(voce di Luca Grandelis)

Numerose sono le opere di Alfredo Panzini, tra cui va annoverato il «Dizionario moderno», del 1905. Tra i romanzi si segnalano: «Donne, Madonne e Bimbi» del 1915; «Il mondo è rotondo», del 1921; «Il padrone sono me!», del 1922.

«La lanterna di Diogene» è del 1907. In questa opera, scrive Giorgio Bárberi Squarotti nel «Grande Dizionario Enciclopedico» della UTET, Panzini «raggiunge uno dei risultati più caratteristici nella rievocazione di un viaggio minore, paesano, tutto descrizioni abilissime e arguzie, moralità e sottile polemica conservatrice.»

È «un ardente pomeriggio» dell’11 luglio, allorché l’autore varca la Porta Romana di Milano («dove è necessario possedere un sistema nervoso fabbricato appositamente.) su una vecchia bicicletta per raggiungere un paesucolo sull’Adriatico, in Romagna, Bellaria: «ornate le gambe di un paio di novissime calze, montai in sella.»

Ci delizia subito una scrittura frizzante, briosamente arguta e civettuola, di quelle che una volta nate continuano a crescere con il tempo senza mai annoiare, fresche sempre, deliziose e gradite alla mente e al sentimento: «Con prepotenti squilli mi diedi ad avvertire la gente del mio passaggio, e la gente mi guardava». Lasciare Milano è mettersi dietro le spalle la pesantezza della civiltà, il suo buio colore, il suo olezzo quasi di morte. Bellaria si configura già come una meta liberatoria, un ritorno alla purezza originaria: «una freschezza forte e giovane mi alitò nel cuore.» L’autore è sulla soglia dei quarant’anni quando inizia questo viaggio. Attraverserà paesi e città: Lodi, Piacenza, Parma, Reggio, Rubiera, Modena, Pavullo, Lama Mocogno, Abetone, San Marcello Pistoiese, La Porretta, Savignano, San Mauro, il paese in cui nacque Giovanni Pascoli, Ravenna, Mandriole, dove in una fattoria morì Anita Garibaldi, Comacchio, e taluni luoghi gli ispireranno quadretti di vita rustica e riflessioni e considerazioni quando ironiche, quando pensose, quando ariose e sorridenti. Valga per tutti l’esempio di Comacchio. C’è tanta luce, infatti, e tanta letizia in buona parte di questo viaggio, che procurano al lettore continue sensazioni di giovinezza e di libertà: «l’umile duro pane, spezzato presso qualche osteria di campagna, mi parve saporito più di ogni ricercata vivanda. Perché io evitai le città, né mi fermai in esse: le grigie mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle generazioni umane. Oh più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani primavere.»

Si può notare, disseminata qua e là, qualche sbavatura retorica o professorale, ma l’insieme resta compatto e assai piacevole ancora oggi. Ove si pensi che l’opera nacque in mezzo ai frastuoni dei molti movimenti letterari dell’inizio del Novecento, la sua sobrietà fa pensare ad un vero e proprio miracolo. Un esempio della gradevolezza in cui l’autore sa mantenere i confini della sua retorica può essere dato da questo brano, scelto tra i tanti: «Nel breve tragitto dalle Stiviere a Modena quante deliziose ville occultate nel verde dell’ubertosa campagna, come ninfe entro i boschi! Che lieto mattinare degli uccelli per i giardini silenziosi!»

L’amor di Patria è uno dei segni distintivi di questo viaggio. Una testimonianza evidente la si coglie allorché ammira la bella Modena: «Questa piccola Italia, se ci mettiamo a studiarla secondo geografia, diventa grande come un continente; e se ci mettiamo a studiarla secondo storia, quest’umile Italia diventa superba come un impero.»

Ma subito dopo ecco la sua stoccata, una delle tante: «La materia è vasta; ed è forse per questo che gli studi della storia e della geografia nazionale sono accuratamente evitati.»

