in modo inadeguato nella lingua straniera, e quando il Fratello Kalkmann gli pose una mano sulla spalla, egli fece un lieve balzo, involontario.

«Questi ricordi mi ritornano con indescrivibile potenza», soggiunse come per scusarsi; «e questo lungo corridoio, queste stanze, questo oscuro portone sbarrato, tutto ciò fa vibrare delle corde che… che…». Il suo tedesco gli venne a mancare e guardò il compagno con un sorriso e un gesto che volevano spiegare quello che non poteva dire. Ma il fratello aveva rimosso la mano dalla sua spalla e stava con la schiena rivolta verso di lui, guardando lungo il corridoio.

«Naturalmente, naturalmente», disse in fretta, senza voltarsi. «Lo comprendiamo noi tutti».

Poi si volse d’improvviso, ed Harris vide che il suo volto si era fatto stranissimo, sgradevolmente sinistro. Potevano essere nuovamente le ombre provocate dalle misere lampade ad olio alle pareti, poichè la tenebrosa espressione passò all’istante quando ripresero i loro passi lungo il corridoio, ma l’inglese ebbe l’impressione di aver detto qualche cosa in modo offensivo, qualche cosa che non andava del tutto a genio all’altro. Davanti alla porta della stanza dei «Fratelli», si fermarono. Harris si accorse che era tardi e che forse si era trattenuto troppo a lungo. Fece un tentativo di andarsene, ma il suo ospite non volle saperne.

«Dovete prendere una tazza di caffè con noi», disse fermamente, «e i miei colleghi saranno ben lieti di vedervi. Qualcuno di loro, forse, vi ricorderà».

Il suono di voci si fece sentire piacevolmente, attraverso la porta, voci di uomini che conversavano insieme. Fratello Kalkmann girò la maniglia ed entrarono in una stanza fortemente illuminata e piena di gente.

«Ah,… ma il vostro nome?» sussurrò chinandosi per afferrare la risposta; «Non mi avete ancora detto il vostro nome».

«Harris», disse subito l’inglese, mentre entravano. Si sentì nervoso varcando la soglia, ma attribuì la momentanea trepidazione al fatto che stava per trasgredire la regola più severa di tutto il convitto, la quale vietava ai ragazzi, con minaccia delle pene più gravi, di avvicinarsi a quel luogo sacrosanto in cui gli insegnanti si concedevano il loro breve riposo.

«Ah, già, infatti… Harris», ripetè l’altro come se lo ricordasse. «Entrate, signor Harris! La vostra visita riuscirà oltremodo gradita. È realmente assai bello, veramente bello da parte vostra, di essere venuto in questo modo».

La porta si chiuse dietro a loro e, nella luce improvvisa che per un momento gli abbagliò la vista, l’esagerazione di quel linguaggio sfuggì alla sua attenzione. Udì la voce di Frate Kalkmann che lo presentava. Parlava a voce altissima, davvero, senza necessità… assurdamente alta,… pensò Harris.

«Fratelli», annunciò, «è mio piacere e privilegio presentarvi il Signor Harris, venuto dall’Inghilterra. È arrivato or ora per farci una visitina, ed io gli ho già espresso, a nome di noi tutti, la soddisfazione che tutti sentiamo per la sua presenza. È, come ricorderete, un alunno nel ’70».

Era una presentazione molto pomposa, molto tedesca, ma Harris la gradì assai. Lo faceva apparire importante. Apprezzava inoltre il tatto di quella presentazione, che gli faceva sembrare di essere atteso.

Le nere figure si levarono e s’inchinarono. Harris si inchinò. Kalkmann s’inchinò pure. Erano tutti molto cortesi e affabili. La stanza ondeggiava di figure in moto. La luce lo abbagliava, dopo le tenebre del corridoio. C’era un denso fumo di sigari nell’atmosfera. Afferrò la sedia che gli venne offerta tra due Fratelli, e sedette, sentendo vagamente che le sue percezioni non erano precise e distinte, come al solito. Si sentiva leggermente intontito, e il fascino del passato lo afferrava con forza, confondendo l’immediato presente e riducendo tutto bizzarramente alle dimensioni del passato. Gli sembrava di passare sotto il dominio di una grande fantasmagoria che fosse in qualche modo la riproduzione di tutte le fantasticherie della sua fanciullezza dimenticata.

Allora si raccolse, si fece violenza e partecipò alla conversazione che ricominciò a ronzare intorno a lui. Conversava con vivo piacere, poichè i Fratelli…. ce n’era forse una dozzina nella stanza… lo trattavano con modi accoglienti tanto che ben presto si sentì come uno di loro. Era questo un sottile piacere per lui. Sentiva di essere uscito dall’avido, volgare mondo del personalismo, dal mondo della seta, dei mercati e del profitto… di essere entrato in un’atmosfera più pura in cui gli ideali dello spirito formavano il firmamento e in cui la vita scorreva, semplice e devota. Tutto ciò lo affascinò oltre ogni dire, tanto da accorgersi… sì, in un certo senso… della degradazione di essere stato assorbito per vent’anni dagli affari. Quell’ardente atmosfera sotto le stelle, in cui gli uomini pensavano soltanto alle loro anime, e alle anime degli altri, era troppo rarefatta per il mondo nel cui ingranaggio si trovava impegnato. Si scoprì a fare dei confronti a proprio svantaggio,… confronti tra il piccolo sognatore mistico che era uscito trent’anni prima dalla pace austera di quella comunità religiosa, e l’uomo di mondo che era diventato, da allora,… e il contrasto gli diede il brivido d’un acuto rammarico e di qualche cosa come il disprezzo di sè…

Si guardò intorno, osservando tutti quei visi, fluttuanti verso di lui, attraverso il fumo del tabacco… quell’acre fumo di sigari, lo ricordava molto bene. E ricordava la nobiltà dei loro grandi propositi di abnegazione. Guardava con speciale interesse alcuni dei suoi ospiti. Non ne sapeva precisamente il motivo. Lo affascinavano. C’era qualche cosa di tanto austero e discreto che emanava da essi, qualche cosa, anche di così stranamente e sottilmente familiare che l’attirava e, nello stesso tempo, sostanzialmente sfuggiva. Ogni volta che i loro occhi s’incontravano coi suoi, vi leggeva una innegabile espressione di benvenuto. In qualcuno c’era anche di più… una specie di perplessa ammirazione, pensava, qualche cosa tra la stima e la deferenza. Questa nota del rispetto in tutti i volti riusciva molto lusinghiera per la sua vanità.

Ora si serviva il caffè, e vi accudiva un Fratello dai capelli bruni, che sedeva nell’angolo vicino al pianoforte e aveva una marcata somiglianza con il Fratello Schliemann, il direttore di musica di trent’anni prima. Harris scambiò inchini con lui quando prese la tazza dalle sue mani bianche che, osservò subito, somigliavano a mani di donna. Accese un sigaro offertogli dal suo vicino, col quale stava piacevolmente conversando e che al lume del fiammifero acceso, gli ricordò vivamente, per un attimo, il Fratello Pagel, il suo capo camerata di una volta.

