(voce di Luca Grandelis)

Poeta e narratore, Moretti scrisse molte opere, di cui è impossibile qui la enumerazione. Mondadori fu la sua casa editrice di riferimento. Citiamo solo: «L’Andreana», del 1935; «La vedova Fioravanti», del 1941, considerato il suo capolavoro, e «Il libro dei sorprendenti vent’anni», del 1955, che gli valse il Premio Napoli dello stesso anno. Con il primo volume della raccolta «Tutte le novelle» vinse il Premio Viareggio nel 1959. Fu anche autore teatrale. Giornalista, collaborò a molte riviste e quotidiani, tra cui il «Corriere della sera», per il quale scrisse per circa un trentennio.

«L’isola dell’amore» è del 1920.
Una zitella di origine americana, Miss Kathleen Mowrer, vissuta negli ultimi anni della sua vita in Italia, ricchissima, lascia il suo patrimonio per la istituzione di «un’Opera Pia per il Ricovero delle Vecchie Zitelle», alle quali dovranno mostrare tenerezza uomini «non troppo giovani ma nemmeno troppo vecchi, e di maniere distinte.», per la cui educazione la defunta lascia un terzo del patrimonio: «Questi apostoli della Tenerezza dovranno dare alle diseredate dell’amore la illusione di aver suscitato, almeno una volta nella loro vita, una fiamma fatua e fugace nel cuore di un uomo.» Del testamento se ne parla in tutto il mondo, e specialmente in Italia, dove ogni zitella si lascia scaldare il cuore da una nuova illusione: «Questi furono, press’a poco, i pensieri delle signorine di più di quarant’anni, italiane e straniere, ma più specialmente della nostra cara provincia italiana, nel 1888, anno che possiamo facilmente immaginare, per tutta Europa, dolce e mediocre.»
Non v’è dubbio che l’idea ispiratrice ha un che bizzarro e amabilmente ironico.

Vediamo che cosa succede in questo speciale Istituto, collocato su di una «verde isoletta» in mezzo ad un lago, «il più malinconico e dimenticato lago del mondo.», dove «Le signorine non dovranno portar seco nell’isola né immagini di santi, né coroncine, né scapolari, né crocifissi, né reliquie, né altre cianfrusaglie della religione cattolica apostolica romana. L’unica religione ammessa nell’Istituto è l’amore. L’unico Dio che si dovrà pregare nell’Istituto è il Dio d’Amore, Cupido, figlio di Venere e di Marte.»

La scrittura è fiabesca. Dà la sensazione di essere penetrati in un mondo irreale, abitato dai fantasmi di un sogno. Lo stile piano, semplice, scorrevole, aiuta a dare una tale sensazione.

La ricostruzione dell’ambiente è leggiadra come un minuetto. Un arredo e un’atmosfera settecentesca aprono le porte ad un universo in cui tutto è preparato e disposto a trasformare il dolore e la malinconia, la delusione e la sconfitta in speranza e felicità.

Le zitelle ospiti sono ventiquattro, più una che deve ancora venire, Giulietta. Moretti ce ne elenca i nomi e ci racconta brevemente qualcosa di tutte. Sono state delle sognatrici: belle o brutte che fossero il sogno le ha tenute lontane dall’amore.

Quando giunge la venticinquesima ospite, Giulietta, 43 anni, un’età considerata molto giovane in quel luogo, destinata a diventare il personaggio principale del romanzo, l’autore ne approfitta per introdurci alla villa Mowrer, che è preceduta da un giardino che richiama alla mente, per le sue meraviglie ed il suo incanto, giardini celebri della letteratura come quello di Armida, descritto da Torquato Tasso nel XVI canto della «Gerusalemme liberata», o quello di Alcinoo del libro VII dell’ «Odissea». Ma Moretti vi inserisce il sorriso di chi sa di rappresentare una realtà impossibile, vagheggiata, frutto di un sogno, appunto. Vi ha dimora anche Cupido, munito di arco e di frecce, che scocca in continuazione.

