Pubblichiamo volentieri questa interessante recensione di Alessandro Cartoni al saggio di Umberto Galimberti L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007, euro 12.
Attraversare il deserto. Il nichilismo e i giovani
di Alessandro Cartoni
Abbiamo per anni considerato l’affermazione di Nietzsche «il deserto cresce» più come una suggestiva metafora, buona per i dibattiti da salotto, che come un vero allarme sullo stato del nostro tempo (e sullo spirito dei tempi). Il nichilismo, quando è stato preso sul serio, è sempre stato visto come il pericoloso alone che circondava la personalità eccentrica o patologica oppure deviante. In questa interpretazione che chiamiamo «riduzionista», da parte sia cattolica sia razionalista, si è sempre evitato di fare i conti con un fenomeno di massa, perché nelle nebbie della singolarità, nelle oscure terre della patologia è comodo poter relegare ciò che è il risultato di una responsabilità collettiva e che per questo veste i panni dell’inquietante.
Ad illuminarci sulla radicalità del nichilismo e sulle sue ricadute sulla condizione giovanile è venuto finalmente il bel libro di Umberto Galimberti «L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani» che ha l’immenso pregio di voler capire davvero le giovani generazioni, permeate, secondo il filosofo, non di lacerazioni individuali ma di un male culturale che è poi l’insopportabilità dell’esistenza perché «sentita priva di senso». In questo desiderio di comprensione, il filosofo collega i dati della sociologia con quelli della psicoanalisi, le ricognizioni sui reality show con gli aforismi di G.Anders, i personaggi di I.Welsh alle citazioni dalle Leggi di Platone, senza per questo dare mai nulla per definitivo nella consapevolezza che se non c’è «un rimedio di facile e immediata attuazione», almeno è necessario «far piazza pulita di tutti i rimedi escogitati senza aver intercettato la vera natura del disagio».
Il risultato di queste analisi rigorose ma compiute nella disponibilità alla comprensione, è la costruzione di un orizzonte di senso in cui poter unificare fenomeni apparentemente molto lontani tra loro come la precarizzazione dell’esistenza e il lancio di sassi dai cavalcavia, il fenomeno squatter e l’analisi del Grande fratello.
In ogni caso l’allarme che lancia Galimberti è terribilmente concreto e può essere esemplificato nella formula per cui «il futuro è già ben descritto nel presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi adulti consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto sano realismo, abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere».
Se infatti nella «terra della sera» che il nichilismo apre assistiamo alla svalutazione di tutti i valori e al decentramento del mondo, cioè al riconoscimento del carattere relativo ed effimero di ogni movimento di senso, allora l’umanesimo così come si era andato affermando nelle epoche precedenti declina, lasciando l’uomo (e in primis il giovane) in un vuoto di senso riempito però dalla infinita potenza della tecnica. L’elefantiaca irrazionalità della razionalità tecnico-scientifica depriva la realtà dei suoi più antichi valori. «La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona.»
Nei giovani si innesca allora un disagio radicale, di cui essi stessi non sono consapevoli e la cui origine rimane oscura; l’unica certezza in questo deserto è di natura negativa, cioè la sensazione che gli antichi concetti di «individuo, identità, libertà, etica, salvezza, verità, senso, scopo» non siano più utilizzabili né forniscano riferimenti certi.
Inizia così l’epoca delle passioni tristi che è poi la nostra, dentro la quale vivono i nostri giovani, in cui il futuro, dismessi i panni della promessa, diventa minaccia, e «arresta il desiderio nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani è senza prospettiva».
Nella disgregazione sociale e morale che viviamo, si ha dunque la sensazione che «la crisi attuale (abbia) qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà».
Un dato impressionante è che i giovani si trovano da soli e vivono soli, immersi in una solitudine radicale, perché, come spiega Galimberti, «oggi conosciamo solo anime individuali, rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo».
Risposte adeguate non vengono certo dalla scuola, chiusa nella sua acribia valutativa e nel mito dell’oggettivazione della soggettività. La scuola dei patentini che tutti conosciamo, il «diplomificio» che promuove l’aumento dell’istruzione a discapito dell’educazione emotiva e sentimentale fallisce il suo compito, e di fatto si «disinteressa» dei giovani. La condanna di Galimberti è senza appello e non può non essere condivisa. «Nelle nostre scuole l’amore si risolve nella miseria delle simpatie e delle antipatie ( […]) Le valutazioni avvengono sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni sfuse di studenti e professori si mescolano e alla fine approdano a un giudizio in cui è difficile riconoscersi».
Un altro dato su cui riflettere è l’enorme disordine emotivo in cui i giovani vivono indotto dalla massa enorme di impressioni e sensazioni non guidate e men che meno elaborate che essi stesi mutuano dalla televisione, dalla realtà e da tutti i nuovi mezzi di comunicazione, e che finisce con l’implodere per incapacità di contenimento. In questo disordine che produce inaridimento del cuore e analfabetismo emotivo, il «gesto estremo», diventa l’unica prova di esistenza in vita. Un gesto che, essendo afasico e non comunicativo ha i tratti dell’oltranza, della gratuità e dell’inquietante. Ed in questo catalogo rientrano a pieno titolo il gesto del suicida oppure quello assurdo del lancio di sassi dal cavalcavia, o ancora quello distruttore e nichilista dello squatter, o ancora quello disperato della violenza da stadio.
Di fronte a tutto questo, sembra dirci Galimberti, è inutile se non patetico far finta che l’ospite non ci sia, oppure metterlo alla porta o ancora negare la morte di Dio appellandosi ai valori religiosi oppure a quelli illuministici, facendo finta che al mondo viga qualcosa di diverso dalla «ragione strumentale».
L’ospite invece non può essere negato né rifiutato, perché il nichilismo è uno condizione della cultura e del mondo, non un dato individuale. Per questo il deserto va attraversato prima che lui attraversi noi e ci colga del tutto impreparati. Avranno delle bussole i giovani in questo cammino che siano qualcosa di più di panacee e di surrogati della vecchie certezze? Il filosofo sembra indicare un cammino nuovo e allo stesso tempo antico che è poi quello dell’arte del vivere di ellenica memoria. Ci sono delle figure della giovinezza che vanno accolte in sé e negli altri senza le quali una società muore per mancanza di ossigeno e promesse. Queste figure fanno riferimento a quello che di più autentico un giovane porta nel cuore della sua comunità e di ogni comunità: l’espansività, la coralità, l’assenza come tensione esplorativa, la passione, il gioco, il viaggio, la sfida per mettersi alla prova. Senza queste frecce, senza questi dati del cuore, vi è la certezza, sempre più prossima che «il sintomo di una fine della civiltà non è da addebitare tanto all’inarrestabilità dei processi migratori o ai gesti disperati dei terroristi, quanto piuttosto al non aver dato senso e identità e quindi aver sprecato le proprie giovani generazioni, la massima forza biologica e ideativa di cui una società dispone».
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