1 – FIVE YEARS, NO TEARS. DOPO NEUROMELÒ

(settembre 2018)

Un odore e un colore (di incenso) (noi
avevamo confidenza…)
Un riflesso, una sosta, una pace all’altare – una corsa
civile… Ma io voglio sapere dove eri. E io voglio sapere come
stavi. E perché eri perduto? (ha parlato
la femmina).
perché non eri qui? – quando non ero
nato, fu una mossa infelice, fu questa,
che si vede: due esseri e due averi, ma tutto
si salverà. e tu fatti centauro, no? fatti centauro.

MésallianceCon questi versi mi ricollego all’ exit del Caso Massimo Sannelli (2016), allora inediti, poi usciti in Memoriale della lingua italiana (2017). Parlano di un centauro. Il riferimento non è solo all’astrologia di un autore nato il 27 novembre. Sarebbe troppo semplice e anche ingenuo. Stiamo alla prospettiva mitologica: il centauro è una figura ibrida e anche magistrale, combattiva e contemplativa, e lo è contemporaneamente. È chiaro che Sannelli tende a questo: ibridismo (delle forme e dei mezzi), magistero (molto informale), azione, contemplazione, tutto insieme. E i versi citati – tanto leggibili quanto illeggibili, tanto dolci-docili quanto perentori – costituiscono un imperativo: amare la dualità (due esseri, il maschio e la femmina, evidentemente due lati che Sannelli riconosce in sé) purché risolta in unità (il centauro, l’ibrido). Né moderno né postmoderno ma classico . Ma chi è classico? Foscolo, Mozart, Balthus? Oppure è classico chi pratica la molteplicità, vivendo – da mortale ovviamente, inevitabilmente – come se fosse non ovviamente immortale? È classico chi aggredisce il presente con uno sguardo tanto multimediale quanto intemporale. Ora la dimensione centaurica è un obiettivo realizzato. E questa breve nota preliminare è già un segnale, un indizio per una aggiunta a Mésalliance , che è una aggiunta al Caso Massimo Sannelli. Quindi una estensione della estensione. La domanda di settembre era un’altra, questa: «Sono già cinque anni. Nel 2013 lei abiurò pubblicamente dalle sue opere di poesia. Se lei non fa le cose in pubblico, sembra che non sia pienamente soddisfatto».

Ovviamente. C’è una scala dei piaceri, no?

Allora il suo tono era eccitato e categorico, quasi esultante nella prospettiva di riapparire con altra voce , e a differenza di ora sembrava disposto a mettere in chiaro le sue ragioni. Con tono serrato e ultimativo chiamava in causa appartenenze, rapporti personali ed editoriali, e dilatava l’accezione di poesia («Non ho mai voluto scrivere poesie, ma dare una forma musicale ad un’azione biologica , o anche biografica», ricorda?). Che veniva spoetizzata, e per molti versi sliricata, e introdotta in un contesto teso a scavalcare l’esclusivo àmbito della parola scritta. Ora, la Nota finale dell’appena uscito Neuromelò – a suo dire, suo ultimo libro di versi – non parla di cancellazione, né delinea un autodafé: sigilla l’esaurimento di un altro ciclo, l’arco di anni dal 2013 al 2018. La lapidarietà del colophon dà l’impressione di una indisponibilità a parlarne, di una maggiore radicalità e chiusura a spiegazioni, di voler rendere conto solo «a se stesso». Se è così, è inutile andare avanti…

Rinnegare l’errore è un piacere.

La coscienza si giudica e stabilisce una graduatoria delle azioni. Ogni azione è legata ad una persona, nel caso di chi scrive poesia: un dedicatario, un compagno di strada, una sembianza più o meno amata. La graduatoria delle azioni diventa súbito una graduatoria di persone. Questo è ovvio e diventa il tono «eccitato e categorico». Si potrebbe dire anche «agitato e allegorico». Di bene in meglio.