«È veramente sorprendente», disse, «quante somiglianze vedo, o immagino di vedere! È veramente curiosissimo!»

«Già», rispose l’altro, spiandolo sopra la tazza di caffè, «il fascino del luogo è meraviglioso, nella sua forza. Posso ben comprendere che i vecchi visi sorgano agli occhi della vostra mente… quasi ad eccezione del vostro stesso viso, forse».

Risero entrambi piacevolmente. Era confortante vedere compreso e apprezzato il suo buon umore. Continuarono a parlare di quel villaggio di montagna, del suo isolamento, della sua lontananza dalla vita mondana, della sua particolare predisposizione alla meditazione e al culto, e in un certo senso allo sviluppo spirituale.

«E il vostro ritorno in questo modo, Signor Harris, è tanto piaciuto a tutti noi», soggiunse il Fratello alla sua sinistra. «Vi stimiamo moltissimo per questo. Vi onoriamo per questo».

Harris fece un gesto riluttante. «Temo che, da parte mia, sia soltanto un piacere egoistico», disse con espessione un po’ untuosa.

«Non tutti ne avrebbero avuto il coraggio», soggiunse quegli che somigliava al Fratello Pagel.

«Che intendete dire?», domandò Harris, un po’ disorientato. «I ricordi perturbatori…?».

Il Fratello Pagel lo guardò fisso, con inconfondibile ammirazione e rispetto. «Intendo dire che gli uomini sono, per lo più, troppo attaccati alla vita, e riescono troppo di rado a sacrificare qualche cosa delle loro convinzioni», disse gravemente.

L’inglese non si sentì troppo a suo agio. Quel degno uomo, effettivamente, esagerava un po’ il motivo del suo viaggio sentimentale. Inoltre, la conversazione esorbitava un po’ dalla sua indole. Stentava a seguirla.

«La vita mondana mi offre ancora alcune attrattive», rispose sorridendo, come per far comprendere che la santità non era ancora precisamente entrata nei suoi voti.

«Tanto più, allora, dobbiamo rendervi onore per essere venuto tanto liberamente», disse il Fratello alla sua sinistra; «tanto incondizionatamente!».

Seguì una pausa. Il commerciante si sentì sollevato quando la conversazione assunse un carattere più generico, benchè notasse che non si allontanava mai eccessivamente dal soggetto della sua visita e della meravigliosa posizione di quel villaggio solitario per gli uomini che desideravano sviluppare le loro forze spirituali e praticare i riti di un culto elevato. Altri vi si associarono, complimentandolo per la sua conoscenza della lingua, facendo in modo che si sentisse pienamente a suo agio, il che però al tempo stesso gli diede un lieve malessere per l’eccesso evidente della loro ammirazione. Dopo tutto, era una cosa più che naturale l’aver intrapreso quel viaggio sentimentale!

Il tempo passava presto. Il caffè era eccellente. I sigari avevano quell’aroma di noci ch’egli tanto prediligeva. Infine, temendo di essere di disturbo, malgrado tutta quella calorosa accoglienza, si alzò, riluttante, per prendere congedo. Ma gli altri non vollero saperne. Non era frequente il caso di un alunno di altri tempi che ritornasse a visitarli in modo così semplice e spontaneo. Era annottato da poco. Se necessario, potevano perfino trovargli un angolo nella grande stanza da letto, al piano di sopra. Lo persuasero facilmente a fermarsi un po’ di più. Era, in qualche modo, diventato il centro del piccolo trattenimento. Si sentiva compiaciuto, lusingato, onorato.

«E forse, il Fratello Schliemann vorrà suonare qualche cosa per noi… ora».

Era il Fratello Kalkmann che parlava, ed Harris trasalì visibilmente al sentire quel nome. Vide l’uomo dai capelli bruni vicino al pianoforte, volgersi con un sorriso. Poichè Schliemann era il nome del vecchio direttore di musica che era morto. Poteva essere suo figlio? Si somigliavano tanto!

«Se il Fratello Meyer non ha messo a letto il suo Amati, lo accompagnerò», disse il musicista suggestivamente, guardando di traverso un uomo che Harris non aveva ancora notato, e che, se ne accorgeva ora, era proprio la vivente immagine dell’omonimo predecessore.

Meyer si levò e si scusò con un lieve inchino. L’inglese lo vide subito fare uno strano gesto, come se il suo collo avesse una falsa congiuntura col corpo esattamente sotto il colletto, e temesse che potesse rompersi. L’antico Meyer aveva proprio quel modo di muoversi. Ricordò che i ragazzi avevano l’abitudine di imitarlo per dileggio.

Lanciò in giro uno sguardo penetrante, guardando or l’uno or l’altro, sentendo che, a causa di qualche silenzioso, invisibile fenomeno, tutto stava per cambiare intorno a lui. I volti sembravano stranamente familiari. Pagel, il Fratello col quale aveva parlato, era senz’altro l’immagine di Pagel, suo precedente capo camerata. E Kalkmann, di cui sembrava ora accorgersi per la prima volta, era proprio il gemello di un altro insegnante, il cui nome gli era ormai completamente sfuggito, ma per cui aveva nutrito una spiccata antipatia in quei giorni lontani. Attraverso il fumo, mentre spiavano verso di lui, dagli angoli della stanza, si accorse che tutti i Fratelli intorno a lui avevano gli stessi visi che aveva conosciuti e con cui aveva vissuto tanto tempo fa… Röst, Fluheim, Meinert, Rigel, Gysin.

Guardò fisso, improvvisamente fattosi più vigile, e vide dappertutto o, gli parve di vedere, strane, spettrali somiglianze… anzi, di più, gli identici visi di anni addietro. C’era qualche cosa di bizzarro in tutto ciò, qualche cosa di non perfettamente a posto, qualche cosa che lo metteva a disagio. Si scosse, mentalmente e fisicamente, soffiandosi il fumo via dagli occhi con un lungo soffio, e mentre così faceva, notò con spavento che tutti lo guardavano fisso. Lo stavano vigilando! Questo lo fece ritornare in sè. Come inglese e come straniero, non desiderava essere villano, o fare qualche cosa che desse scioccamente nell’occhio e guastasse l’armonia della serata. Era ospite, e un ospite privilegiato per giunta. Inoltre, la musica era già cominciata. Le lunghe dita bianche del Fratello Schliemann accarezzavano i tasti.

Si sedette tranquillo sulla sedia e continuò a fumare, con gli occhi socchiusi, che tuttavia osservavano ogni cosa.

