Il capo d’anno del gigante.
di
Emma Perodi
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Molti, ma molti anni fa, c’era in un paese di questo mondo, un signore, che aveva ereditato dai suoi antenati il titolo di Conte, un bel castello e grandissimi possessi. Ma il Conte e la Contessa sua moglie spendevano tanto per i poveri e facevano per Capo d’anno tanti utili regali a tutti i bambini del vicinato, che a poco a poco dovettero vendere terre, boschi, servizii d’oro e d’argento, licenziare servitù e mettersi a vivere come due poveri disgraziati.
Una sera, verso la fin di dicembre, erano seduti, dopo un magro desinare, nella grande sala da pranzo del castello, illuminata soltanto da pochi stecchi che bruciavano nel caminetto. In tutto il vicinato non c’era fuoco più misero di quello. Anche i poveri si scaldavan meglio; essi potevano andare a far legna nei boschi, ma il Conte aveva un vecchio servo soltanto che aveva già raccattato tutti i rami secchi che aveva trovato intorno al castello.
— Quest’anno, marito mio — disse la Contessa avvicinando la sedia al caminetto — non potremo invitare i nostri bambini poveri per Capo d’anno.
— Perché?
— Perché non abbiamo da dar loro nulla. Non c’è di che sfamarli, di che rivestirli, di che farli felici…
— Pensa al loro dolore se dovessero rinunziare alla solita festa! Non hanno altra gioia durante i dodici mesi dell’anno; ci sono assuefatti, crescono con quel desiderio… Poveri piccini! Venderò qualcosa in questi giorni, ma essi avranno il pranzo, i doni, meno belli forse, ma li avranno.
— Vorrei sapere che cosa venderai — disse la Contessa. — Mi pare che ci siamo privati di tutto il superfluo.
— Ci rimane però l’antico letto di famiglia, che è molto grande; è fatto di legno prezioso, intarsiato d’oro e d’argento. Ce lo pagheranno bene.
— Vuoi vendere il letto di famiglia! — esclamò la Contessa. — Quel letto in cui dormirono e morirono tante generazioni di antenati tuoi, l’unico letto che ci rimane!
— A questo non ci pensare; tu dormirai sul sofà, io mi coricherò per terra.
— Per terra alla tua età! Ma vuoi ammazzarti?
— E se quei poveri bambini non avessero il pranzo, i doni?…
La Contessa tacque.
La mattina di quello stesso giorno un giovane gigante s’inoltrava nella foresta non molto distante dal castello del Conte, quando vide una fata piccina piccina che gli saltò da un ramo sull’indice della mano destra.
— Dunque sei a duecento miglia da casa tua. Dimmi perché fai questo gran viaggio? — gli domandò.
— Per una ragione potente. A casa mia non ho da mangiare. Viaggio per procacciarmene.
— E come?
— Vado a vedere se è morto lo zio del mio nonno. Sono uno degli eredi, e quel vecchio è ricco dimolto. Se posso prendermi la mia parte d’eredità non tremo più a questo mondo.
— Mi pare — disse la Fata — che si viva male aspettando il danaro altrui.
— È vero — rispose il gigante. — Ma aspetto da quando ero un bambino piccino.
La Fata guardò meravigliata il suo compagno. — Mi pare impossibile che tu sia stato piccino.
— Eppure un tempo non ero più alto di un cavallo.
— E io ero della grossezza di un pisello.
Il gigante si mise a ridere. Ma parlando di piselli si rammentò che aveva fame.
— Dobbiamo fermarci a chieder qualcosa da mangiare.
— Fermiamoci pure, ma non nello stesso posto — disse la Fata; — tu devi avere una fame da lupi.
— Bene. Nel fondo della valle a cinquanta miglia di qui c’è un casone molto grande. Io anderò in quello là a mangiare e, tu puoi andare dal Conte. Ti accompagnerò fino al limite della foresta. Quando hai mangiato torna su questa querce e faremo la strada insieme. Il Conte è povero povero, ma per te avrà sempre assai da mangiare.
