Come più tardi sarà sindaco del suo paese di Tricate, in Basilicata, Rocco Scotellaro e forte sarà il suo impegno politico, altrettanto ai primi del Novecento era accaduto a Tommaso Fiore in Puglia: anche lui sindaco dal 1920 al 1922 del suo paese di Altamura (fu anche consigliere provinciale di Bari), e pure lui impegnato politicamente a favore della sua gente. Nato il 7 marzo 1884 (morirà a Bari il 4 giugno 1973), fu volontario della Grande guerra, e ne difese la necessità in due articoli apparsi su La Voce di Prezzolini il 22 giugno e il 22 luglio 1915. Di quell’esperienza restano due libri: «Uccidi! Taccuino di una recluta», Torino 1924 e «Eroe svegliato asceta perfetto», Torino 1924. Collaborò alla Rivoluzione liberale di Piero Gobetti ed ebbe continui problemi con il fascismo, che lo condannò per qualche tempo al confino. Assidua fu anche la sua opera di traduttore.
Nel 1951, per i tipi di Laterza, uscì una sua raccolta di lettere con il titolo «Un popolo di formiche», che vinse il premio Viareggio nel 1952. Del 1955 è, invece, «Il cafone all’inferno», pubblicato da Einaudi.
Tre autori vengono subito in mente leggendo quest’ultimo lavoro: Renato Fucini e il suo «Napoli a occhio nudo», del 1878, Matilde Serao, «Il ventre di Napoli», del 1884 e Anna Maria Ortese, «Il mare non bagna Napoli», del 1953. Per citare tra gli autori pugliesi, un altro nome, meno conosciuto ma di valore, che balza alla mente è quello di Tommaso Dell’Era che partito da Bari fa un viaggio per l’Italia, che descrive nel suo «Un ficcanaso», del 1969.
Fiore si limita alla sua regione. Ne desidera cogliere gli aspetti umani e paesaggistici rimasti dopo il passaggio del fascismo e della guerra. Certe descrizioni dei «Granili» o delle «Casermette» di Foggia, oltre che la Ortese, ricordano «Scala a San Potito», di Luigi Incoronato, uscito cinque anni prima, nel 1950: «Il cortile è ingombro, quasi tutto, di terreno e di acque nauseose, ché ogni lordura vi si avventa giù dall’alto; a stento riusciamo a sorpassarlo per prendere a sinistra ‘la scala della morte’, come tutti ormai la chiamano, tante son le disgrazie che vi accadono. Non ha più inferriata e chi sale stenta a tenersi ritto pei gradini viscidi, rasente le pareti dove il sudiciume fa crosta».
Vi incontra solo miseria e disperazione: «un piatto caldo la mattina e la sera due pomodori», quando va bene. Antonietta Pecorella è ridotta in tali condizioni che Fiore confessa: «Io non so cosa fare, non so se gittarmi ai suoi piedi e stringerle le povere ginocchia, o baciarla in fronte e sollevarla tra le mie braccia come una figlia.»
Ciò che viene osservato nel viaggio si trasforma sempre in una riflessione che abbina la storia dei provvedimenti indirizzati a migliorare le condizioni di vita alla critica sui mancati risultati. Il fallimento di una sistemazione dei corsi d’acqua, è tra le accuse più gravi. La Capitanata, il Tavoliere sono ancora dei deserti proprio per la mancanza di un sistema idrico che renda fertili i campi. Fiore fa nome e cognome dei responsabili, denunciandone l’inettitudine. Le sue accuse sono appassionate e documentate. Ne risulta un ritratto vivido delle difficoltà in cui la classe contadina è costretta a barcamenarsi tra speranze e delusioni: «Qui invece i piani non li fanno i contadini, li fanno i tecnici, a Roma!» È il sud investito dai tentativi di bonifica programmati dal governo e che si rivelano invece fonte di corruzione ed inefficienza. Fiore ne diventa il testimone oculare, e grazie ad una scrittura arguta, caustica, quasi toscaneggiante, sa rendere piacevole la lettura anche in occasione di certi contenuti prevalentemente tecnici o politici: ci sono famiglie che vivono in fosse scavate nella terra, veri e propri buchi; le donne si lamentano; «Non dimenticano che venne qui anni fa l’onorevole Tupini e fu preso anche lui da raccapriccio. – Bisogna fare immediatamente le case per questa gente, – disse, – al più presto. Ma anche lui era del solito mondo, che passa e dimentica.» A Sannicandro, più avanti, troverà ancora abituri orribili: «Ci sono buche da cui non si risale che per mezzo di una fune.»