L’abiura si slancia con quell’eccitazione, e allora sembra rivolta solo alle persone (che nella poesia diventano causa e fine delle azioni – l’ho detto, questo, per la mia vergogna? Sí: l’ho detto, per la mia vergogna). Ma l’abiura è rivolta anche ad un’illusione. In principio ci sono i termini e la sintassi. I termini e la sintassi possono essere chiamati ad essere non-termini e non-sintassi. Così i termini e la sintassi diventano fonemi, utilizzati singolarmente, fino a creare una specie di musica linguistica, ma senza leggi di concatenazione. Ho usato i termini e la sintassi per fare qualcosa che è l’esatto contrario della loro natura. Ma la musica si fa all’interno della disciplina musicale; e la letteratura si fa all’interno della disciplina letteraria. Ho sempre composto musica elettronica, e l’ho sempre disintegrata. Poi ho deciso di salvarla, e tutto quello che io salvo deve avere un fine pratico. Un giorno ho trovato il fine: la musica sarà la colonna sonora di alcune opere filmiche.

Se ho trovato la musica della musica, che me ne faccio – e a che cosa serve – di una lingua trasformata (con violenza) in fonemi? Non è una pura questione estetica. È una questione di violenza. Davvero. Tu stai nell’irregolarità di una bestemmia continua e credi che sia sana e giusta (anche perché Giovenale, Mesa, Cortellessa, Ostuni, Zinelli, Zublena dicono che il tuo lavoro è interessante: sono sinceri, ma tu ti senti a disagio – per ora è solo disagio – e non capisci perché: perché sei a disagio? perché non capisci il perché? E stai già notando che sono tutti maschi, va bene, ma non sei contento: sai già che un ambiente tutto maschile non è tuo, per sua natura; per tua natura).

Stai cuocendo a fuoco lento: vivi nella nevrosi, condivisa con altri (ti cooptano, ovviamente, e diventano i tuoi primi amici: in effetti qualche favore te lo fanno, a condizione che tu aderisca a certe leggi non scritte, neanche troppo dure). E poi vivi senza ebbrezza e senza coraggio. Vuoi il primato dei fonemi? E allora devi andare fino in fondo, sul lago ghiacciato. Là sotto c’è Ono di Cesare Viviani: «ono ono todào lota ma dina: / lota poramatè lello solai / o mino coti so malla serína / vetèste pu folce».

Se non si arriva fino in fondo si è ibridi, un po’ chiari e un po’ scuri, decifrabili e indecifrabili, amici degli amici e anima di una mania collettiva. Un giorno Giuliano Mesa mi offrí un prosecco (lo so, basta dire prosecco e l’eroicità delle virtú è morta). Disse: «Ti devo redarguire». Il giorno prima ero andato a parlare di Pasolini – un uomo ricco – nella ricca galleria di Simona Marchini, nella ricca via del Corso, a Roma. Ai ricchi, diversi da me, avevo parlato gratis di un ricco, diverso da me, ma il punto non è questo. Non si trattava del vecchio odio di classe.

La critica di Mesa si può esprimere in poche righe: tu devasti la sintassi e il lessico per fare una musica obbediente ad altri (gli altri sono i tuoi amici, che in effetti qualche favore te lo fanno). E poi vai a parlare del nostro peggior nemico, il Narciso narcisista? Tu non rispetti la nostra politica extraparlamentare e contesti la nostra lotta linguistica al sistema. È una lotta vana, fatua e vacua; è intossicata da nevrosi e sostanze, oltre che dall’ipocrisia, ma comunque è una lotta, mio caro. E adesso porti un ramo d’alloro a Simona Marchini, felice di farlo? Tu ci vuoi tutti morti. Pazzo, ti devo redarguire.

[Le malizie dell’arte amicale sono meravigliose].

