Casa nuova

di
Matilde Serao

tempo di lettura: 6 minuti


È deciso, si deve andar via: basta una letterina gentile al proprietario dell’appartamento per indorargli la pillola e si è liberi. Si dà in un grande sospiro di sollievo per aver affermata la propria indipendenza e si enumerano la millesima volta le buone ragioni per cui si parte. Ragioni solide: una scala alta come quella di Giacobbe; sopra, le stanze piccine; d’inverno, il freddo, d’estate, il caldo. Sempre il medesimo orizzonte; un palmo e mezzo di cielo, sette centimetri di collina ed un campanile; di mare e di Vesuvio neppure l’ombra; giù, una straduccia rumorosa e sudicia. I vicini, gente noiosa: il damerino che si pettina ad uno specchietto presso la finestra, la sarta che inaffia la malvarosa, il giudice che litiga con la moglie, la signorina che impara la rêverie di Ascher dalla mattina alla sera: sempre gli stessi visi, sempre le stesse voci.

E dentro la casa, una monotonia. Gira, gira e rigira, si è sempre in un posto: tutto è uniforme, regolato, ordinato; lo stesso disordine nel salottino è stato pesato e discusso; dello scrittoio non si discorre: le pareti occupate dalle librerie, la tavola di fronte alla finestra, le statuine sui piedestalli, una simmetria desolante. Lo spirito è oppresso, schiacciato, ridotto al silenzio; i suoi slanci e le sue ispirazioni si frangono contro questa immobilità; non vi è più modo di scrivere, dì lavorare, di sorridere. Irritazione, dispetto, fastidio in tutto; la casa è brutta, cattiva, micidiale, si è stanchi, si soffoca, si muore, bisogna scapparne via.

Sospiro di conforto.

Invece la casa nuova, quella dove si andrà, è un amore, un paradiso terrestre. È vasta, ci si può giuocar di scherma, vi è un lusso di aria e di luce, il Vesuvio entra nella stanza da pranzo, il golfo nel salotto del terrazzo, si veggono tutte le colline tenersi per mano. I vicini sono roba fine, aristocratica; si è saputo, così di straforo, che vi sono cavalieri, una contessa, un vice-sindaco, un ex-ministro, figurarsi! Il portinaio una vera pasta di miele, una perla nascosta nella conchiglia del suo casotto. I mobili andranno sottosopra, vi sarà un grande rimestìo, se ne compreranno dei nuovi ed i vecchi avranno la pensione in soffitta: discussioni infinite su questo soggetto. Tutto sarà nuovo, bello, diverso. Quanti cari progetti, quante dolci speranze si realizzeranno nella casa nuova! Si farà il matrimonio di Carolina, il figliuolo tornerà dal suo lungo viaggio, e allora che feste, che allegria! Il lavoro progredirà rapidamente, l’ispirazione verrà; non vi saranno i mille guai domestici che menomano e restringono la mente, la famiglia sarà felice. Ma viene o non viene questo benedetto maggio? Si contano i giorni, si sorride ad ognuno che ne passa, si è soddisfatti, completamente soddisfatti.

Quando il mese di aprile incomincia, quando l’epoca della partenza si approssima, in mezzo a tanta soddisfazione, si fa strada un senso di amarezza. Sulle prime è leggero, inavvertito, si presenta nella solitudine, nel riposo: poi cresce, cresce, diventa assiduo, continuo, non se ne va più. È un dispiacere vago, come di una disgrazia che sia alle spalle: una cura segreta, indefinibile anche per chi la prova: un dolore sordo per qualche cosa che deve mancare o morire. Che cosa è? L’uomo s’interroga, si rivolta, si tormenta, non trova niente, e la pena è sempre là, anzi si va accentuando, si disegna…. ecco, sarà una debolezza, una fanciullaggine, una sentimentalità morbosa, ma si è addolorati di lasciar la casa.