Gustose e pungenti le pagine dedicate alla festa dei palloni che si tiene a Terlizzi. Essi vengono lasciati volteggiare e salire nell’aria legati l’uno all’altro e dipinti con personaggi, scene di accadimenti, e così via, che si vuole mettere in evidenza satireggiando. Questa catena di palloni è chiamata «la catena della sacralità del potere», giacché tutti vengono trainati dal pallone principale in cui è raffigurato «Domineddio con i fulmini sulla destra e avvolto di nero fumo». È l’occasione per lanciare strali contro l’uso strumentale che taluni politici fanno del cristianesimo per gonfiare, in realtà, le proprie tasche.
Certe descrizioni rendono da sole il senso degli stenti e dei sacrifici della povera gente nel tempo che precedette i lavori di bonifica: «Primi ad uscire alle 4 di mattina, tre ore e più prima del sole, erano i carrettieri, ma il terreno di solito era umido, a novembre, e la guida facilmente inciampava, la lanterna andava in frantumi. Nell’oscurità non si capiva nulla, si girava di qua e di là, andando a finire in qualche altra masseria o dentro un torrente. I cavalli, dinanzi al pericolo, indietreggiavano tremando per paura, volavano frustate e bestemmie, ma quelli, a sentir l’acqua sotto la pancia, si buttavano di lato. Quando, al crescere delle acque, cavalli e carretti non andavano a finire nel mare.»
Fiore non viaggia da solo, in qualche caso è accompagnato da un senatore dei luoghi, don Luigino, «una volta pastore e contadino coi piedi nudi, poi perseguitato perché difendeva gl’interessi della sua classe», e, in altri, da un sindaco, da uno scrittore, da uno studioso, da un sindacalista, da un bracciante e così via. Una vera e propria ricognizione, dunque, che fotografa una realtà esistente nei primi anni ’50 del secolo scorso, e che offre al lettore l’occasione di rivisitare uno dei maggiori sforzi finanziari che lo Stato abbia compiuto per bonificare le terre e migliorare le condizioni di vita dei contadini del Sud. Periodo non immune da ingiustizie e da corruttele dell’Ente Riforma e dei proprietari («ultimi grifoni») a danno dei contadini. Per la presenza di approfondimenti e di dati, il libro assume altresì un valore storico, anche per la ricostruzione che vi viene fatta, soprattutto nella parte finale, delle lotte contadine, iniziate ai primi del ‘900. Così si esprime il bracciante Giovanni Mascolo, di cui poi leggeremo il bel racconto «Il cafone all’inferno», che dà il titolo al libro: «avevamo assistito a un’epopea.»
A proposito di storia, per chi ama la figura di Federico II, l’autore, dopo esser passato da Luceria Saracenorum, così brevemente lo ricorda: «Addio, dunque, Federico, gentile tiranno, altre preoccupazioni ci rapiscono e un più cocente senso del dovere di agire. Non furono del tutto diversi i tuoi tempi dai presenti, se è vero che anche tu avesti da lottare contro i grandi, se fosti abbattuto dalla sollevazione straniera e clericale. Abbastanza lacrime ormai sono state versate sul tuo destino e su quello miserevole dei tuoi figli e delle loro donne, Elena, Beatrice.»