Hanno occupato l’orizzonte di questi suoi cinque anni alcune nuove opere: Intendyo, Venti sonetti, Poesie nello stile del 1940, Memoriale della lingua italiana, L’Assoluto, FW 17-18 Men’s Collection. E poi sceneggiature, grafiche, musica elettronica, articoli, prefazioni, editing, saggi (lei rifiuta del tutto l’idea del poeta che fa solo il poeta, e so bene che lei assomiglia a quel personaggio della Messa è finita di Nanni Moretti che decide di non vedere più nessuno; e questa è anche la scena finale dell’ Arte del Fauno di Fabio Giovinazzo). Opere non rifiutate, anche nella misura della rivendicazione – e di conseguenza della conquista e quindi della pratica – di uno stile. Questo era un termine da superare a sua volta, altrimenti cosa la spinge a dire che un altro ciclo si è irreversibilmente concluso? Oltre tutto, non si avverte uno scarto significativo tra lo stile e i temi di Neuromelò e le opere sopra ricordate. Alcuni temi non paiono ripresi a caso, alcuni in particolare – ripetizioni-riscontri – sono riconoscibilissimi. Così da Sannelli che li puoi indicare con il dito: l’opera come segmento e totalità, il reclamarsi alterno degli elementi. La tensione con i richiami del passato, il sesso, le stanze, il corpo, gli amori, le città, le strade, gli antagonismi, la musica. E le loro diramazioni sempre mutevoli. Cosa che del resto lei conferma nella Nota, dicendo che la vera novità viene dalla «pratica della musica elettronica». Ma lei non è nuovo neppure in questo, sapevamo delle sue forti basi musicali, oltre che attoriali ed artistiche…

Si dice che non esistono pasti gratis. Quelli recuperati dalla spazzatura, forse: io so che cosa significa, ma non si riesce a spiegarlo nemmeno filmando il fiuto & il rifiuto nell’Arte del Fauno di Fabio Giovinazzo. L’umano si mortifica troppo nella creazione di storie e di rapporti: perché qualsiasi cosa umana deve essere inserita in una storia e in un rapporto. Ma la gratuità è divinamente superficiale, e quindi è bella (secondo me).

L’atto è un fatto, da súbito, e si abbandona nell’istante in cui è stato visto (secondo me). [Dirò dopo che la nominazione è sorella della visione].

Per questo le opere devono essere molte e varie (secondo me). [Dicendo questo ho assecondato la mia insopportabile asocialità]. Posso confessare un amore ossessivo per la superficie dei fenomeni ?

Ho un amore ossessivo per la superficie dei fenomeni. [Ma non devo più bestemmiarla, questa superficie; non devo più ridurla ad un reticolo di fonemi in un reticolo di comunicazioni tra amici; proprio perché lo so, oggi, devo praticare altre vie: tutte superficiali e tutte impegnative].

Nell’estate del 2018 mi disse che stava lavorando all’ultima serie italiana e che avrebbe abbandonato la nostra lingua (lei scrive anche in inglese). Perché?

Posso rispondere con un po’ di durezza, approfittando dell’aggettivo nostra ? Bene: io ho già abbandonato la vostra lingua; e anche la loro lingua. Ma adesso non dirò la banalità: ho scoperto la mia lingua. Non c’è una mia lingua. C’è un’intenzione, questo sí. E l’intenzione è asociale e superficiale, cioè un’adoratrice un po’ monastica dell’apparenza. [Karl Lagerfeld è quasi l’idolo della Camerata Informale che ho creato. Non è una battuta. Lavorare l’apparenza per stare nell’apparenza è pura grazia, per me].

Per favore, non riduciamo tutto a io-noi-voi-essi. Dobbiamo morire, tutti, e la nostra mortalità rende volgare qualsiasi contrapposizione. Solo un essere eterno ha – o avrebbe – sempre ragione. A volte dico che sono un vampiro. È una battuta, ma indica che aspiro ad una certa immortalità (anche per vanità). Ma se non sono letteralmente immortale, perché un moribondo dovrebbe dire «io! io!» davanti ad un coro moribondo che dice «noi! noi!»?

Meglio godersi la superficie variata dell’erba o di Schubert.

E inventare una specie di thíasos.