Ma un brivido aveva invaso il suo essere, e, volere o no, si ripeteva. Come una città, situata nel retroterra, sente la lontana risacca del mare, così si accorse che possenti forze da qualche punto, al di là della sua visuale, stavano attentando alla sua anima, in quella piccola stanza fumosa. E cominciò a sentirsi molto a disagio.

Mentre la musica si diffondeva nell’aria, la sua mente cominciò a chiarirsi. Come un velo che si solleva, qualche cosa si alzò che fino ad allora gli aveva offuscato la vista. Le parole del prete nella trattoria della stazione gli guizzarono nel cervello:

«La troverete diversa». E nello stesso tempo, il perchè non sapeva spiegarselo, vedeva mentalmente gli occhi forti, meravigliosi quasi, di quell’altro ospite, al tavolo della cena, di quell’uomo che aveva udito per caso la sua conversazione, e si era poi impegnato in quella vivace conversazione col prete. Estrasse l’orologio e vi gettò uno sguardo furtivo. Erano passate due ore. Erano già le undici.

Schliemann, nel frattempo, completamente assorbito nella musica, stava suonando un’aria solenne. Il pianoforte suonava meravigliosamente. La potenza di una grande convinzione, la semplicità di una grande arte, il vitale messaggio spirituale di un’anima che aveva trovato se stessa… tutto ciò, e altro ancora, vibrava nelle corde dello strumento. Eppure, in quella musica vi era qualche cosa che si poteva unicamente definire come impuro… atrocemente, diabolicamente impuro. Il pezzo, benchè ad Harris non fosse familiare, era sicuramente la musica di una Messa… Ma immensa, maestosa, tetra! Quella musica incedeva attraverso la stanza fumosa con lento potere, come il passaggio di qualche cosa di possente, eppure profondamente intimo, e man mano che procedeva, si agitava in ogni volto intorno a lui il riflesso di enormi forze delle quali era il simbolo sonoro. I volti intorno a lui si facevano sinistri, ma non casualmente: si ottenebrarono con uno scopo preciso. Egli ricordò subito il volto del Fratello Kalkmann nel corridoio, al calar della sera. I motivi segreti delle loro anime segrete affioravano negli occhi, sulle labbra, sulle fronti, e vi rimanevano sospesi, come i vessilli neri di una assemblea di creature cadute e maledette. Demoni!… era l’orribile parola che guizzò attraverso il suo cervello come una scottatura di fuoco.

Quando si accorse di aver fatto quella improvvisa scoperta, egli perdette per un momento la padronanza di se stesso. Senza attendere di ripensare o ponderare la sua straordinaria impressione, fece una cosa affatto pazzesca, se pur, d’altra parte, naturalissima. Sentendosi irresistibilmente spinto, dall’improvvisa tensione, a qualche atto decisivo, scattò in piedi… e gridò! Con sua stessa, completa confusione, si alzò di scatto, e urlò forte!

Ma nessuno si scompose per questo. Nessuno, in apparenza, fece minimamente caso al suo assurdo e furioso comportamento. Era come se egli solo avesse udito il suo grido… come se la musica lo avesse sommerso e inghiottito… come se, dopo tutto, non avesse gridato tanto forte quanto immaginava, o non avesse affatto gridato.

Allora, mentre guardava gli oscuri immobili visi dinnanzi a sè, qualche cosa di estremamente freddo passò nel suo essere, toccandogli il fondo dell’anima… Ogni emozione si raffreddò subito, lasciandolo come ad un riflusso della marea. Si sedette nuovamente, pieno di vergogna, mortificato, arrabbiato con se stesso di essersi comportato come un pazzo e un bambino. E la musica, intanto, continuava a uscire dalle bianche dita affusolate, anguiformi, del Fratello Schliemann, come del vino avvelenato che uscisse dal collo stranamente foggiato di antiche ampolle…

E quando la musica cessò, parve ad Harris di avere abbondantemente bevuto di quel vino avvelenato…

Sforzandosi a credere di essere stato vittima di una strana percezione illusoria, frenò vigorosamente i suoi sentimenti. Ora la musica era del tutto cessata. Tutti applaudirono e ripresero subito a chiacchierare, ridendo, cambiando posto, complimentando il suonatore, comportandosi in modo del tutto naturale e con disinvoltura, come se nulla fuori tono fosse accaduto. I volti apparivano di nuovo normali. I Fratelli si strinsero intorno al visitatore, ed egli rientrò nella loro conversazione e si sentì perfino di ringraziare il musicista tanto dotato.

Ma, al tempo stesso, si trovò a spostarsi verso la porta, sempre più vicino, cambiando possibilmente di sedia, raggiungendo i gruppi che si trovavano più vicini alla via d’uscita, preparandosi cioè ad una vera e propria fuga.

«Devo rendere a voi tutti mille grazie per il ricevimento preparato alla mia piccolezza e il grande piacere… il grandissimo onore che mi avete reso», cominciò infine in tono deciso, «ma temo di aver già di gran lunga abusato della vostra ospitalità. Inoltre, ho parecchia strada da fare per arrivare al mio albergo».

Un coro di voci fece seguito alle sue parole. Non volevano saperne della sua partenza,… almeno, non prima che avesse preso un rinfresco con loro. Levarono dei biscotti da una credenza, e pane di segale e salsiccia da un’altra, e tutti ricominciarono a chiacchierare e a mangiare. Si preparò molto caffè, si accesero parecchi sigari. Il Fratello Meyer estrasse il suo violino e si mise ad accordarlo delicatamente.

«C’è sempre un letto di sopra, se il Signor Harris vorrà accettarlo», disse uno.

«Ed è difficile trovare la strada, ora, poichè tutte le porte sono chiuse», disse un altro, ridendo forte.

«Lasciateci godere dei nostri semplici piaceri, così come càpitano», gridò un terzo. «Fratello Harris comprenderà come apprezziamo l’onore di questa sua ultima visita». Avanzarono un mucchio di scuse. Tutti ridevano, come se la cortesia delle loro parole fosse soltanto formale, e velasse, in modo sempre più tenue… sempre più tenue… un sottinteso del tutto diverso.

«E l’ora della mezzanotte si avvicina», soggiunse il Fratello Kalkmann con un sorriso affascinante, ma con una voce che suonò all’inglese come un’inferriata girante su cardini di ferro.

Il loro tedesco gli sembrava sempre più difficile da capire. Notò che chiamavano «Fratello» anche lui, classificandolo come uno di loro.