È vero, è vero: il cuore si stringe pensando a quelle stanzuccie dove si è tanto amato, tanto vissuto e che non si vedranno più; pare che dalle vecchie pareti, dagli angoli oscuri partano voci di affetto e di tenerezza; nella notte si ode un sussurrio indistinto e carezzevole. In ogni cantuccio vi è una parte di vita, un brano di cuore: sul muro, quel segno col lapis è la misura del bambino, che ora l’oltrepassa di tutta la testa – ed accanto quel ritratto, quel caro ed amato ritratto di persona morta. In questa camera la buona madre si è ammalata, e quando la salute è tornata a brillare nei suoi buoni ed ammirevoli occhi, essa ha respirato l’aria presso quel balcone: sul balcone dove colla primavera tutte le pianticelle hanno fiorito: dove l’edera più tenace dell’uomo, si è abbarbicata, sul balcone dove nelle sere estive vi furono tante dolci parole mormorate all’orecchio. E quando vi fu quella grande, grande disillusione, la pace del piccolo scrittoio ha calmata l’asprezza della ferita. Dio, quante memorie! che fiotto di ricordi!

La prova che il passato ha esistito bisogna abbandonarla, bisogna dimenticare; e perchè anche l’ultimo profilo delle memorie si cancelli, bisogna lasciare il fedele testimonio della vita trascorsa. Staccarsi da tutto, annullare, fare il vuoto. È uno spasimo acuto. Si vagola per le camere, sogguardando lungamente, quasi a volersi imprimere nella mente ogni linea; non si va più fuori, quasi a prolungare i momenti della permanenza; non si scambiano che brevi frasi; le fanciulle sono malinconiche; i vecchi parenti si fanno pensosi. Il giorno della partenza viene: i volti sono pallidi e scomposti, si va e si viene senza far nulla, quasi per distrarsi; si resta seduti sopra un baule a guardare tristamente i mobili che se ne vanno; la casa è piena di persone estranee, di facchini ruvidi, di voci irose; la casa è profanata, manomessa, sembra una chiesa dove sia passata un’orda di cosacchi. I mobili se ne vanno, se ne vanno, e si è ancora lì, in un angolo polveroso a guardare, a prolungare quello strazio interno: vengono i vicini a salutarvi e si scopre che quella gente era buona ed onesta; è un tormento. Passano, passano le ore, pare un triste sogno; è invece una realtà – il nuovo abitante è venuto, vuole la casa sua, vi scaccia. Si gitta intorno un’ultima occhiata: lentamente, con le labbra serrate ed un gruppo nella gola, si parte.

La nuova casa. È un’estranea: non la conoscete, non vi conosce, non avete vissuto con lei, le sue mura sono mute, hanno parlato ad altri; è fredda, vuota, sembra un deserto, sembra una rovina, ci si parla a bassa voce, come in una piazza. Sorprese dappertutto; anditi, scalette, porticine, e non si sapeva nulla, ed in quei momenti eccezionali sembrano tradimenti, trabocchetti; la notte non si dorme, si sta a disagio; gli oggetti non trovano il loro posto, tutto va di traverso. Qualche sera per una soave distrazione, si prende l’antica strada, perchè della nuova casa non si sa che farne; si vuole la vecchia, la vecchia e buona casa che è senza tradimenti, senza sorprese, che ama, parla, compiange – è là che si vuol andare, per viverci come tanto tempo ci si è vissuti in un ambiente cognito ed amico; ci si vuole restare sino alla morte. Non si può più.

Occorre scrollare il capo, sospirare, rassegnarsi, fino a che il tempo, l’abitudine facciano calmare lo spirito amareggiato, e poi in capo a due o tre anni esser ripresi dalla medesima follia, partire di nuovo, soffrire ancora, agitarsi sempre, fino a far credere che la favola dell’Ebreo Errante sia il simbolo dell’uomo.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Casa nuova
AUTORE: Matilde Serao

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La moglie di un grand'uomo, ed altre novelle scelte dall’autrice / Matilde Serao - Milano : R. Quintieri, 1919 (Tip. Agraria) - 218 p. ; 20 cm

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)
FIC004000 FICTION / Classici