«…queste fantasie giovanili sono state quasi del tutto improvvisate da un istinto che, se dovessi precisarlo più in particolare, potrei definire impegnato a trasferire Dio dalla sfera della diceria al regno dell’esperienza diretta e quotidiana; il raccomandare con ogni mezzo un uso ingenuo e vivo di Dio di cui mi sembrava di essere stato accusato fin dall’infanzia…».
Così Rilke scriveva a proposito di Geschichten vom lieben Gott, vent’anni dopo averlo scritto; non gli piaceva tentare di spiegare come fosse arrivato a scrivere un’opera così particolare e spesso ripiegò sull’idea che all’origine vi fosse un “dettato inconscio” o una sorta di “scrittura automatica”; sappiamo in realtà poco della genesi delle Storie del buon Dio. Non è disponibile nulla del materiale manoscritto. Sono state pubblicate nel 1900 dopo la prima permanenza di Rilke a Monaco, le sue prime esperienze in Italia e, soprattutto, il suo primo viaggio in Russia nella primavera del 1899. Durante questo viaggio, in compagnia di Lou Salomé, incontrò e conobbe Tolstoj. Non è difficile scorgere in queste tredici parabole, di intonazione allegorica e morale, dense di grande serenità, sia l’influenza tolstoiana che quella della stessa Salomé. Appaiono come una pausa nella drammatica ricerca di Dio perseguita costantemente dall’autore.
Sempre secondo altre sue affermazioni, Rilke amava questo libro; aveva scritto queste tredici storie – in un modo così caratteristico del suo stile narrativo – in un momento felice tra il 10 e il 21 novembre 1899, nel corso di sette notti consecutive. In realtà il testo apparve per la prima volta poco prima del Natale del 1900, ma con un titolo diverso: Vom lieben Gott und Anderes/an Grosse für Kinder erzählt (Di Dio e altre questioni/raccontato agli adulti per i bambini). L’approccio circolare implicito nel sottotitolo aveva lo scopo di coprire l’imbarazzo che da sempre Rilke sentiva nel rivolgersi direttamente ai bambini, imbarazzo al quale fa riferimento nel racconto introduttivo. Sebbene sentisse quanto veramente il mondo vasto e reale appartenga alla “giovane giovinezza”, questa costrizione rendeva impossibile la comunicazione spontanea, così che solo con un dispositivo come questo poteva raggiungere coloro che sapeva lo avrebbero capito se “avesse cercato di dire qualcosa di Dio”.
Il piccolo espediente, spiegato così brillantemente appunto nel racconto introduttivo, rimane un ingrediente della narrazione; ma quando l’anno successivo Insel-Verlag diede alle stampe la nuova edizione del libro, il titolo era quello attuale, Geschichten vom lieben Gott, e il sottotitolo fu abbandonato. Rilke rivide il testo tra il febbraio e marzo del 1904 a Roma, in occasione di una nuova edizione – la prima era di grande formato e a Rilke non era mai piaciuta – che si doveva caratterizzare soprattutto per una veste grafica più agile e semplice. I cambiamenti furono numerosi anche se non sostanziali: singole parole, qualche frase, la punteggiatura. Avrebbe dovuto esserci la prefazione della femminista svedese Ellen Key; ma Rilke cambiò idea quando questa prefazione era già stata composta dal tipografo. Secondo lui tale prefazione offriva troppe chiavi interpretative basandosi anche su lettere che le aveva scritto durante i quattro anni intercorsi tra la prima edizione e questa nuova. Secondo Rilke quest’opera «deve essere sola con se stessa». Non voleva quindi che per un’opera che avrebbe dovuto essere letta come un presentimento, anticipazione contemporaneamente timorosa e gioiosa, ci fosse tanta luce proiettata su essa, che rischiarasse e aprisse la serratura di tutte le porte. La prefazione quindi non fu mai pubblicata; ma l’opera è dedicata proprio a Ellen Key.