Improvvisamente ebbe un guizzo di percezione più acuta, e si accorse con un brivido lungo, con una palpitazione profonda, che aveva tutto malamente interpretato… grossolanamente interpretato tutto quanto avevano detto sino allora. Avevano parlato della bellezza del luogo, del suo remoto isolamento dal mondo, della sua particolare predisposizione per certi rami dello sviluppo e del culto spirituali… ma difficilmente, come ora afferrò chiaramente, nel senso nel quale aveva inteso le parole. Essi avevano inteso qualcosa d’altro, di ben diverso. I loro poteri spirituali, il loro desiderio di solitudine, la loro passione per il culto, non erano i poteri, la solitudine, o il culto, che egli intendeva e comprendeva. Stava sicuramente rappresentando una parte in qualche orribile mascherata. Si trovava fra uomini che ammantavano le loro vite di religione, per seguire i loro veri propositi, all’insaputa degli altri uomini.

Che significava tutto ciò? Come s’era egli intrufolato in una situazione tanto equivoca? Vi si era forse impigliato per caso? Non vi era stato piuttosto condotto, deliberatamente? I suoi pensieri si fecero terribilmente confusi, e la sua fiducia in se stesso cominciò a svanire. E perchè, ripensò egli improvvisamente, erano tanto impressionati dal solo fatto del suo arrivo, per rivisitare quella sua vecchia scuola? Cos’era che essi tanto ammiravano in lui, e di cui si meravigliavano tanto, per il suo semplice atto? Perchè ritenevano tanto prezioso l’aver egli trovato il coraggio di venire, di «concedersi tanto liberamente», «incondizionatamente», come uno di loro aveva espresso con tono tanto canzonatorio nella sua esagerazione?

La paura si agitò orribilmente nel suo cuore. Non trovava risposta a nessuna di quelle domande. Una sola cosa tuttavia egli comprendeva ora ben chiaramente: il loro proposito di trattenerlo là! Non intendevano, lasciarlo andare! E da quel momento si accorse che erano sinistri, formidabili e, in qualche modo che doveva ancora scoprire, nemici suoi, della sua vita! E la frase che uno di loro aveva usato un momento prima… «quest’ultima sua visita»… sorse davanti ai suoi occhi con lettere di fiamma.

Harris non era un uomo d’azione. Non aveva mai saputo, durante tutto il corso della sua carriera, cosa significasse trovarsi in una situazione di reale pericolo. Non che fosse un codardo, ma, certamente, era un uomo dai nervi non ancora provati. Si accorse, infine, senz’altro, di trovarsi in una situazione alquanto strana. Si accorse di aver a che fare con uomini che facevano veramente sul serio. Quali fossero le loro intenzioni, non aveva su ciò che delle idee molto vaghe. La sua mente, infatti, era troppo confusa per un raziocinio ben definito. Era solo capace di seguire alla cieca gli istinti più forti che lo spingevano. Non pensò neppure per un istante che i Fratelli fossero tutti pazzi, o che egli stesso avesse temporaneamente perduto l’uso della ragione e soffrisse di qualche terribile ossessione. Infatti, nulla gli accadeva in tal senso… Non si rendeva conto di nulla… tranne che cercava di fuggire… il più presto possibile. Un tremendo sconvolgimento nei suoi sentimenti, lo soverchiò.

Senza protestare oltre, per il momento, mangiò i biscotti e sorbì il caffè, chiacchierando intanto quanto più naturalmente e piacevolmente poteva. Trascorso infine un discreto intervallo, si levò in piedi e annunciò ancora una volta che doveva congedarsi. Parlò con molta calma, ma in modo assai deciso. Nessuno, ascoltandolo, avrebbe potuto fraintenderlo o prenderlo alla leggera. Questa volta si era avvicinato alla porta.

«Mi rincresce», disse, usando il suo migliore tedesco, e parlando a un’adunanza ormai ridotta al silenzio, «che la nostra piacevole serata sia arrivata al suo termine, ma è tempo, ora, che auguri a voi tutti la buona notte». Poi, dato che nessuno parlava, soggiunse, benchè in tono minore: «E ringrazio voi tutti, nel modo più sincero, della vostra ospitalità».

«Al contrario», rispose subito Kalkmann, alzandosi dalla sedia e fingendo di non accorgersi della mano tesagli dall’inglese, «siamo noi che dobbiamo ringraziarvi; e lo facciamo con tutta riconoscenza e sincerità».

Nello stesso momento, almeno mezza dozzina di Fratelli presero posizione fra lui e la porta.

«Siete molto buoni a dire così», disse Harris con quanta fermezza riuscì a raccogliere, notando quella mossa con la coda dell’occhio, «ma realmente non avevo idea che… la mia piccola visita casuale potesse procurarvi tanto piacere». Fece un altro passo verso la porta, ma il Fratello Schliemann attraversò rapidamente la stanza e gli si pose di fronte. Il suo atteggiamento non scendeva a compromessi. Una tetra e terribile espressione gli aveva oscurato il volto.

«Ma non è per caso che siete venuto, Fratello Harris!», disse, in modo che tutti nella stanza potessero udire. «Certamente non abbiamo interpretato malamente la vostra presenza qui?» E sollevò le sue nere sopracciglia, minaccioso.

«No! no!», si affrettò a rispondere l’inglese, «sono felice di essere stato… di essere qui. Vi ho già detto quanto vivo è stato il mio piacere di trovarmi tra voi. Non interpretate malamente le mie parole, ve ne prego!». La sua voce esitò un poco; aveva difficoltà a trovare le parole. Inoltre, gli riusciva sempre più difficile comprendere le loro parole.

«Naturalmente!», interloquì il Fratello Kalkmann colla sua voce bassa ma ferma. «Noi non abbiamo interpretato malamente. Siete ritornato, nello spirito di vera e disinteressata devozione. Vi offrite liberamente, e noi tutti lo apprezziamo. È la vostra compiacenza e nobiltà che si è tanto completamente guadagnata la nostra venerazione e il nostro rispetto». Un sommesso mormorìo di applauso corse per la stanza. «Quello che ci fa tanto piacere… quello che farà tanto piacere specialmente al nostro grande Maestro… è il valore della vostra venuta spontanea e volontaria…».

Usò una parola che Harris non comprese. Disse «Opper» (che in tedesco significa sacrificio oppure vittima). L’inglese, sbalordito, si lambiccò il cervello per trovarne la traduzione, ma la cercò invano. Malgrado i suoi sforzi, non potè ricordare cosa significasse. Ma la parola, malgrado la sua incapacità di tradurla, gli toccò l’anima come ghiaccio. Era peggio, molto peggio di qualunque cosa immaginasse. Si sentì come una creatura perduta, senza aiuto, e tutta la forza di combattere lo abbandonò da quell’istante.

«È magnifico essere con tanta prontezza un…» soggiunse Schliemann, ponendoglisi al fianco con un terribile ghigno sul viso. E fece uso della stessa parola… «O…».

Dio! Che cosa poteva significare tutto ciò? «Offrire se stesso!» «Vero spirito di devozione!» «compiacente», «disinteressato», «magnifico!». O…, O…, O…! Che cosa, in nome del cielo, poteva significare quella strana, misteriosa parola che ispirava tanto terrore al suo cuore?

