Tutte le persone nell’arco della loro vita vivono almeno due traumi: quello della nascita (la separazione dalla madre) e quello della morte (il distacco definitivo dai propri cari e da questo mondo). Ma se guardiamo al resto della vita, ci sono i traumi individuali (fisici e psicologici) e quelli collettivi (detti anche macrotraumi, come le guerre, le catastrofi, le pandemie).  In generale un trauma è un evento molto stressante, che provoca angoscia di morte.  Gli psicologi e gli psichiatri per valutare il livello di stress di un paziente si avvalgono dei punteggi e della classificazione dei cosiddetti life events: ad esempio il licenziamento o la morte di un familiare sono eventi psicosociali traumatici. Dalla psicologia possiamo sapere ciò che a grandi linee è un trauma, anche se esiste un margine di soggettività. La letteratura è sempre stata autoterapeutica e catartica, ancor prima della psicanalisi e di Svevo. Già anticamente Eschilo pensava che il dolore aumentasse la conoscenza e viceversa. C’è poi tutta la concezione biblica della sofferenza. C’è quel che Leopardi chiamava il patimento. Con il neorealismo e l’autofiction in narrativa ci sono molti esempi di autori che raccontano il trauma.  Io  userò l’espressione “scrivere il trauma” e non “scrivere del trauma” perché scrittori e poeti a mio avviso scrivono il trauma, mentre psicologi e saggisti scrivono del trauma: i primi affrontano la questione in prima persona, i secondi la trattano in modo scientifico. Ci sono diversi esempi anche nella poesia contemporanea italiana. Lo so che di primo acchito potrebbe sembrare una forzatura, ma a mio modesto avviso scrivere il trauma è rielaborarlo, è un tentativo, talvolta vano, di superarlo: è un processo di trasformazione di elementi beta in elementi alfa, per dirla alla Bion. Scrivere il trauma significa rappresentare ciò che in parte è irrappresentabile per il soggetto. Scrivere il trauma in questo senso è sia una sfida nei confronti di sé stessi che dei propri mezzi espressivi.  Il trauma è materiale psichico spurio,  è un’esperienza che contiene in sé un quid inalterabile di indicibile, di incomunicabile. Scrivere il trauma significa anche affrontare il nostro elemento fantasmatico. Come ho sempre detto chi scrive è perché gli manca qualcuno o qualcosa.  Talvolta i grandi capolavori riescono a far rielaborare al pubblico dei traumi collettivi rimossi.  Ci sarebbe da chiedersi se il trauma deve essere un mezzo o un fine nella scrittura. A mio modesto avviso in letteratura il trauma deve essere un passepartout  per la verità. In poesia da Alda Merini, ad Amelia Rosselli fino ad arrivare ai giorni nostri, ovvero fino a Giovanna Rosadini, Elisa Donzelli, Gilda Policastro il trauma è un mezzo per approdare alla verità umana. Che il trauma debba essere anche affrontato in letteratura è fuori discussione. Non può essere solo cosa della pratica clinica e dei trauma studies. Ma attenzione a non spettacolarizzare troppo il trauma in letteratura,  come del resto fanno già i mass media, con i loro casi umani, con la televisione del dolore. Mi sembra che a livello editoriale il trauma sia anche un modo per fare buone vendite, talvolta indipendentemente dalla qualità. Ci sono anche critici che ritengono che per scrivere cose memorabili bisogna soffrire. A questo punto il passo successivo sarebbe quello di ricondurre tutta la storia della letteratura al trauma, però questo significherebbe psicanalizzare tutti gli autori, tutte le opere e aprire un dibattito con chi ritiene che in letteratura ci siano già troppi psicologismi. Inoltre ancora una volta viene da chiedersi se la sofferenza debba essere oggetto o soggetto, inizio o fine di un processo creativo. Il femminismo, il post-femminismo, i movimenti dei diritti civili, il movimento Lgbt promuovono giustamente  quella che io chiamo la politica del trauma: insomma il privato è politico e le magagne, i torti, i soprusi, le violenze  devono venir fuori, su di essi bisogna far piena luce.  Ma attenzione agli eccessi: come scrive Daniele Giglioli, non avendo più grandi traumi collettivi, talvolta finiamo per inventarci traumi.  Il trauma deve anche essere trasfigurato, sublimato, trattato con stile e non si può chiedere alla sola scrittura di vincerlo. La letteratura non può essere una semplice valvola di sfogo, mentre invece in alcuni aspiranti poeti è un semplice “sfogatoio”. Quando si scrive il trauma ci si può imbattere in due reazioni opposte da parte dei lettori. Ci sono coloro a cui non importa niente del vissuto traumatico e coloro che sono partecipi, empatici e in parte o totalmente vi si riconoscono. Ma il trauma deve essere anche oggettivato. È vero che scrivere il trauma significa fare testimonianza. È vero che scrivere il trauma significa farsi carico di sé stessi. Martin, un paziente psicotico di Bion, diceva che la sua vita non era affar suo. Scrivere il trauma invece è un modo psicologicamente sano per occuparsi di sé, per curarsi l’anima, per riappropriarsi di parti di sé.   Però alla cura dell’anima deve anche affiancarsi un minimo di distanza emotiva (in questo caso una modica dose di impersonalità va bene, senza estraniarsi troppo da sé stessi) e una certa cura nella scrittura: altrimenti è bene non scrivere il trauma, né niente altro.