Il Gigante depose la Fata in terra, e mentre essa andava al castello, egli si dirigeva alla casa nella valle.
Dopo due o tre ore si fermavano nello stesso luogo, il Gigante riprendeva sull’indice la Fata e continuavano il viaggio insieme.
— Mi raccontasti che il Conte era povero, ma vorrei che tu vedessi coi tuoi occhi quanto è povero. Quando sono arrivata, lui e la moglie avevano appunto terminato di desinare e eran davanti al camino spento. Stavano parlando, non ho voluto disturbarli e son saltata sulla tavola per trovar da mangiare. Devono aver fatto un desinare molto misero. Per sfamarmi c’era a sufficienza, perché io mi contento dei minuzzoli, ma anche quelli erano tanto duri e risecchiti che potevo appena mangiarli. Ma dopo mi accorsi meglio della loro miseria, quando sentii quel che dicevano.
— Ti par cosa ben fatta di spiare i discorsi altrui?
— Forse no — rispose la Fata. — Ma senti, parlavano della festa del Capo d’anno, e dei regali che davano ai ragazzi gli anni scorsi. Benché poveri faranno lo stesso anche quest’anno.
— Come faranno?
— Il Conte vende il letto di famiglia.
Il Gigante si fermò stordito. — Come, il celebre letto della famiglia Ruggiero servirà a fare i regali ai bambini?
— Sicuro.
— Davvero! Non ho mai inteso una cosa simile dacché son nato. Fa pietà. Bisognerebbe impedirla. — E così lamentando la sorte del povero Conte, giunsero ad un crocicchio.
— Addio Fatina — disse il Gigante. — Ti lascio colle tue compagne. Ci rivedremo quando ripasserò.
— Se ti contenti ti accompagno. Voglio vedere come vanno le cose laggiù nel castello dello zio del tuo nonno. Non ti accorgerai neppure della mia presenza.
— Vieni pure.
Dopo poco giungevano alla porta del castello. La porta era custodita da un guardiano.
— Guardiano! — urlò il Gigante. — Come sta lo zio del mio nonno, il vecchio gigante Tannareg?
— È morto da un mese e i suoi beni sono divisi fra i suoi eredi.
— Non può essere; io sono uno degli eredi e non mi è toccato nulla.
— Non so altro — disse il guardiano — mi hanno detto di dare questa risposta a quanti venivano.
— Chi ve lo ha detto?
— Il mio padrone Sommareg, l’erede principale del vecchio gigante.
— Sommareg! — esclama il Gigante. — Che impudenza! È cugino in nono grado per parte di donna. Dov’è? Conducetemi da lui.
— Non credo che riceva oggi — rispose il guardiano.
— Apri la porta o ti stritolo! — urlò il Gigante.
Il guardiano impallidì e spalancò la porta per lasciar passare il Gigante e la Fata.
In una gran sala interna, dinanzi ad un bel fuoco stava seduto un gigante vecchio vecchio.
— Come mai, Sommareg, vi siete appropriato questo castello? — urlò il giovane Gigante.
— Ero amico del vecchio — balbettò spaventato Sommareg.
— Dite piuttosto che avete respinti i cento eredi e vi siete preso ogni cosa.
— No davvero; ognuno ha avuta la sua parte.
— Io sono uno di quelli che non hanno avuto nulla e voglio ciò che mi spetta. Venite con me che scelga.
— Non posso; mi sento male. Vi manderò un intendente.
Suonò e comparve un uomo piccolo piccolo con un testone di capelli arruffati, da una parte bianchi come la neve, e dall’altra neri come l’inchiostro.
— Ecco un altro erede. Dategli la sua parte e lasciatelo scegliere.
L’intendente lo guidò in molte sale piene di armature d’acciaio.
— Se le prendessi ci vorrebbero carri e carri per portarle via. Non c’è altro nel castello?
— Tutto il rimanente appartiene al mio padrone.
— Fammi scegliere, se no…
L’intendente tutto sgomento lo condusse in molte altre sale riccamente addobbate.
— Qui c’è del buono — disse il Gigante. — Io segnerò col gesso quel che voglio e tu me lo manderai.