Il suo non è mai uno sguardo disincantato. Vi è felicità per le occasioni e le sensazioni che il viaggio offre, ma non al punto di non accorgersi delle brutture che invadono il Paese, tanto materiali quanto intellettuali: «l’onesta bicicletta passa oramai inavvertita fra le genti. Gli occhi dei contadini non si fanno più tondi se non al passaggio di un automobile.» Si noti che Panzini, non solo qui, ma per tutto il libro, considera maschile il vocabolo automobile, in quegli anni alle sue prime apparizioni. Qualche volta anche estate è maschile («grandissimi pomeriggi del caro estate»). Si incontrano, inoltre, qua e là alcuni vocaboli in disuso (si rammenti che Panzini fu autore di un dizionario e di una grammatica che furono famosi): sporchizie, rugghi, giovanezza, sonettesse, suggesto, rancura, cria, butirro, spaldo, petaso, balusche, viatore, rubeste, abbadia, nebule, discaro, scrignuta, e altri ancora.

A proposito dell’automobile, ecco un’altra stoccata, che non ha perso nulla della sua attualità: «Cesare è disceso dalla quadriga: ma il capitalista anonimo è salito sull’automobile e percorre da trionfatore la strada della democrazia, con la visiera della maschera calata.»

Ci accorgiamo così che il viaggio di Panzini vorremmo farlo anche noi per constatare quante vezzosità e armonie da lui incontrate («magnificenza delle cose presenti e viventi») in quei lontani anni abbiano resistito nel tempo oppure siano scomparse lasciando il posto ad una modernità oscena, senza pudore e senza misura. Amara, tuttavia, sarebbe la inevitabile constatazione che è stato il peggio ad avanzare e a sconfiggere il bello. «La lanterna di Diogene» assume, in realtà, la valenza di una testimonianza malinconica lasciataci da un uomo che già prevedeva le conseguenze nefaste delle nuove scoperte e delle nuove invenzioni, ammaliatrici e ingannevoli.

La fede è una sua compagna di viaggio. Ricorrono le invocazioni a Dio e i ringraziamenti rivoltiGli per la bellezza del creato. È un sentire lieto e convinto, al punto che è attraverso di esso che egli può apprezzare pienamente ciò che si dispiega di mirabile e di incantevole sotto i suoi occhi.

Panzini si porta dietro amor di Patria e fede in Dio quali valori imprescindibili della nostra razza, e il renderli così marcati assume la connotazione di un canto disperato per il presentimento di decadenza e di morte che li avvolge. Ma ecco che finalmente giunge alla meta: una casetta sul mare, situata in un piccolo villaggio di pescatori, Bellaria. Qui la vita vi scorre primitiva, «troglodita», e Panzini annota quasi con pignoleria, ma con piacevole e ridente sentimento, le abitudini della gente: la vecchia bacucca che parla con le galline e i maiali, le ragazze che mostrano le ceste della mercanzia ed hanno imparato bene dalle loro madri l’arte e l’ingegno del vendere, il pescatore novantenne che rattoppa le reti («Egli dice a chi capita che non ha mai saputo che cosa sia dolor di testa, tosse, raffreddore.»), il tabaccaio Pirùzz, il conte ex capitano, amante della bicicletta e delle donne, padron Isidoro, la venditrice Giovanna, «una bestia da tiro», con la sua famiglia numerosa, che disegna un significativo quadretto della vita povera di quegli anni, Giacomo Moroni che suona il suo organetto a manovella, Imperia, «la marchesina ciclista», e così via.

Bellaria è per Panzini il luogo ideale in cui tutto è rimasto genuino, recalcitrante e impermeabile al degrado insito nella modernità, una città del sole in cui operosità e felicità vanno accompagnando in perfetta armonia («Il vero sapere è essenzialmente armonia») la vita dell’uomo. È un viaggio alla ricerca delle origini, del buono e del bello, che ancora riescono a sopravvivere.