Ogni libro interpreta gli anni del suo autore, scandisce i tempi della stessa opera, dalla stessa sponda: la vita. Non perdendo mai il presente. Neuromelò è davvero un libro che dimette la poesia? Quando la copertina sembrerebbe dire il contrario, alludere a una ripresa, a un riavvio: nella nona lettera di Neuromelò dirompe il colore, il rosso. Inoltre, digradano in nero i caratteri nella terza immagine, ma per risorgere accesi e smaglianti nell’ultima. È una banalità o un segnale? Che cosa rinascerà?

La felicità, no? Che altro deve rinascere? Il poeta non si pone mai il problema di rendere felice qualcuno? Il poeta si presta ad una grande enfasi, ed ecco un esempio. Maria Grazia Calandrone scrive in Facebook che «i poeti non indicano il muro che vediamo, ma l’infinito che sta oltre». La frase è retoricamente procace, anche perché [mi] ricorda il frammento 93 DK di Eraclito. Allora mi sono chiesto: e io, che cosa indico? [Pausa di riflessione; mano sulla fronte: la risposta non arriva perché nasce un’altra domanda:] Ma perché devo indicare? [Sospiro di sollievo. E dal sollievo nasce un punto fermo:] Io osservo. È meglio. [tra poco l’indicativo si spiega meglio, e poi piovono domande:] Osservoil muro, di per sé. È a secco? antico o moderno? è di cemento armato? chi l’ha costruito e perché? e perché è caduto? Prima dell’infinito ci sono infinite domande. Queste domande sono più luccicanti dell’infinito, che è un’astrazione (o un idolo indolore).

Rinasce l’idea pratica: io ti regalo un libro, che non ho pagato, e non lo devi pagare neanche tu. Se ti rende felice, bene: l’ho fatto apposta (come dicono i bambini: l’ho fatto apposta ). [Ma chi ha costruito il muro sotto il monte Cordona? E perché? E quando? Il pastore fu anche muratore? Si improvvisò muratore o aveva il mestiere in mano? Chiamò un muratore che non era pastore? Anche il muro è stato fatto apposta: sí, ma perché e quando?].

Nel 2016 usciva l’ e-book – che includeva alcuni nostri dialoghi, e interventi di Matteo Veronesi e miei – dal titolo Il caso Massimo Sannelli . E l’abiura del 2013 solo marginalmente contribuí alla scelta della parola caso. Darebbe un titolo del tipo post poetry , dopo la poesia , oppure della poesia dopo a un eventuale intervento sulla sua opera futura?

No. Nessun titolo. Non si può dare un titolo al dopo. Come faccio a nominare una superficie futura, se non l’ho ancora vista? Ecco un’idea: il nesso tra visione e nominazione. Lo accenno superficialmente – appunto – e lo passo agli interpreti [io mi stanco di pensare nel momento stesso in cui penso: davvero].

È già tanto che non mi abbia presa a schiaffi, come, ancora, Nanni Moretti in Palombella rossa : anche per lei «le parole sono importanti». Ma ora stiamo a questo titolo: Neuromelò. Esito di una costruzione dialettica, insomma una parola composta, ma ovviamente concepita come unitaria – e infatti qui univerbata. Che allude a una interdipendenza, che condensa dei significati, e probabilmente degli intenti. Quali?

Le prime due risposte sono duttili. Si adatteranno anche a questa domanda. Naturalmente l’ho fatto apposta

Di séguito un frammento da Neuromelò , il resto al lettore.

il cuore-in-mano parla, e dice «non puoi vendere»; e se non posso vendere avrò Venere, presto. Sarà fatto

questo. Il sesso preme il nervo, il giorno vuole il gioco,
il gioco vuole un’ora, un’ora chiama piccole
lacrime di sale. Va bene?

gli Esperimenti nuovi esistono, esitano, si spengono. Rifarli
è semplice: rinascono, ritornano, si sentono. Un frutto
rosa e rosso non si nega più: è un uso molto mosso della storia
che fu dei sensi e ai sensi torna sempre:

neuromelò è la grande prova dei nervi.