— Sicuro — rispose l’intendente. Vi manderò tutto dopo che sarete partito.
E il Gigante segnava, segnava tutto; aveva già segnato di che ammobiliare un castello.
— Dov’è il denaro? — domandò.
— Signor mio! — esclamò l’intendente tutto sgomento. — Del denaro non ce n’è.
Il Gigante non rispose, ma prese l’omino per le gambe e lo capovolse. Una chiave grossa grossa gli uscì di tasca.
— Ecco la chiave del denaro. Non ti disturbare, lo troverò da me.
Ma mentre si dirigeva verso la parte più bassa del castello, l’intendente gli correva dietro tutto disperato. Il Gigante aprì la porta e dentro trovò sacchi d’oro e d’argento ammonticchiati lungo le pareti. Col solito pezzo di gesso ne segnò dozzine e dozzine.
— Bene, signore; ve li manderò dopo che sarete partito.
— Che cosa c’è in questi sacchetti piccoli?
— Sono diamanti signore, segnatene quanti volete.
— Ne segnerò uno — disse il Gigante alla Fata che stava nascosta nel suo colletto — e quello sarà per te.
— Per me? — esclamò l’intendente che non vedeva la Fata.
— Grazie — rispose essa tutta contenta. — Mi piaccion tanto i diamanti! Son contenta che lo zio del tuo nonno sia morto.
— Non lo dire — rispose il Gigante — non sta bene.
Dopo che ebbe finito di segnare, si rivolse all’intendente:
— Non voglio disturbarvi — disse il Gigante. — Porterò con me quel che ho scelto. E postosi in tasca il sacchetto coi diamanti, si caricò sulle spalle i sacchi di monete, e andò via senza voltarsi.
Quando giunse nella gran sala, dove stava il Gigante vecchio dinanzi al fuoco, si fermò un momento. — Porto meco la mia parte di denaro — ho segnato quel che ho scelto e dovete mandarmi tutto dentro la settimana. Avete capito?
Il Gigante vecchio gettò uno sguardo sui sacchi di denaro che l’erede aveva in spalla e sospirò.
— Che farai nel mondo con tutte queste ricchezze? — domandò la Fata.
— Ne porterò un sacco al Conte, perché offra una bella festa ai bambini. Il resto lo riporrò nel mio castello.
— Il Conte non lo accetterà; è molto orgoglioso. Lasciami trattare questa faccenda.
— Trattala pure.
— Che bella cosa! — esclamò la Fata battendo le mani. — Avrò da pensare.
— E io avrò da fare — disse il Gigante.
— Rinunzia alla festa — consigliava la Contessa al Conte. — Abbiamo tanto poco e i bambini non saranno contenti di quel che daremo loro domani.
— No, cara mia. Io vivrò poco, perché lo stato nostro è intollerabile e non morirei contento senza aver veduto domani i nostri cari piccini. Andiamo a riposare. — La Contessa ubbidì e si coricò sopra un sofà piccino piccino. Il Conte si distese per terra.
Il primo giorno dell’anno sorse chiaro e sereno. Il Conte si alzò di buon umore e affacciandosi alla finestra vide una lunga processione di bambini, preceduta da musica, che si avvicinava al castello. Chiamò la Contessa e la condusse sulla terrazza.
— Sono più del solito! — esclamava disperata la povera signora. — Come faremo a sfamarli, saranno cento e cento.
Intanto la processione giungeva al castello. Prima veniva il Gigante colla piccola Fata sul dito, poi quattro o cinque suonatori, e per ultimo una lunga processione di bambini vestiti a festa, che camminavano due per due.
— Viva il Conte! — gridò il Gigante — e le vôlte grandiose del castello echeggiavano dei suoi gridi e del suono degli strumenti.
— Entrate, cari miei — disse il conte ai bambini. — Son contento di ospitarvi. Ma voi, caro Gigante, ci potete passare dalla mia porta?
— Conte! — esclamò la Fata, ritta sul dito del Gigante. — Ho una cosa da proporvi.
Il buon signore la guardò meravigliato.