Nonostante conservasse sentimenti benevoli verso questo suo lavoro – che in genere si colloca come l’ultimo dei suoi scritti giovanili – quando, nel 1925, fu programmata la prima edizione delle sue Opere complete (Gesammelte Werke), Rilke scrisse al suo editore che non gli piaceva l’idea che la sua “pre-prosa giovanile (che non era ancora prosa)” fosse inserita nel volume con i Quaderni di Malte Laurids Brigge; a meno che non lo seguisse la monografia su Rodin, che avrebbe avuto funzione di ponte tra le due opere in prosa più corpose. Fu pubblicato quindi nel volume IV, con Frammenti in prosa e Rodin. Attualmente, si trova nel volume IV (1961) delle opere complete definitive (Sämtliche Werke), insieme a vari racconti e opere teatrali. L’edizione del 1904 ebbe ben dodici ristampe durante la vita di Rilke e traduzioni in varie lingue: inglese, francese, spagnolo, italiano, olandese, svedese, polacco, ceco. Anche se per i criteri più maturi dello scrittore questo testo rappresenta una “pre-prosa”, è comunque estremamente caratteristico dello stile di Rilke. Il modo di esprimersi – di per sé non unico per il periodo in nessuna letteratura europea – di proposito talvolta leggermente artificioso, con i suoi spunti di umorismo, di ironia, una stilizzazione che appare a tratti bizzarra, i riferimenti biblici che sembrano inseriti per mantenere un’impronta di fraseologia familiare e tradizionale, sono brillantemente mantenute nella traduzione di Vincenzo Errante, così come le qualità poetiche delle descrizioni e dell’espressione dei concetti che sono i tratti distintivi e marcatamente artistici dell’autore. Tradurre Rilke significa tradurre non solo il tedesco, ma il tedesco molto personale di questo autore. A volte usa parole particolari e quasi sconosciute; più spesso usa le parole in modo strano; a volte le inventa addirittura. Nel suo peculiare impiego di un tempo verbale, di un aggettivo, un avverbio, una preposizione si può notare un’acutezza di osservazione e di intenzione espressiva. Questi elementi spesso vengono trascurati durante la traduzione: la trasposizione troppo letterale di un’espressione insolita e lo scivolare nel luogo comune, è rischio sempre presente.
Gli elementi autobiografici potranno facilmente essere riconosciuti da chiunque abbia un poco di familiarità con le opere, le lettere e i primi diari di Rilke. Qua e là, come parte dello sfondo, compaiono anche tocchi di colore locale nei riferimenti impliciti a usi e convenzioni della sua giovinezza. Indipendentemente dal fatto che le allusioni di Rilke alla storia e all’arte del Rinascimento mostrino una conoscenza solida o meno; se, come è stato suggerito, il fascino che la Russia esercitò su di lui sia derivato in gran parte da ciò che lui stesso sentiva e voleva riconoscervi; se l’interpretazione dei racconti popolari russi ai quali fa riferimento non esplicito è fin troppo personale; tutti questi sono punti abbondantemente trattati dalla critica. Preme qui invece sottolineare il valore di questo testo per l’“atmosfera” di inquieto sogno, il volgersi verso “l’anima” delle cose, la presenza costante della “memoria” e il trasparire della luce divina; tutti temi che, come in altre opere giovanili dell’autore, troviamo qui soprattutto come intuizioni, talvolta ancora sbiadite e confuse, ma che resteranno sempre ad animare la varietà di temi successivamente affrontati da Rilke con il suo tono caratteristico, leggero e caustico contemporaneamente.
Dice efficacemente Nicoletta Dacrema nella postfazione a Serpenti d’Argento:
“Il lettore non più giovane, poi, avrà forse nell’orecchio e nel cuore, più di tutte, le versioni, fortunatissime, di Vincenzo Errante, sulle quali, in tempi non più vicini, si è formata «un’idea di Rilke» molto diffusa presso il pubblico italiano: quella del demiurgo della parola, dello scrittore orfico, squisito e raffinato: l’«immagine perfetta, il paradigma del poeta integrale».”
Questa idea di Rilke il lettore del progetto Manuzio potrà apprezzarla prossimamente quando sarà disponibile il classico studio di Vincenzo Errante “Rilke, storia di un’anima e di una poesia”.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit della prima delle Storie del buon Dio: La fiaba delle mani di Dio:
Poche mattine fa, incontrai la mia vicina di casa. Ci salutammo.
«Che autunno!», disse dopo un silenzio; e levò gli occhi a guardare il cielo. Io feci altrettanto.
La mattinata era, infatti, chiarissima: deliziosa, per essere già una mattinata d’autunno. Sorprese, repente, anche me.
«Che autunno!», replicai, agitando attorno le mani, come a tastare un po’ l’aria.
Assentí con un cenno del capo. La osservai per un attimo. Il suo vólto sano e bonario si levava e si riabbassava, di un gesto grazioso. Era tutto pieno di luce. Solo intorno alle labbra e sulle tempie mettevano un po’ d’ombra alcune piccole rughe. Perché?
Domandai brusco
«E le sue piccine?».
Le rughe minute scomparvero, per incanto, dal vólto; ma vi tornarono súbito, piú scure.
«Stanno bene, grazie a Dio; ma….».
Si avviava. E anch’io presi a camminarle allora vicino: a sinistra, come di prammatica.
«Voi capite….», seguitò. «Sono ambedue ormai nell’età in cui i piccoli tempestano di domande tutto il santo giorno. Perché questo? Perché quello?, dalla mattina alla sera….».
Scarica gratis: Storie del buon Dio di Rainer Maria Rilke.