2 – DIALOGO NELLA CAMERATA INFORMALE

(marzo 2019)

Da un po’ di tempo a questa parte lei bypassa l’editoria e si autoedita. Qualcuno censura il self-publishing, ma non si può negare che ci sono bellissimi libri autopubblicati, e, diciamolo pure, libri mediocri che neppure si sognano di bypassare l’editoria. Autopubblicarsi significa anche avere una certa stima di sé, tale da darsi l’ imprimatur : autoapprovarsi. E questo implica il sentirsi all’altezza di essere all’altezza. È Così, nel suo lavoro (malgrado la presa di posizione di Poesie nello stile del 1940 , dove lei, indirettamente, invoca una censura superiore)? E si tratta anche di autostima, se le opere coincidono con il programma dell’esistenza? Cioè quello di infrangere i Così detti passaggi intermedi tra vita e opera
Ora guardi sé dall’esterno «con asciutti occhi» e si giudichi. Lei quanto vale, oggettivamente?

C’era una volta un bottone sulla giacca di Leopardi. Poi cadde dalla giacca. Si mescolò a molti dati e oggetti, dispersi. E poi? Che cosa sarà accaduto al bottone, sciolto dalla giacca di Leopardi?

L’avrà trovato Rilke? È una fiaba possibile. Io so che il bottone di Leopardi non si è smarrito per sempre. Fu salvato e cucito su un’altra giacca. Diciamo Così. Ora so che questo frammento circolareè una presenza tra dappled things. Si riconosce e si è riconosciuto anche nelle ore piùatroci della sua vita frammentata [e pubblicata: con una certa abbondanza, perché ci sono situazioni in cui apparire è più urgente che essere].

Bisogna essere molto selvatici, per salvarsi.E bisogna avere uno sguardo complessivo sugli otto secoli di Letteratura Italiana, per capire. Capire significa riconoscersi all’interno del quadro, che non è monocromo e deserto, ma è qualcosa come la Lotta di Carnevale e Quaresima di Bruegel. Lí – no: qui – i personaggi sono molti, nobili e ignobili; i contendenti sono opposti; le speranze anche.

Bisogna spiegare ai migliori giovani che la loro eccellenza può essere eccellenza assoluta: il livello 10 rispetto allo 0 e al 5. Appunto, il livello di Fortini o di Luzi, nobilissimo e altamente umano, quindi un livello possibile.

Se il livello è possibile, è ripetibile.

Se è un fatto, potrebbe essere già qui: vivo, pronto e abile.

Infatti c’è. Bisogna solo trovarlo, tra le decine di centinaia di Menti delle Accademie e delle Università. Si riconosce dalle opere e anche dalla presenza fisica (e per chi ha orecchio interno, esterno e assoluto: si riconosce da un certo modo di intonare le frasi; e dalla voce).

Ho il diritto di esprimere con orgoglio un orgoglio, a nome di una piccola comunità informale ?

Non rispondo alla domanda retorica e faccio un sunto automatico.

La domanda «chi credi di essere?» ha una risposta molto semplice e indicativa: «Io credo di essere: non una macchietta, non una parodia, non un irresponsabile, non un piccolo studioso, non un autore minore, non un quadro senza cornice e non una cornice senza quadro; e con me altri: non molti, ma non pochi [e terremo in piedi la baracca secolare, a modo nostro, informalmente]».

C’è soluzione di continuità tra le aspettative e gli atteggiamenti non intenzionalmente provocatori dell’ex bambino e l’età adulta? Insomma: crede di aver tradíto quell’ex bambino Così distante, estraniato, asociale e talentuoso, talentuoso nella misura in cui era asociale – che nell’ Assoluto chiama Rebis ?

Lei che cosa direbbe al sé bambino, ora?

Se io ho un problema, se io sono un problema, posso affrontarlo con la patafisica o con l’autocritica.

Con la patafisica il problema riceverà almeno una soluzione immaginaria. Ma ho deciso – tra una domenica mattina e un martedí sera, improvvisando prose, non pose, note elettroniche della musica, con fatíca, con desiderio, ecc. – che il problema non esiste.

All’inizio, il problema era (fu) il talento asociale, cioè il talento – di un bambino: di sei anni, in provincia – che non si adeguava alle pratiche sociali: il gioco di gruppo, il pasto di gruppo, l’adesione ai programmi (non solo scolastici).

Immaginiamo che un bambino di sei anni voglia la gloria. La vuole per mezzo delle opere: come Cesare Pavese a diciotto anni, che il 12 ottobre 1926 voleva «diventare un poeta almeno come Shakespeare».

Quel bambino non era (non fu) pazzo. Chiedeva molto, agiva molto; e gli fu fatto molto – molto – male.

Il fatto è che chiedeva – e chiese, molte volte – una dimensione di non-bambino. Si consolò con molte opere, crescendo.

Si consolò scoprendo di essere anche un animale, e non poco.

Era bello come essere un artista.

Così nacque il Fauno: un pezzo di fauna d’arte, classico e gotico.

Ha strategie da consigliare per le scalate?

La lettera di Leopardi a Giordani del 21 novembre 1817 dice abbastanza su quello che non si deve fare.

Ho lavorato come se l’avessi già conquistata, quella gloria. È chiaro.

Nello stesso tempo, il mio Romanzo di Formazione deviava dall’obiettivo, si piegava in malattie e piccoli vizi o brividi, fino alla nausea; il Romanzo si concedeva appendici e note a margine, ma a che cosa serve deviare?

A negare la luce.

Il bambino che ero è stato molto più perfetto e rigoroso della mia persona adulta. L’adulto può essere tentato di annegare il corpo, ecco. Ma ora sono tornato bambino e sbaglio meno. Vive ora l’ironia, come una regina della vita.

Come vive questa sorta di umile orgoglio, di doppiezza senza finzione? Come vive questa antitesi?

Il carattere centaurico ha la sua responsabilità: si vive ambiziosamente – da un lato – e si vive contemplando, dall’altro. E giocando, e danzando e studiando, sempre.

È chiaro che dimenarsi socialmente è volgare, se non è per ragioni di Stile. Meglio dimenarsi – slanciarsi oltre ogni dire – in una piazza deserta: correre e saltare là. Tutti questi verbi del movimento e il luogo del movimento non sono detti per metafora. Non faccio per dire, come si dice. Dico per fare. Va bene come risposta?

Quali erano i suoi progetti e – perché no? – i suoi sogni? Detto in altre parole, proprio da intervista quotidiana: che cosa se ne fa lei della gloria?

Si può usare la gloria, raggiunta bene, con buone opere, per esaltare la vitalità di un’altra vita, non della mia. Non una vitalità astratta, ma le questioni della presenza e dell’apparenza, in nome dello stile e della salute: la postura, la voce, lo sguardo, il comportamento.

Io credo che non abbia senso insegnare metrica senza insegnare postura.Il corpo non ha una metrica? Sí. Il passo non è un atto metrico? Per me lo è. E come si fa ad insegnare grammatica e poesia senza educare la voce? Perché la parte fisica e vocale della nostra Alta Cultura è Così difficile da realizzare ?

Forse – consciamente o no – non siamo Così innamorati della nostra Alta Cultura. [Il fatto è che io la amo.Non da solo e non solo io.E consciamente, per forza. Ma non posso più scindere il corpo dalla voce e la voce dalla mente e la mente dalle opere, e «al cor gentil rempaira sempre Amore». Le tensioni che ci animano, poeticamente e non solo, sono esattamente quelle di ottocento anni fa].

La facoltà di parlare è connessa ad una struttura psichica – il cor, di per sé, senza aggettivi – e ad una cultura, che Guinizelli chiama cor gentil.

La struttura e la cultura sono incarnate in una persona. È l’amante. E tutto questo non è un’astrazione: perché riparare, rimpatriare, ritornare sono forme di restauro psichico.

Lei parla di sé. Tanto vale che esageri e dica tutto. Mi concederà questo privilegio, qui, in Mésalliance ?