Trascorre la sua vacanza in quel bel paese con partecipazione alla vita di tutti i giorni: conversa, osserva, legge, lavora, ozia. I contadini e i pescatori sono ben lontani dal capire che anche lo studio e la lettura in cui lo vedono coinvolto è una fatica quanto la loro nei campi o sul mare. Ha da contrastare nelle discussioni un tale pregiudizio. E lo fa molto volentieri, anche quando sfilano una domenica i primi lavoratori socialisti: «Venivano in ‘fitta schiera’ con una fanfara alla testa, per inaugurare il vessillo di una Società operaia ed ascoltare, di conseguenza, la predica di un loro oratore d’occasione.», ai quali rimprovera che nella vita di tutti i giorni sono e resteranno, per loro convenienza, sempre cerimoniosi e succubi dei ricchi. I tempi, insomma, non sono ancora maturi: «togliamo intanto dalla vita i bari che mettono in circolazione i falsi valori; acquistiamo, tutti, migliore coscienza; riformiamo l’inutile scuola dell’alfabeto, semplifichiamo e miglioriamo la vita! Dopo, il resto verrà da sé, quale esso sia: quale voi vorrete.» E però, poco più avanti aggiunge: «Fare il vero profeta è cosa difficilissima.»

Dirà anche: «Quanto a nobiltà di lavoro, essere bravo contadino equivale per lo meno ad un titolo di dottore. Sì, tutto ciò è ben detto, ma chi in questa nostra nazione, in cui troppi sono gli aspiranti all’impiego, risponderebbe all’appello?». Non si sbagliava, Panzini, a porsi già allora l’interrogativo, prevedendo l’abbandono delle campagne, in favore di un terziario oggi fin troppo strabocchevole e, non di rado, improduttivo.

A Bellaria si svolge la parte più gustosa e succosa del libro, con descrizioni di scene e personaggi di gran colore e simpatia. Panzini vi si rivela ritrattista di primordine, osservatore attento e divertito, accompagnato da una prosa sagace, arguta, piccante perfino.

Un velo di malinconia ogni tanto si leva ad accompagnare il viaggio: «Noi cominciamo a morire un poco per volta inavvertitamente, e questo lento morire, questo atrofizzarsi e involversi dei sensi ingenui della gioia noi talora chiamiamo sapienza.»

E più avanti: «È inutile: gli uomini oramai non sentono più la voce degli dei, né antichi, né nuovi.»

Vibranti le pagine sul Pascoli e sulla triste storia della sua famiglia, sepolta nel cimitero di San Mauro. Come è noto Giovanni Pascoli e la sorella Mariù sono invece sepolti in Lucchesia, a Castelvecchio Pascoli, nella casa che il poeta acquistò con la vendita delle medaglie d’oro vinte al Concorso di Poesia Latina di Amsterdam.

A mano a mano che la sua permanenza in quei luoghi si prolunga, la nostalgia per una vita semplice e serena si acuisce e si impossessa dell’autore, che si rivela: e non fa più mistero di preferirla alla vita moderna. Il viaggio si sta trasformando in una cognizione della possibile felicità che può essere conquistata dall’uomo, se solo riuscisse a guardarsi dentro e a rendersi conto delle «leggi della tirannide sociale» che lo opprimono.

Un’aurea di commosso lirismo si diffonde nella parte finale del libro, ed è il segno di un’aspirazione ad un ritorno che si sa impossibile: «Sentii allora lagrime antiche che distillavano di dentro, come fossero state di piombo liquefatto: ‘Ah, giovinezza che ti allontani: giovinezza che non sei più!’»

Anche le frequenti immagini di giovinette, che aleggiano su tutto il viaggio, possono essere assunte a simbolo di un tempo rimpianto e lontano: «Era quella una voce di donna, ma non nenia dolorosa quale il vespero e le basse tristi terre avrebbero domandato: ma voce squillante e in pari tempo dolcissima, volubile d’uno in altro canto, con una passione che parea dare a sé beatitudine.»

La ricerca della felicità, dunque, si accompagna sempre al rimpianto e al dolore. Essa, alla fine, altro non è che la ricerca della propria morte. Le pagine finali, con quell’eccidio di agnellini alla vigilia della Pasqua, e la morte del maiale per mano del norcino, ci dicono, infatti, che il mondo e la vita non sono altro che mistero e contraddizione, e quel funerale con cui si chiude l’opera in realtà ci appartiene: attende tutti noi.