— Che bella Fatina! — disse. — Esponetemi pure le vostre idee.
— Bene. Ci permettete di entrare nella gran sala del castello? Abbiamo voglia di ballare.
— Temo che ci starete male, è tutta piena di polvere e ragliateli. Son tanti anni che non c’entra nessuno.
— Mi farebbe tanto piacere di camminare in quella sala a suon di musica.
— Se è così — disse il Conte — entrateci pure.
Il Conte e la Contessa si unirono alla processione, traversarono la corte, salirono lo scalone e giunsero alla sala. Il Gigante aprì la porta. Nessuno a questo mondo è stato mai tanto sorpreso quanto il Conte e la Contessa. Nel mezzo della sala c’era una tavola lunga lunga e su quella tavola monti intieri di chicche, balocchi e oggetti di vestiario. Il Conte non poteva parlare, la Contessa non poteva parlare. Il Gigante li prese per mano e li condusse giro giro a veder tutti i doni. Ogni dono portava scritto il nome della persona a cui era destinato. Un sacchetto di broccato tutto luccicante conteneva i brillanti per la Fata. Ci volle del tempo a guardare tutti i doni, fra i quali molti erano per il Conte e per la Contessa, e consistevano in antichi oggetti preziosi che essi erano stati costretti a vendere per mantenere l’uso della festa del Capo d’anno.
— Ora ballate — disse la Fata colla sua vocina. La musica si mise a suonare e tutti i bambini a ballare. Il Conte, la Contessa, il Gigante e la Fata, guardavano quei bambini allegri e felici, ed erano felici pure. Ma ad un tratto la faccia del Conte si offuscò pensando al magro pasto che aveva da offrir loro. Quando la musica cessò, il Gigante aprì una porta dicendo:
— Entrate nella sala del banchetto! Questa è la festa che i bambini riconoscenti offrono al Conte ed alla Contessa. Li hanno resi così spesso felici che adesso è il loro turno. — I bambini spinsero gentilmente il Conte e la Contessa.
Nella gran sala era imbandita una lunghissima tavola con ogni sorta di cibi e vini delicati. Nel mezzo c’era un grandissimo pasticcio e un cinghiale intero. Tutti sapevano che quello era il pranzo del Gigante. Accanto a quelle pietanze c’erano certi piattini piccini piccini ed una poltroncina per la Fata, collocata sopra una specie di colonna, affinché potesse vedere le felicità dei bambini e goderne pure. Dopo il banchetto ricominciarono le danze e non cessarono che verso sera. Quella sala non aveva accolto mai una comitiva più allegra. Il Conte prima che partissero i bambini rivolse loro poche parole. Non poteva far molti ringraziamenti, ma essi capirono ciò che voleva dire e guardavano sorridendo il Gigante.
Il Conte gli disse: — Non potrò mai ricompensarvi. — Il Gigante aveva incominciato a dire qualcosa tutto confuso, quando la Fata l’interruppe.
— Sì caro Conte, potete ricompensarlo. Voi non avete figli e vi avvicinate alla vecchiaia. Egli è solo, ricco e voi, col vostro bel cuore, potete giovargli molto. Potrebbe venire a star qui, dove le stanze son grandi e tutte sareste felici. — Il Conte piangeva.
— Volete adottarmi per figlio? — domandò il Gigante.
— Sicuro! — fu la risposta. Allora il Gigante s’inginocchiò e il Conte salì sulla tavola e gli pose le mani sulla testa.
— Ora adottate anche la Fatina — disse il Gigante dopo aver abbracciato il Conte e la Contessa.
— Io non posso essere adottata; ma verrò spesso a veder come siete felici ed i bambini faranno un bel Capo d’anno.
— Finché vivremo — disse il Conte e la Contessa. — Finché vivrò — aggiunse il Gigante.
Quando il Conte e la Contessa andarono in camera, trovarono l’antico letto di famiglia al posto, tutto luccicante.
— Che bel Capo d’anno! — esclamò il buon Conte.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il capo d’anno del gigante
AUTORE: Emma Perodi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti