In Italia la fine del XIX secolo fu caratterizzata, da un punto di vista socio-politico, da un conservatorismo “illuminato” che si rivelò estraneo agli aspetti più tipici e inevitabili delle dinamiche di cambiamento, a partire dal fenomeno dell’associazionismo popolare e dalle modificazioni ed evoluzioni del tessuto produttivo del paese. Le classi possidenti si ritenevano uniche depositarie delle conquiste unitarie del risorgimento. Il problema dell’interpretazione storica di quegli anni infatti verte necessariamente non tanto sul significato dei moti popolari, quanto sulle ragioni di una così spropositata e inconsulta ferocia nel reprimerli. Gramsci scrisse: “…la reazione del ’98 abbattè insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente egualmente sovversivi e obbiettivamente alleati”.
I fatti del ’98, che ebbero epicentro nelle giornate di maggio a Milano, trovano le loro radici fin dalla crisi che si era aperta nel ’93 in Sicilia con l’esperienza dei fasci siciliani. Forse nessuno meglio del Colajanni, che questa esperienza conosceva per averla vissuta dall’interno, può aiutarci a seguire storicamente il filo rosso che lega quegli avvenimenti. E già aveva dovuto fare i conti con la repressione, anche se al governo imperversava ancora Crispi e non quel Rudinì che sarebbe stato scelto poco dopo dalla monarchia sabauda appunto per contrastare in maniera repressiva e con abnorme violenza i fenomeni di cambiamento ai quali abbiamo accennato.
Rudinì temeva soprattutto che un’estesa ala dei moderati potesse avvicinarsi alle posizioni repubblicane e socialiste. Per questo vedeva come antidoto un governo “energico” e un’azione politica più tesa e concentrata. Non per caso l’approdo alla guida del governo del Rudinì fu “mediata” da un militare, il generale Cesare Ricotti, al quale il re aveva affidato l’incarico per risolvere la crisi del gabinetto Crispi. Questo era il segnale che l’ala destra dei moderati, ispirata soprattutto dai conservatori milanesi e lombardi, si attendeva. L’abilità di Rudinì nel coinvolgere al governo, almeno inizialmente, settori della “sinistra” – ma anche intellettuali come Mosca e Saredo attratti soprattutto dalla trappola dell’idea del decentramento che Rudinì vedeva come strumento per arginare gli effetti dell’estensione del suffragio – è fuori di dubbio.
Ma la crisi politica e sociale che attanagliava l’Italia andava in direzione tale che le iniziative di Rudinì non potevano arginare con una parvenza di riforme. Non restavano che misure come i decreti di stato d’assedio imposti ad alcune città italiane nel maggio del ’98, durante la fase più acuta delle proteste popolari (“Alle grida strazianti e dolenti/Di una folla che pan domandava/Il feroce monarchico Bava/Gli affamati col piombo sfamò” diceva una diffusa canzone popolare riferendosi al famoso “braccio armato” di Rudinì, il sanguinario Bava Beccaris). Ovviamente a questo stato d’assedio non poteva non seguire lo scioglimento delle organizzazioni politiche socialiste e cattoliche.
Colajanni fa questo suo appassionato resoconto di quei momenti, sotto l’onda emozionale alla quale non poteva certo sottrarsi. Il testo fu stampato nel corso di quello stesso 1898 e rappresenta la più appassionata difesa da parte dell’allora deputato repubblicano per gli imputati di quei fatti di Milano. Imputati tra i quali troviamo Turati, Anna Kuliscioff, Costa, De Andreis, Chiesi, Romussi e quel Valera che, dalle colonne del quotidiano «La Battaglia», aveva causato “eccitamento all’odio tra le classi sociali ed alla guerra civile” (questa fu la motivazione della condanna al processo del giugno 1898). Alle stesse catene (non metaforiche) fu messo don Davide Albertario, antesignano del riformismo sociale cattolico. Sull’argomento si può leggere in questa biblioteca Manuzio, la raccolta di scritti di Valera intitolata I cannoni di Bava Beccaris.
L’esposizione di Colajanni è quanto mai obiettiva. Dalla narrazione emerge la precisa responsabilità degli industriali, proprietari di cantieri, officine, e l’opinione di Colajanni è suffragata – riferendosi a chi stava per collocazione politica da una parte contrapposta a quella del Colajanni – da Torelli Vollier che il 1 giugno 1898 si dimise da direttore del «Corriere Della Sera». Il programma reazionario di Rudinì – e di un vero programma si trattava, non di un “conato autoritario” come lo definì Benedetto Croce – si reggeva solo, dopo due anni di governo, sempre sulle stesse forze della reazione che aveva mobilitato al suo inizio.
Dimenticando persino di dover fare i conti anche col buon senso, la dignità, il senso della misura e la moralità di quegli stessi elementi della borghesia che non possono percepire come estranee le idee di sviluppo della società entro un certo grado di libertà né, in certo qual modo, la necessità di mutamenti e riforme. E Vollier, il cui giornale era definito da Colajanni “l’organo ufficiale della reazione” si trova poi a dire cose del tutto coincidenti con quelle espresse da Colajanni stesso. D’altra parte un attento osservatore avrebbe individuato la pericolosità delle opinioni di Rudinì fin dai suoi esordi. Scrisse Labriola ad Engels il 23 marzo del 1891: “Il nuovo ministero Rudinì ha avuto interesse di mostrarsi più liberale di Crispi: il che poi finirà tra pochi giorni”.
E infatti l’azione repressiva iniziò subito, e non solo nei confronti delle associazioni socialiste e cattoliche ma anche verso gli intellettuali che tendevano ad avvicinarsi alle problematiche della classe lavoratrice. La cultura rappresenta sempre un pericolo per il potere e tanto più è pericolosa quanto più il potere è reazionario. Antonio Labriola subì ripetuti interventi di “censura” in particolare dopo il discorso all’Università di Roma sull’argomento “L’università e la libertà della scienza”. Ettore Ciccotti non poté divenire professore ordinario perché socialista. Vilfredo Pareto scrisse a Colajanni che
“il Rudinì vuole mandare al domicilio coatto tutti coloro che non la pensano come lui…[…] credo che […] lo scopo principale della nuova legge del domicilio coatto sia precisamente di rafforzare quel dominio dei signorotti e di permettere loro di sbarazzarsi di qualche troppo noioso avversario”.
Tutto questo per dire che se il libro di Colajanni che presentiamo può parere scritto sull’onda di quell’emozionalità che le cannonate del pluridecorato (e pubblicamente elogiato dal re Umberto) Bava Beccaris sulla folla “che pan domandava” avevano inevitabilmente portato nel cuore e nella mente di ogni democratico; l’autore aveva avuto in effetti quasi un decennio per comprendere e cercare di contrastare la politica di uno dei più reazionari governi dell’Italia unita. E si trovò a commentare, sullo sfondo di una città ferita nella vita economica sociale e culturale, 122 processi che fecero cadere secoli di galera su quasi tutta la classe intellettuale milanese. Le condanne del ’98 non erano in ultima analisi che una punizione e una vendetta voluta e pianificata dalla sempre più insulsa e pericolosa, per la vita civile, monarchia sabauda.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
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Dall’incipit del libro:
Imprendendo a dire, con tutta la prudenza imposta dalla reazione trionfante, dei casi che si svolsero in Italia nella primavera 1898 e che, per colpa del governo, assunsero proporzioni minacciose ed impronta speciale in Milano nelle giornate dal 6 al 9 Maggio, sento il bisogno di riprodurre le pagine colle quali posi termine al libro sugli Avvenimenti di Sicilia del 1893-94, che agli ultimi intimamente si connettono.
Scrivevo adunque nell’autunno del 1894: «I segni precursori del principio della demolizione di tutto ciò che esiste in politica in Italia non mancano e presentano una grande analogia con quelli che nel secolo scorso precedettero lo scoppio tremendo della rivoluzione francese».
«Si legga l’Anciène régime di Toqueville e di Taine e si vedrà che in Francia prima del 1789, come a Napoli, nelle Puglie, in Sicilia nel 1893 e nel 1894, si sente che c’è un popolo in rivoluzione latente, che aspetta l’occasione per irrompere; che questo popolo manca ancora di organizzazione e di capi, non avendo più fiducia in quelli che hanno l’autorità legale. Anche allora si gridava: «Pane, non tasse, non cannoni! ch’è il grido del bisogno, dice Taine, e il bisogno esasperato irrompe e va avanti come un animale inferocito. E i magazzini, i convogli di cereali arrestati, i mercati saccheggiati. E si grida: Abbasso l’ufficio del dazio! E le barriere sono infrante, gl’impiegati vinti e scacciati… E si danno al fuoco i registri delle imposte, i libri dei conti, gli archivî dei comuni e si fa tutto al grido di: Viva il Re!»
Scarica gratis: L’Italia nel 1898 di Napoleone Colajanni.