Ray Bradbury, «Fahrenheit 451» – Mondadori, Oscar classici moderni, 2005
Guy Montag, il protagonista di Fahrenheit 451, è un figlio d’arte. Esercita la stessa professione del nonno e del padre, in una cupa America asfissiata da un maccartismo all’ennesima potenza. La prima edizione del romanzo di Bradbury vide la luce nel 1953, quando il clima di sospetto e persecuzione instaurato dal senatore repubblicano Joseph McCarthy volgeva al termine. La storia architettata da Bradbury è figlia del suo tempo, fu concepita in un’epoca che, secondo le parole di Eleanor Roosevelt, «è stata una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo paese abbia mai avuto».
Guy Montag, come dicevamo, è un figlio d’arte, ma il suo lavoro non incarna i valori positivi di una qualunque disciplina che nobiliti il genere umano. Non è uno scrittore, non dipinge, non fa emergere forme dal marmo né compone musica. Insieme ai suoi colleghi percorre la città nottetempo a bordo di un veicolo arancione. Tutti calzano «neri elmetti color coleottero». Nel buio squarciato dalla loro sirena si dirigono veloci verso le case dei sovversivi. Corrono attraverso giardini, sfondano porte, salgono scale a perdifiato. Quando scoprono dei libri formano delle cataste e, schiacciando il pulsante dei tubi lanciafiamme, li inondano di cherosene ardente. In un mondo normale, Guy Montag e i suoi compagni sarebbero i vigili del fuoco ma qui, in questo grottesco mondo liberticida, sono chiamati gli incendiari. Montag, con malcelato orgoglio, dice che il suo «è un bel lavoro. Il lunedì bruciare i luminari della poesia, il mercoledì Melville, il venerdì Whitman, ridurli in cenere e poi bruciare la cenere. È il nostro motto ufficiale.»
Prima ancora di guardare in volto gli abitanti della città, alla ricerca dei pensieri che si annidano dietro i loro occhi, Bradbury ci fa vedere come vivono. Le automobili, mosse da propulsori a reazione, raggiungono velocità elevatissime. Il Codice della Strada impone un limite minimo, al di sotto del quale scattano pesanti sanzioni: «…a settanta chilometri all’ora, andava, e lo tennero in prigione per due giorni.» Qualche anno fa, un amante della velocità estrema mi disse con occhi febbrili che l’autostrada, mentre la divori ai duecentocinquanta all’ora, è solo un sottile nastro nero. Gli automobilisti descritti da Bradbury hanno una visione fugace e nebulosa del paesaggio che attraversano, ne individuano gli elementi grazie al colore delle macchie. «Le case sono per lui delle macchie biancastre, una chiazza verdastra è dell’erba, un’altra marrone vacche al pascolo.» I cartelloni pubblicitari, ai lati delle strade, sono alti decine di metri per garantirne la lettura a una certa distanza, nei pochi secondi prima che scompaiano nello specchietto retrovisore. La celebrazione della velocità, nell’incolore mondo tratteggiato da Ray Bradbury, svela il messaggio subliminale del potere: corri senza sosta, non fermarti a riflettere, non cedere alle lusinghe dell’otium, non contemplare la natura, ricordati che solo il lavoro rende liberi.
In una società che ha abolito la carta stampata, la televisione è una primadonna garrula e di scarso talento. Le immagini, provenienti da schermi ampi come le pareti di casa, mostrano scene dai colori accesi dove si agitano donne coperte di lustrini, mentre prestigiatori a grandezza naturale estraggono «conigli di cinquanta chili fuori da cappelli argentei.» Un palinsesto del genere, unito all’assenza di libri e quotidiani, produce un desolante effetto di omologazione, un autentico deserto culturale. In un dialogo tra Montag e sua moglie Mildred, egli racconta che, nel corso di un’operazione degli incendiari, hanno scoperto e bruciato libri di Dante, Swift e Marco Aurelio. Lei chiede: «Non era un europeo, questo Marco Aurelio?», «Qualcosa di simile.»
Le convinzioni di Montag, tuttavia, non sono granitiche. Una notte, durante l’irruzione in una casa, l’anziana proprietaria rifiuta di abbandonare l’edificio, preferendo morire avvolta nelle fiamme insieme ai suoi libri. Questo episodio segna profondamente Montag, radicando in lui la percezione dell’immenso valore dei libri. Ma il processo di trasformazione da gregario a antagonista dell’ordine costituito si compie attraverso due incontri. La prima persona che incrina le certezze di Montag è Clarisse, una giovane vicina di casa. Lei gli si para dinnanzi una sera e dice: «Ho diciassette anni e sono pazza.» Scopriamo ben presto che, ai nostri occhi, Clarisse è del tutto normale. Ama camminare di notte lungo i viali deserti, fin quando il primo sole la illumina. Nelle giornate di pioggia solleva il viso al cielo, perché adora sentire scivolare le gocce d’acqua sulla pelle. Clarisse pone molte domande. Una, in particolare, s’insinua in Montag come un tarlo nel legno: «Siete felice?»
L’altro incontro rivelatore è quello con Faber, un anziano docente privato della sua cattedra in seguito alla chiusura delle università. Come è facilmente intuibile, Faber parla quasi solo di libri. Ne sviscera tutti gli aspetti, dalla declamazione di poesie all’apologia del libro come oggetto. Con tono trasognato evoca suggestioni care ai bibliofili: «Sapete che i libri hanno un po’ l’odore della noce moscata o di certe spezie d’origine esotica?» Poi la voce di Faber cambia timbro, quando avverte Montag della minaccia rappresentata dal capitano degli incendiari: «Ricordati che questo Beatty appartiene al nemico più pericoloso della verità e della libertà, la bovina mandria compatta e inerte detta maggioranza.»
A questo punto, Montag imbocca una strada senza ritorno. Tutti i legami col passato cadono. Vediamo la sua figura che corre nella notte, tra vicoli male illuminati dove l’ombra trionfa. Montag fugge dal suo odioso lavoro, scappa da un mondo dove la felicità è stata messa al bando. Nel suo viaggio verso la libertà si lascia trasportare dalla corrente di un fiume, poi segue a lungo i binari arrugginiti e coperti d’erba di una ferrovia in disuso. Fin quando arriva nella comunità degli uomini-libro, i vagabondi sapienti. Sono gli intellettuali estromessi dal potere che, a piccoli gruppi, si muovono liberi nell’immensità delle praterie. La letteratura americana ha sempre celebrato i grandi spazi come fonte di libertà: l’individuo non subisce l’angustia di pareti che lo soffocano, il vasto cielo sopra il suo capo è privo di confini. William Burroughs, nel romanzo Terre Occidentali, racconta di uno scrittore che vive sulla riva di un fiume, dentro un vagone ferroviario. Gli uomini-libro sono la più bella immagine che ricaviamo dalla lettura di Fahrenheit 451. Ognuno di loro s’identifica con un libro, quello che ha appreso a memoria. In un luogo dove i libri sono stati fisicamente distrutti, uomini di valore li hanno posti negli scaffali della mente.
Lo scrittore praghese Bohumil Hrabal, in Una solitudine troppo rumorosa, ci spiega perché ogni tentativo di bruciare i libri si riveli inutile. Evocando la figura di Antonin Konias, un gesuita censore che, nel cattolicizzare forzatamente il regno di Boemia, riuscì a far bruciare circa trentamila libri, il protagonista del romanzo dice: «… i Konias di tutto il mondo vanamente bruciano libri, e quando quei libri hanno registrato qualche cosa che vale si sente solo la risata silenziosa dei libri bruciati, perché un libro come si deve rimanda sempre altrove e fuori.»
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