Non da meno è l’appartamentino in cui Giulietta alloggerà, una colorita ed affrescata bomboniera dotata di tutti gli ingredienti per favorire l’amore. Vi è perfino un «salottino, intimo e prezioso come l’interno di un cofanetto. Qui la signorina avrebbe potuto ricevere il suo cavaliere, sedersi col suo cavaliere sul divano di raso giallo, passare ore squisite con lui.»

In questo ambiente le ospiti «cominciano la nuova vita dimenticando quella che hanno vissuto fino allora; è, press’a poco, come quando un bel sogno annulla il cattivo sogno di prima.»

Arrivano i cavalieri, i corteggiatori: «tutti come li aveva voluti Miss Mowrer, non troppo giovani e nemmeno troppo vecchi, di maniere distinte, anzi irreprensibili.» È un quadretto di sopraffina eleganza settecentesca quello che ci viene descritto: le damigelle nei loro salottini e i cicisbei (che sono regolarmente pagati per il loro lavoro) in piedi o seduti nelle più svariate posizioni, intenti alla conversazione frivola e amabile, nonché al corteggiamento: «Un cavaliere parla, con cognizione di causa, della distanza incommensurabile delle stelle dalla nostra povera terra.»

Anche a Giulietta è assegnato un cavaliere, si tratta di un conte decaduto, il suo cuore sobbalza: «Era amata. Era già amata.» Comincia così per lei la vita nuova, di cui terrà anche un diario, come fanno le altre.

Ma non c’è rosa senza spine, ed infatti chi è il cavalier servente di Ramoncita, una spagnola andalusa dal «volto precocemente invecchiato, con molte rughe, con due segni violacei sotto gli occhi profondi»? È nientemeno che l’ex fidanzato di Giulietta, Alessandro, che la tradì per la sua amica del cuore, Nennè.

L’incontro turba Giulietta e, nonostante cerchi di scacciarla, introduce in lei l’antica passione. Il conte ora l’annoia, i giorni trascorrono nel tormento e nel desiderio.

Dunque, ci fa intendere l’autore, anche l’opera della defunta Mowrer, sebbene ricca di ogni perfezione, non serve a scacciare dal cuore i tremori, le ansie, i turbamenti dell’amore, quello vero, che abita fuori dell’isola («laggiù»).

Le dirà Armando: «Perché illuderci di essere felici in questo paradiso artificiale?»

Alessandro è un fallito, come gli altri cicisbei, ma non si è arreso, è «il cavaliere ribelle». Ancora conserva la lucidità e la determinazione di chi non ha ancora chiuso la sua partita con la vita (lo si vedrà bene nel finale). Parlando con Giulietta ravviva anche in lei il desiderio di una esistenza vera, dove l’amore non scaglia frecce ma si nutre di emozioni, di frenesia, di passione.

Alessandro si domanda: «Quale isola era mai questa? Era l’isola della felicità o della penitenza? Dell’illusione o del sonno? Del dolore o dell’amore?», ossia niente è mai semplice né tale e quale appare.

La perfezione stanca. Non può che essere artificio. La perfezione vera è quella che è data dall’improvvisazione della vita. È ciò che avverte Giulietta, quando uscendo per una passeggiata ed imboccando un sentiero insolito si trova di fronte una casetta rustica, quasi cadente. L’abita un contadino rude, di quasi settant’anni. Capisce che si tratta di una delle signorine e le dice che non può trattenersi, deve andarsene al più presto, e non dovrà mai rivelare l’esistenza di quella catapecchia. Nessuno sa che esiste, salvo «la signora direttrice, qualche giardiniere, il cocchiere e nessun altro.» Era stato un giardiniere della villa prima che ne facessero l’attuale paradiso terrestre. Avrebbero voluto abbattere anche la sua casa, ma egli tanto implorò che la risparmiarono, visto che era sperduta nel bosco e lontana da tutto. Giulietta non vuole andarsene, chiede di restare ancora un poco. Tutto di quella casetta malandata le piace. «Signorina! Scherza! Lei abituata al lusso dell’Istituto! Le piace una sedia spagliata?»

Dunque questa vecchia casa, scrostata e cadente, vi appare come il seme caduto su di una terra fertile, destinato a crescere e a germogliare. Moretti nasconde all’interno del mondo fiabesco, tutto fantasia e perfezione, il minuscolo germoglio della vita reale, in grado di contrapporsi ed infrangere il sogno. Lo segnala, ce lo mostra appena, poi ritorna al mondo dell’artificio e della finzione. Lo fa con pagine di una deliziosa ironia, allorché introduce la rappresentazione di un «poema drammatico» scritto da un cavaliere servente, dedicato all’eroe mitologico Bellerofonte. Competizioni per ottenere una parte importante, piccole gelosie, ravvivano uno dei momenti più felici del romanzo, in cui la compagnia teatrale rivaleggia con la scuola di danza, concessa dalla direttrice per accontentare, come aveva fatto con l’autore teatrale, un vecchio maestro che aveva tenuto a Roma, nella Sala Ronchetti, una famosa scuola di danza frequentata dalla migliore gioventù. Ulteriori concessioni saranno rilasciate ad altri artisti dell’Istituto, Miss Bessie e la señorita Ramoncita. È il momento in cui la perfezione, artificiosa e monotona, viene scossa dai fermenti mondani così amati fuori dell’isola. Basterà un tale leggero venticello per dare aria e sollievo agli ospiti.

Moretti si muove con leggerezza e brio, tiene in pugno la regia di una recitazione che ha per scenario non solo il «Teatro delle Muse», ma l’intera isola. Finisce così che sull’isola tutti si trasformano in attori, salvo Giulietta. La sua storia d’amore con Alessandro, interrotta tanti anni prima, si è riaccesa insperatamente proprio sull’isola. Dunque, ci fa intendere Moretti, che cosa è in realtà quest’isola? È la rappresentazione dell’impossibilità che l’artificio si sostituisca al vero, che qualcosa di meccanico prenda il posto dei sentimenti. Nulla può essere modificato nell’uomo. La sua natura è tanto forte da prevalere su ogni altra energia o volontà, o impresa contrarie. La scrittura non manca mai della delicatezza necessaria allorché tiene sul palmo della mano il sentimento. Una disattenzione può infrangere l’incanto. Smarrirlo per sempre. Bisogna che le parole siano note musicali, allo stesso modo che è musica l’amore.

Quando viene indetta la festa da ballo, è tutta una corsa smaniosa per indossare il costume più bello, per primeggiare davanti alle altre, per abbellire con decorazioni il salone del Grand Hôtel des Cavaliers Servants, e Moretti conduce sapientemente il filo della sua ironia divertendoci: «Rose dovunque: lungo le pareti, sulle porte, intorno alle finestre, ai lampadari, alle specchiere, giù dal soffitto, foglie di rose per terra, foglie di rose sui divani, foglie di rose sui mobili, rose a festoni, a mazzi, a tralci, a ghirlandette.»

È ancora una volta il solo Alessandro che riesce a vedere il ridicolo di quel ballo, come già aveva visto quello della rappresentazione teatrale. Lo confessa a Giulietta, la quale non è indifferente alle sue lusinghe e al suo assiduo corteggiamento.

Ma dopo che si sono baciati, contravvenendo al regolamento che vieta il bacio, è sempre Alessandro che non si lascia ingannare dall’artificiosità del luogo: «Lui guarda quel volto: è un volto pallido, floscio, irriconoscibile, tutto efelidi e rughe: rughe agli angoli della bocca, rughe al sommo delle gote, zampe d’oca al sommo delle ciglia, lunghi tagli orizzontali sulla fronte macchiata di sole.»

Non tarderà neppure Giulietta a rendersi conto dell’inganno ma, contrariamente ad Alessandro, non saprà resistere.

La lezione che ci impartisce l’autore con questo romanzo – godibilissimo per contenuto e scrittura ancora oggi, a distanza di così tanti anni – è severa: guai a cercare l’illusione per fuggire dalla realtà. Essa è più forte del sogno. Vi si insinua tra piccoli pertugi, fino a che il sogno esplode e dentro di noi non restano che brandelli fatti di tristezza, di delusione, di tragica sconfitta.