Fece uno strenuo sforzo per conservare la presenza di spirito e i nervi saldi. Volgendosi vide che la faccia di Kalkmann era bianca come la morte. Kalkmann! Comprendeva benissimo! Kalkmann significava «uomo di calce». Lo sapeva! Ma che cosa significava «O…»? Ecco la vera chiave della situazione. Parole attraversarono la sua mente confusa in una corrente interminabile… parole inusitate, rare, che egli aveva forse intese una sola volta nella sua vita… mentre «O…», parola questa di uso comune, gli sfuggiva interamente. Che straordinaria beffa era mai quella!

Allora Kalkmann, pallido come la morte, ma con la faccia dura come il ferro, disse alcune parole sommesse che egli non afferrò, e i Fratelli che si trovavano vicino alle pareti spensero ad un tratto le lampade e la stanza rimase al buio. Nella penombra egli poteva soltanto ancora discernere i loro volti e i loro movimenti.

«È tempo», dice intanto la dura voce di Kalkmann, proprio dietro di lui. «L’ora della mezzanotte è prossima. Prepariamoci! Egli viene! Egli arriva! Il Fratello Asmodelius arriva»! La sua voce si elevò a canto fermo.

E il suono di quel nome, per qualche ragione straordinaria era terribile… veramente terribile! Harris si sentì scosso da capo ai piedi nell’udirlo. La sua enunciazione riempì l’aria di un suono sommesso, e la calma si sparse per tutta la stanza. Delle forze sorsero dappertutto intorno a lui, trasformando il normale nell’orribile, e uno spirito di freddo terrore percorse tutto il suo essere, portandolo fino all’orlo del collasso.

Asmodelius! Asmodelius! Il nome era spaventevole. Poichè comprendeva infine a chi si riferiva e il significato che si nascondeva nelle sue grandi sillabe. Al momento stesso, comprese subito il significato di quella parola, che gli era sfuggito di mente. Il significato della parola «O…» gli guizzò nell’anima come un messaggio di morte.

Pensò di fare uno sforzo violento per raggiungere la porta, ma la debolezza delle sue ginocchia tremanti, e la fila di nere figure che si trovava dinnanzi, lo dissuasero subito. Avrebbe gridato aiuto, ma ricordando il vuoto del vasto edificio, e la solitudine in cui si trovava, comprese che nessun aiuto gli sarebbe venuto da quella parte. Rimase in silenzio e non fece nulla. Ma sapeva ora che cosa stava per accadere.

Due fratelli lo avvicinarono e lo presero delicatamente per il braccio.

«Il fratello Asmodelius vi accetta», sussurrarono; «siete pronto?».

Allora ritrovò la favella e cercò di parlare. «Ma che c’entro io con questo Fratello Asmo… Asmo…?» balbettò, mentre un disperato impeto di parole s’infrangeva invano dietro l’argine della lingua.

Il nome si rifiutava di passare per le sue labbra. Non poteva pronunciarlo affatto. Il suo senso di impotenza entrò allora nella fase acuta, poichè quella incapacità di pronunciare il nome produceva un nuovo senso di orribile confusione nella sua mente. Divenne straordinariamente agitato.

«Sono venuto qui per una visita amichevole», tentò di dire con un grande sforzo, ma con suo grande spavento, sentì la propria voce dire qualche cosa del tutto, diverso, e adottare anzi la stessa parola che tutti gli altri avevano usata: «Sono venuto qui come un O… ben disposto», la sua voce diceva «e io sono pronto senz’altro».

Era perduto ora, irrimediabilmente! Non soltanto la sua mente, ma gli stessi muscoli del suo corpo, avevano perduto il controllo dei suoi atti. Sentì che stava librandosi sui confini di un mondo di fantasmi o di demoni,… un mondo in cui il nome che avevano pronunciato rappresentava il nome del Maestro, la parola dell’ultimo potere.

Udì e vide come in un incubo quanto accadde in seguito.

«Nella penombra che vela ogni verità, prepariamoci al culto, all’adorazione», cantò Schliemann, che lo aveva preceduto sino al termine della stanza.

«Nelle nebbie che proteggono i nostri volti davanti al Trono Nero, apprestiamo la vittima volontaria», fece eco Kalkmann con la sua voce di basso.

Alzarono il viso, ascoltando, come in attesa, mentre un suono sibilante, come il passaggio di potenti proiettili, riempiva l’aria, lontano, lontano, meraviglioso, dominante. Le pareti della stanza tremarono.

«Arriva! Arriva! Arriva!» cantarono i Fratelli in coro.

Il suono sibilante svanì lentamente, e un’atmosfera di calma e di freddo estremo si stabilì dovunque. Allora Kalkmann, tetro e indicibilmente austero, si volse nella penombra e si pose di fronte agli altri.

«Asmodelius, il nostro Fratello Capo, si trova tra noi», gridò con una voce che, per quanto incerta, era egualmente una voce di ferro; «Asmodelius si trova tra noi. Preparatevi».

Seguì una pausa, durante la quale nessuno si mosse, nè parlò. Un Fratello, alto di statura, si accostò all’inglese; ma Kalkmann gli trattenne la mano.

«Lasciategli scoperti gli occhi», disse, «come prova che si è prestato liberamente». Harris si accorse allora, con orrore, di aver già le mani immobilizzate ai fianchi.

Il Fratello si ritrasse di nuovo in silenzio. Nella pausa che seguì, tutte le figure intorno a lui si lasciarono cadere sulle ginocchia, lasciandolo solo. Mentre stavano in ginocchio, con voci soffocate da una reverenza mista al timore, urlarono, ma quasi senza suono, odiosamente, spaventosamente, il nome dell’Essere di cui, da un momento all’altro, attendevano l’apparizione.

Allora, alla estremità della stanza, dove le finestre sembravano scomparse, cosicchè poteva vedere le stelle, si delinearono alla sua vista, lontani, contro il cielo notturno, grandi e terribili, i contorni di un uomo. Una specie di aureola grigia lo avviluppava… Pareva una statua posta in una nicchia d’acciaio, immensa, imponente, orribile, nel suo remoto splendore… Il volto era di una spiritualità così potente e, al tempo stesso, di una tristezza così orgogliosa ed austera, che Harris, fissandolo, sentì che quella visione era più di quanto i suoi occhi potessero sostenere… Un momento ancora, e la forza visiva gli sarebbe venuta a mancare, e sarebbe precipitato nel nulla completo…

Tanto remota e inaccessibile appariva quella figura, che era impossibile farsi un’idea delle sue dimensioni. Pareva, a volte, che fosse stranamente vicina. Quando poi la grigia irradiazione di quel volto lugubre, si proiettò sulla sua anima, palpitando con le forze del peccato spirituale, il volto terribile gli parve vicinissimo, non più distante di quello dei Fratelli che gli stavano appresso.