Quando giunge sul Gargano, la bellezza dei luoghi, pur in mezzo alla povertà, rende ancora più elegante e vezzosa la scrittura. Il raccontare si fa leggero, più incline al fantasticare. Ci dimentichiamo perfino che Fiore sta girando la Puglia per un’indagine sulla sua triste realtà. Racconta un contadino: «Se non lo sapete, la volpe è amica e comare della lepre. Dunque allorché comare volpe s’incontra in comare lepre, la prima cosa si mette a scappare, come avesse paura, finge di allontanarsi, non vuol disturbare la sua comarella. Allora la lepre resta lì a guardare come stupita, offesa di quelle maniere di comare volpe, finché l’altra, che le è madrina, quasi è costretta a fermarsi e si volge, torna indietro. Allora tutt’e due si salutano e si abbracciano da vere comari, e così si danno a giocar insieme, si rovesciano per terra, si rotolano, si stringono di sotto e di sopra ora l’una ora l’altra, finché coglie la volpe il momento e afferra la comarella sempliciotta alla gola, l’ha uccisa d’un colpo e per prima cosa si beve quel sangue, si toglie la sete.» Si può vedere, così, quanto la scrittura di Fiore sviluppi ampie possibilità di resa con registri tutti abilmente modulati. Ecco un altro esempio: «sulla Foggia – San Severo non osai disturbare un mietitore, rimpetto a me, che sovrastava tutti per un torso immenso, peloso, con sopra una faccia ossuta, immobile. Il lavoro per lui doveva essere ancora una maledizione: nei suoi occhi grigi non l’aurora di un sorriso, non un saluto alla vita. Guardava nel vuoto, dentro se stesso, e questo vuoto forse gli ripeteva l’esperienza dei secoli, fame e oppressione. Nessuno pensava di rivolgergli una parola: rimaneva solo, contro il mondo tutto. Com’erano soli tutti gli altri.» Sono pagine da antologizzare per la loro perfezione e bellezza. Il capitolo dedicato al viaggio sulla piccola ferrovia circumgarganica è tutto da gustare: «Il vagone mi appare ingombro di donne vestite ancora del severo costume paesano, fazzolettone nero o grigio in testa, gonna lunga e larga, anch’essa nera. Ma le giovani da un bel pezzo si sentono libere e agitano vivacemente il capino col ciuffo attorcigliato, spiegando, soprattutto di domenica, una vivacità da uccelli.» La discussione politica che avviene nel corso di una sosta a San Menaio, in una casa privata, si spoglia della consueta pomposità per divenire colorita e arguta rappresentazione.
Fiore sa tenere sotto controllo il suo stile; lo si riscontra tutte le volte che la tentazione di cadere nella retorica e nel lirismo di maniera si fa pressante: «Alle spalle qualcosa sembra ravvivare il bosco rado di pini in salita, come una voce senza suono, un richiamo diffuso alla dolce vicenda della luce estiva.» Si noti come l’ultima parte sia stata risolta con una modulazione tutta personale e suggestiva. E anche: «Come sarà mai Peschici? Tante volte ne abbiam sognato, tante volte ce l’han dipinta pittori, disegnatori e poeti, tutta fasciata di seta, che alla nostra brama, alla nostra fantasia si è trasfigurata in mito, il mito di una bellezza nuda e primitiva, che si crogiola al sole.», in cui l’eco della retorica è addirittura fugato. Di altro segno, ma ugualmente significativa dell’efficacia e della misura della scrittura, quest’altra descrizione sulla Sfinge di Rodi Garganico: «lo scoglio della Sfinge, alto sulle acque, ostenta la sua inutile bizzarria: il mare s’incarica di sputarle addosso.»
Per non parlare dell’incipit dell’ultimo capitolo «Taranto non vuol morire», che è qualcosa di definitivo, e in cui troviamo, nel parlare che fa delle donne, questo rapido ma compiuto tratteggio: «Una poi, giovine, mi è passata rasente, di volo, sul suo biciclo, vestita come di rosea schiuma, e si piegava dinanzi a coprir con la mano le gambe nude.» Altrettanto efficace la descrizione degli operai di Taranto che entrano all’Arsenale per svolgere il proprio turno di lavoro.
La città, nella parte antica, intricata com’è di vicoli di «appena un metro», dove non batte il sole e dove «una sola donna che incontri basta a non farti passare», appare simile ad una casbah, fitta di povera gente, donne sull’uscio, «bambinetti» in strada: «Un donnone, seduto lì, stringe al seno un bambino miserello, nudo; scuri sono i locali di fianco, gabbie immonde di galline ingombrano la strada, nasse per terra e panni per aria, qualche viso di donna appare e scompare, smunto e secco.»
Quando si arriva all’ultima pagina, e si devono tirare le conclusioni, una delle più importanti e che non ci si poteva aspettare un libro così ricco, così appassionato, il quale riesce a mettere insieme temi ostici per trasformarli in autentica letteratura.