La felicità di un allievo – un possibile suicida, molto autodistruttivo – non è parte del mansionario di un italianista. Né delle attività poetiche del poeta medio, cioè di un retore. Ma è proprio qui il punto: in un tempo di crisi o si va oltre il mansionario rigoroso o perdiamo tutto. Ecco un esempio:

e chiedo aiuto
e aiuto non giunge

Abbiamo perso Massimiliano Chiamenti. [Anch’io ho rischiato di perdermi. Per gli stessi motivi di Chiamenti: mancanza di lavoro e mancanza di amore. Il fatto è che Chiamenti era con evidenza un genio imperdibile: bene, non gliene è fregato niente a nessuno. Prima o poi metterò la faccia per Chiamenti: in qualche modo pubblico e dionisiaco].

E ancora: tutto può essere astratto, tranne il corpo.

E ancora: non ci si può amare da soli tutte le voltee per tutta la vita.

Ad un certo punto, uno si dà un programma: sarò un metricologo totale e un registratore di voci amate, compresa la mia, quella nuova. Un musicista. Cyrano nel sogno di Rostand. Da grande farò tutto, come il re David. Da piccolo farò il soldato (ruolo: tenente). Inventavo una lingua. La trovavo, per questo si dice che uno è trovatore. Cercavo Dioniso con la lingua e i sensi tesi. O lo inseguivo con l’anima in bicicletta: «Vola una turba in caccia / DionisosDionisos Dionisos». Ho mantenuto la lingua. Il mio nome è un superlativo perché sono nato il 27 novembre: violentemente e per caso. Onomastico e compleanno, perché tutto fu improvviso: il nome sul calendario andava bene. Andò bene, per forza. Io non scelsi, ma un fiore fioriva e fu una cosa buona. La mia identità ebbe una definizione. Forse sarebbe stato l’unico giorno della mia vita mortale, ma non lo fu. È strano che io viva, davvero, ma vivo. Irreale, io vivo. Forse non l’ho mai detto. Decisamente boom. Lo dico. Stop. Va bene come esagerazione?

Aggiungo una licenza, in due frasi metriche.

La metrica si merita vivendo.
La metrica si conta con la vita.

Vorrebbe essere un capo carismatico, come si diceva in tempi – forse fortunatamente – perduti?

No. più carisma e meno capo, se possibile.

Meno capo e più carisma.

Dopo la perentoria dichiarazione nella Nota conclusiva di Neuromelò – che insieme alla poesia, implicitamente, sancisce l’abbandono di diverse forme di arte – cosa le sta passando in mente? Mi risulta che continua a comporre opere musicali, a dedicarsi alla grafica, al cinema, anche in veste di critico e di autore. Solo questo?

Per ora, sono il direttore artistico di un’azienda che fa cinema. Uso come una cattedra la mia direzione, finché durerà, nella foga composita e variegata del suo dovere.

Consiglio film, libri, testi. Fisso vertigini da condividere. Correggo voci e posture, senza imporre niente.

Tutto questo è più un galateo fisico-vocale che un engagement. Già: galateo del corpo e della voce. È perfezionismo, ma niente di troppo impervio. La velocità con cui l’imperfezione si corregge significa: l’imperfezione è transitoria.

Glielo chiedo di nuovo, dopo tre anni: nel suo caso, dov’è il caso ?

Io non sono un caso. Cerco di essere un’occasione.

Mi considero Così, dall’interno.

I motivi del caso potrebbero essere questi, se si guarda dall’esterno: l’irriducibilità alla riduzione; il bisogno di vedere molte fioriture, a partire dai corpi, compreso il mio; l’asocialità che si impegna, e impegnarsi significa aprirsi ai singoli. Tutto questo non contraddice l’asocialità, per forza.

L’occasione è molto sperimentale e varia di giorno in giorno.

È informale, come la cattedra che emette i miei segnali.

In che senso è informale? Nel senso dei sensi, per forza.

Ai sensi non si chiederà mai di essere formali.

* in E. Brizio, Mésalliance. Estensione del Caso Massimo Sannelli, Lotta di Classico, Genova 2019. Progetto grafico di Massimo Sannelli.

https://lottadiclassico.files.wordpress.com/2019/03/me.pdf