Allora la stanza si riempì e tremò di suoni indistinti. Harris comprese che erano le voci svanite di coloro che lo avevano preceduto, in una lunga serie, col volgere degli anni. Venne dapprima un grido distinto ed acuto, come di uomo nell’ultima angoscia, l’urlo di una persona strangolata, esalante, con l’ultimo respiro, il nome di invocante adorazione del tetro Essere dinnanzi a lui. Gli urli degli strangolati; il breve ansito disperatamente sussultorio dei soffocati, il gorgoglìo sommesso della gola strozzata, tutto ciò, e di più, riecheggiava fra quelle stesse pareti fra le quali egli stesso, ora, si trovava, imprigionato, come vittima del sacrificio. Udiva, con gli urli dei corpi distrutti, quello delle anime disfatte, perdute… Vedeva ora distintamente, come in un coro spettrale, i volti delle infelici creature che erano state sacrificate prima di lui. In una luce pallida e grigia, il corteo dei volti umani, bianchi e spettrali, passava, sospeso nell’aria. E quei volti accennavano e biascicavano verso di lui parole indistinte, come se già egli facesse parte del loro triste corteo.

Lentamente, col levarsi delle voci, mentre il triste corteo gli passava accanto, la gigantesca forma grigia discese dal cielo e si accostò alla stanza che ospitava gli adoratori e il loro prigioniero. Delle mani si levarono e si abbassarono intorno a lui, nell’oscurità. Sentì di venire avviluppato in altri indumenti, diversi dai suoi. Un cerchio di ghiaccio sembrò scorrergli intorno al capo. Una cintura lo strinse fortemente alla vita, comprimendogli anche le braccia legate. Un tocco lieve, come un serico fruscìo, gli serpeggiò infine intorno al collo. Meglio ancora che se si fosse trovato nella viva luce, meglio ancora che se avesse avuto uno specchio dinnanzi a sè, comprese che era una corda… il laccio del sacrificio… e della morte.

In quel momento, i Fratelli, tuttora prostrati sul pavimento, intonarono nuovamente il loro canto, lugubre e triste, e mentre così facevano, accadde una cosa strana. Senza muoversi o alterare la sua posizione, l’immane figura sembrò ad un tratto invadere la stanza. La sentiva, accanto a lui, riempiva tutto lo spazio che lo circondava, escludendone ogni altra cosa.

Harris si trovava ora al di là di ogni normale sensazione di paura. Solo un oscuro sentimento di morte, di morte dell’anima, si agitava nel suo cuore. I suoi pensieri non tendevano più nemmeno verso la fuga. La fine era prossima! Lo sapeva!

Le voci del terribile canto si levarono intorno a lui, come un’ondata: «Celebriamo! Adoriamo! Offriamo!» I suoni gli riempivano le orecchie e gli martellavano, quasi senza senso, il cervello.

Allora il maestoso volto grigio si abbassò lentamente su di lui. Gli parve che anche l’anima gli uscisse dal corpo e venisse assorbita nel mare di quegli occhi terrorizzanti. Nello stesso istante, una dozzina di mani lo costrinsero a inginocchiarsi. Nell’aria, davanti a lui, vide levarsi il braccio di Kalkmann, e sentì aumentare la pressione intorno al collo.

Fu in quel momento tremendo, quando aveva ormai perduto ogni speranza, e l’aiuto degli dei e degli uomini sembrava impossibile, che avvenne una cosa strana. Davanti alla sua vista indebolita e atterrita, s’insinuò, come in un sogno di luce, senza apparente motivo, in modo affatto imprevisto e inspiegabile, il volto di quell’altro uomo al tavolo della trattoria della stazione. E la vista, anche solo mentale, di quel forte volto, sano e vigoroso, gli infuse subito un nuovo coraggio.

Fu solo una visione repentina come un lampo, un guizzo evanescente, prima di subire quella morte oscura e terribile. Eppure, per qualche ragione inesplicabile, la vista di quel volto fece sorgere in lui una speranza insopprimibile, e la certezza della liberazione. Era un volto potente, un volto, com’egli si rendeva conto ora, di semplice bontà, quale si sarebbe potuto vedere tra la gente antica, sui lidi della Galilea… un volto celeste che avrebbe potuto dominare perfino i demoni di una sfera più ampia…

E, nella sua disperazione, nel suo abbandono, egli vi fece appello, e lo chiamò, e lo invocò con parole piene di fede. Ritrovò la sua voce, in quell’attimo ossessionante, per uno scopo preciso, determinato. Non potè mai ricordare se le parole che effettivamente pronunciò fossero tedesche o inglesi. Il loro effetto, tuttavia, fu istantaneo. I Fratelli compresero! La Figura grigia comprese!

Per un secondo, la confusione fu terrificante. Vi fu un frastuono prolungato. La terra stessa parve tremare. Tutto quanto Harris potè in seguito ricordare, fu che un clamore di voci atterrite sorse intorno a lui.

«Un uomo potente è tra noi! Un uomo di Dio»!

L’ampio suono di prima si ripetè, come il sibilare attraverso lo spazio di enormi proiettili, ed egli cadde sul pavimento della stanza, privo di sensi. Tutta la scena era svanita, svanita come il fumo sopra il tetto di una capanna, quando soffia il vento.

Al suo fianco, sedeva un’esile figura… Non era un tedesco… Era la figura dello straniero dell’osteria, dell’uomo che aveva quegli occhi sorprendenti, affascinanti…

Quando Harris riprese coscienza, si sentì freddo. Stava disteso sotto il cielo aperto, e l’aria fresca dei campi e delle foreste gli soffiava sul viso. Si levò a sedere e si guardò intorno. Il ricordo dell’ultima scena viveva ancora, orribile, nella sua mente, ma non ne rimaneva più traccia. Nè pareti nè soffitto lo rinchiudevano. Non si trovava più in una stanza. Non c’erano più nè lampade affiochite, nè fumo di sigari, nè forme nere di sinistri adoratori, nè la tremenda Figura grigia sospesa nel vuoto, al di là delle finestre.

Uno spazio libero lo circondava, ed egli giaceva su un cumulo di mattoni e di calcinacci, coi vestiti umidi di rugiada, e le placide stelle che gli splendevano sopra il capo. Giaceva, tutto pesto e scosso, fra le macerie ammucchiate di un edificio crollato.

Si levò in piedi e si guardò intorno. Là, nella cupa lontananza, la foresta lo circondava, e in primo piano c’erano i contorni degli abituri del villaggio. Ma, sotto i suoi piedi, senza dubbio, non c’erano altro che i cumuli frantumati di pietre che segnavano l’ubicazione di un edificio da molto tempo andato in rovina. Poi vide che le pietre erano annerite, e che grandi travi di legno, semicarbonizzate e quasi completamente marcite, screziavano quella generale rovina. Stava, dunque, fra le rovine di un edificio arso e rovinato, dove l’erba e le ortiche fornivano la prova conclusiva che esso si trovava in quello stato da molti anni.

La luna era già tramontata dietro gli alberi della foresta, ma le stelle che erano sparse nel cielo emanavano una luce sufficiente per metterlo in grado di sincerarsi appieno di quanto vedeva. Harris, il commerciante di seta, rimase ritto fra quelle pietre arse e spezzate, e rabbrividì.

Allora si accorse ad un tratto che una figura era sorta nel buio e gli si era fermata al fianco. Guardandola, egli pensò di riconoscere il volto dello straniero dell’osteria della ferrovia.

«Siete voi davvero?» domandò, con una voce che a stento riconobbe come sua.

«Certamente!… e bene intenzionato», rispose lo straniero; «vi ho seguito sin qui dall’osteria».

Harris rimase a guardare per alcuni minuti senza pronunciare parole. I denti gli battevano. Il minimo rumore lo faceva sussultare. Ma quelle semplici parole, nella sua lingua, e il tono in cui erano state pronunciate, gli davano un conforto che non sapeva spiegarsi.

«Siete inglese anche voi, grazie a Dio!», disse senza alcuna premessa. «Questi demoni tedeschi!…». S’interruppe e si portò una mano agli occhi. «Ma che è successo di tutti loro?… E la stanza?… E… E…» La mano gli si abbassò sulla gola, e girò nervosamente intorno al collo. Trasse un lungo, un lunghissimo respiro di sollievo. «Ho sognato ogni cosa?.. ogni cosa?…» domandò con espressione assente.

Guardò selvaggiamente intorno a sè, e lo straniero gli si accostò e lo prese per un braccio. «Venite!», disse calmandolo, ma con un lieve accento di comando nella voce. «Andiamocene lontano di qui. La strada maestra, od anche i boschi vi confaranno assai di più, poichè ci troviamo ora in uno dei punti più infestati, e nel modo più terribile, di tutto il mondo».

Guidò i passi incerti dei compagno attraverso le mura crollate, finchè raggiunsero il sentiero, mentre le ortiche loro pungevano le mani. Ad Harris sembrava di camminare in sogno. Passando per una inferriata contorta, raggiunsero il sentiero, e di là si diressero verso la strada, che splendeva bianca nella notte. Una volta in salvo dalle rovine, Harris rientrò in sè, e si volse a guardare.

«Ma, com’è possibile?…» esclamò, con la voce ancora tremante. «Come è mai possibile?… Quando venni qui, vidi l’edificio nel chiaro di luna. Mi hanno aperto il portone. Ho visto le loro figure. Ho udito le loro voci. Ho toccato, sì, ho toccato le loro mani. Ho veduto i loro neri volti dannati. Li ho veduti con una precisione assai maggiore di quanto non vegga voi, ora». Era profondamente sconvolto. L’incantesimo pesava ancora sui suoi occhi, con un grado di realtà anche più intensa della stessa realtà della vita normale. «Ero così completamente allucinato, allora?…».

Poi, improvvisamente, le parole dello straniero, che aveva udito e compreso soltanto a metà, gli ritornarono alla mente.

«Infestato?» domandò, guardandolo fisso; «Infestato, avete detto?». Si fermò sulla strada, e guardò, nel buio, dove l’edificio della vecchia scuola gli era apparso per la prima volta. Ma lo straniero lo spinse avanti.

«Ne parleremo con maggiore sicurezza più avanti», disse. «Vi ho seguito dall’osteria, sin dal momento che mi sono reso conto dove eravate diretto. Quando vi ho trovato, erano le undici…».

«Le undici!», disse Harris, ricordando con un brivido.

«Vi ho veduto cadere. Ho vegliato su di voi finchè avete ripreso i sensi da solo. Ora… ora sono qui a ricondurvi sano e salvo all’albergo. Ho infranto l’incanto… l’incantesimo…».

«Vi devo molto, signore!», interruppe Harris di nuovo, cominciando a capire qualche cosa dalle strane parole dello straniero. «Ma non comprendo affatto. Mi sento disorientato e scosso». I denti ancora gli battevano. Scosse di violento raccapriccio lo sovrastavano da capo a piedi. Si appoggiò sul braccio dell’altro. Passarono così al di là del villaggio deserto e diroccato e raggiunsero la strada maestra, che li ricondusse verso casa, attraverso la foresta.

«L’edificio della scuola giace da molto tempo in rovina», disse l’uomo al suo fianco. «È stato incendiato per ordine degli anziani della comunità almeno dieci anni or sono. Il villaggio, da allora, non è più stato abitato. Ma i simulacri di certi avvenimenti spettrali che hanno avuto luogo sotto quel tetto nei giorni passati, continuano tuttora. E gli «involucri» dei principali protagonisti vi recitano tuttora le atroci gesta che condussero alla sua definitiva distruzione, e alla diserzione di tutto l’abitato. Erano adoratori del diavolo!».

Harris ascoltò col sudore che gli imperlava la fronte e che non proveniva soltanto dal loro passo rapido attraverso la frescura della notte. Benchè avesse visto quell’uomo una sola volta nella sua vita, e non avesse mai, prima d’allora, scambiato con lui una sola parola, sentiva una cieca fiducia e un acuto senso di sicurezza e di benessere alla sua presenza. Era l’influenza più salutare che avesse mai potuto desiderare, dopo le atroci prove che aveva attraversato. Gli pareva tuttora di camminare come in sogno e, benchè udisse ogni parola che usciva dalle labbra del compagno, fu soltanto il giorno dopo che il pieno significato di tutto quanto egli aveva detto gli si schiarì completamente nel cervello. La presenza di quello straniero, di quell’uomo calmo e sereno, dagli occhi meravigliosi che egli sentiva, ora, più che vederli, conferiva un benefico calmante al suo spirito sconvolto, un calmante che lo guariva sino nel fondo dell’anima. L’influenza risanatrice, che emanava dall’oscura figura al suo fianco, soddisfaceva al suo primo categorico impulso, a tal punto che quasi dimenticò di considerare quanto fosse strana e opportuna la presenza di quell’uomo.

Non gli passò nemmeno per la testa l’idea di chiedergli il suo nome. Nè poteva pensare che un turista di passaggio dovesse tanto disturbarsi per un altro. Gli camminava al fianco semplicemente! Ne ascoltava le parole pacate. Si concedeva il godimento di una sensazione davvero miracolosa, dopo la sua prova recente; la sensazione di vedersi aiutato, rinvigorito, favorito. Solo una volta, ricordando vagamente qualche cosa delle sue letture di molti anni prima, si volse all’uomo al suo fianco, dopo alcune parole più rimarchevoli delle altre, e gli rivolse, quasi involontariamente, una domanda: «Allora siete forse un Rosacroce, signore?». Ma lo straniero parve non udire le sue parole, e continuò a parlare, come se non fosse stato nemmeno interrotto. Harris si accorse che un’altra sensazione, affatto insolita, aveva preso possesso della sua mente. Mentre camminavano l’uno accanto all’altro attraverso le fresche radure della foresta, la sua immaginazione lo riportò improvvisamente ad un ricordo della sua infanzia: il ricordo di Giacobbe in lotta con l’angelo,… in lotta con un essere di qualità superiore, la cui forza passava dentro di lui e diveniva sua…

«È stata la tronca conversazione col prete, a cena, che mi ha posto dapprima sulle traccie di questa straordinaria avventura», disse la voce calma dell’uomo al suo fianco, nell’oscurità. «Fu da lui che seppi, dopo la vostra partenza, la storia del culto del diavolo, segretamente istituito nel cuore di quella piccola comunità, semplice e devota».

«Culto del diavolo? qui…!» Harris balbettò, atterrito.

«Sì!… Qui! Celebrato segretamente per anni da un gruppo di Fratelli, prima che alcune scomparse inesplicabili nel vicinato non portassero alla sua scoperta. Poichè, dove avrebbero potuto trovare un luogo più sicuro, in tutto il vasto mondo, per il loro macabro traffico, e i loro poteri perversi, se non qui, negli stessi recinti… nel rifugio stesso della religione, all’ombra della santità della vita religiosa?».

«Terribile! Terribile!» bisbigliò il commerciante. «E se vi dico che le parole che usavano…».

«So tutto!», disse lo straniero tranquillamente. «Ho visto e udito ogni cosa! Il mio piano era quello di attendere sino alla fine, prima di prendere i provvedimenti per la loro distruzione. Ma nell’interesse della vostra salvezza personale», e parlava con la massima gravità e convinzione, «nell’interesse della salvezza della vostra stessa anima, ho reso nota la mia presenza a un momento determinato, prima che fossero arrivati alla conclusione…».

«La mia salvezza! Il pericolo dunque era reale? Erano vivi e…». Le parole gli vennero a mancare. Si fermò, sulla strada e si volse verso il compagno, i cui occhi splendenti poteva appena percepire nella profonda oscurità.

«È stato il concorso di involucri di uomini violenti, spiritualmente evoluti, ma malvagi, che cercavano dopo la morte, la morte del corpo, di prolungare la loro abbietta e snaturata esistenza. Se avessero raggiunto il loro scopo, anche voi, a vostra volta, con la morte del vostro corpo, sareste passato in loro potere e avreste contribuito ai loro propositi nefasti».

Harris non rispose. Si sforzava a concentrare la sua mente sulle cose piacevoli e comuni della vita. Pensò perfino alla seta e a St. Paul’s Churchyard, e al viso dei suoi amici di affari.

«Siete arrivato là completamente predisposto ad essere preso», udì la voce dell’altro, come qualcuno che gli parlasse da lontano. «La vostra indole profondamene introspettiva aveva già ricostruito il passato in modo così vivace, così intenso, che vi trovaste immediatamente a contatto con tutte le forze di quei giorni che in quel dato momento ancora vagavano attardate. Ed esse vi hanno attirato, irresistibilmente, nel loro risucchio».

Harris, udendo ciò, si strinse ancor più al braccio dello straniero. In quel momento vi era in lui posto per una sola emozione. Non gli sembrava affatto strano che quello straniero avesse una conoscenza tanto intima della sua mente.

«Purtroppo, sono soprattutto le emozioni malvage, che sono capaci di imprimere le loro fotografie su scene e oggetti circostanti!», soggiunse l’altro. «Chi ha mai inteso parlare di un luogo infestato, per così dire, da nobili fatti; o di spiriti belli e gentili che frequentino gli ambienti illuminati dalla luna? Soltanto le passioni più miserabili del cuore umano sembrano sufficientemente forti da lasciare impronte persistenti; quelle buone sono sempre troppo deboli».

Lo straniero sospirò, mentre parlava. Ma Harris, esausto e scosso com’era, fino in fondo all’anima, gli camminava accanto ascoltando soltanto a metà. Procedeva ancora come in sogno. Era veramente meravigliosa, per lui, quella passeggiata sotto le stelle, nelle prime ore del mattino d’ottobre, con le calme foreste intorno, mentre la nebbia si levava qua e là sulle piccole radure, e il rumore dell’acqua, proveniente da cento torrenti invisibili, riempiva le pause della conversazione. In tutti gli anni che seguirono, egli vi ritornò sempre con la mente, come a qualche cosa di magico e di impossibile, come a qualche cosa di troppo bello, di troppo stranamente bello, per essere stato del tutto reale. E benchè, allora, udisse e comprendesse soltanto una quarta parte di quanto lo straniero diceva, il ricordo di quanto disse ritornò a lui in seguito, tenendogli compagnia sino alla fine dei suoi giorni, e sempre con un curioso, ossessionante senso di irrealtà, come se fosse stato allietato da un sogno meraviglioso, di cui poteva ricordare soltanto dei tratti delicati e squisiti.

Ma l’orrore dell’esperienza antecedente era effettivamente dissipato. Quando essi raggiunsero l’albergo della stazione, verso le tre del mattino, Harris strinse con riconoscenza ed effusione la mano dello straniero, incontrando con cuore aperto lo sguardo di quegli occhi meravigliosi, e salì nella sua stanza; ripensando in modo nebuloso e sognante, alle parole con le quali lo straniero aveva portato la loro conversazione a termine, mentre uscivano dai margini della foresta.

«Se il pensiero e l’emozione possono persistere a tal modo tanto tempo dopo che il cervello che li ha emanati è ridotto in polvere, quale vitale importanza deve risiedere sul controllo del loro stesso sorgere dal cuore umano, e nel vigilarli, con più attenta cura possibile!».

Ma Harris, il commerciante di seta, dormì meglio di quanto si sarebbe mai atteso, immerso in un sonno profondo sino a tardi nella giornata. Quando discese le scale e apprese che lo straniero era già partito, si ricordò, con acuto rammarico, di non aver neanche pensato, nemmeno per una volta, a chiedergli il suo nome.

«Sì! Ha firmato nell’albo dei visitatori», rispose la cameriera alla sua domanda ansiosa.

Scorse lo sguardo lungo le pagine scarabocchiate, e vi trovò la firma dell’ultimo arrivato, in una calligrafia molto delicata e originale…

«Giovanni Silence, Londra».

Fine.


Troverai tanti altri racconti da leggere nella Mediateca di Pagina Tre (clicca qui!)


Liber Liber

Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.

Fai una donazione

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.


QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Culto segreto

AUTORE: >Algernon Blackwood

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Il medico miracoloso : John Silence / Algernon Blackwood. - Milano : Bocca, 1946. - 390 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC009050 FICTION / Fantasy / Paranormale