Meccanica celesteMaggiani è lo straordinario autore de «Il coraggio del pettirosso», il romanzo che vinse nello stesso anno di uscita, il 1995, il premio Viareggio e il premio Campiello. Tre premi, li vincerà anche con il romanzo del 2005 «Il viaggiatore notturno»: il premio Strega, il premio Hemingway, il premio della Maiella.

Un narratore che, in una conferenza a Lucca, disse di sé di sentirsi un raccontatore nato, capace di narrare su tutto, cresciuto com’è alla scuola del nonno.

E infatti del narratore ha la curiosità, la facilità del comunicare, lo svolgimento quieto di chi ha tutto il tempo per farlo.

Questo romanzo mi ha incuriosito perché è ambientato in Garfagnana, quella terra splendida ed aspra ad un tempo che ha trovato nel nativo Vincenzo Pardini il suo più alto cantore. Maggiani vi ha abitato per qualche tempo. Da ciò l’interesse, mio ed immagino anche del lettore, a conoscere la sua reazione davanti ad un paesaggio e ad un ambiente dal fascino indiscutibile, insieme primitivo e misterioso.

L’incipit è un omaggio alla sacralità della scrittura. Maggiani ne conosce misticismo e profezia. Come se si segnasse con la croce. Poi va, e ci immerge nella sua avventura.

Il Bresci, detto l’Omo Nudo, «Corpaccione di vecchio fuggitivo, nudo e calvo come se ne venne dai ghiacciai perenni del campo di concentramento di Sachsenhausen», è un montanaro della Garfagnana, dalla personalità a dir poco stramba, ancora mezzo selvatico. È una specie di norcino, che però si limita a macellare i propri animali, a cui dà un nome; ci parla. Ad una scrofa ha perfino messo il nome della donna del narratore, Angela, detta ‘Nita, e per farlo si è vestito in ghingheri e le ha domandato il permesso.

Maggiani, con la parvenza di chiacchierare del più e del meno, a poco a poco ci trascina all’indietro nel tempo, quando vivevano ancora il nonno del Bresci, Amanteo, emigrato in Inghilterra e amico di Oscar Wilde, e del padre Otello, antifascista fuggito in Argentina, che aveva conosciuto Orson Welles.

L’Omo Nudo è come l’orco delle fiabe, di quegli orchi, però, pacifici, buoni, che ogni tanto capita di incontrare, ma che restano in ogni caso sempre degli strani esseri, capaci di colmarci di suggestioni, e perfino di paure.

Maggiani percorre una specie di borderline, di striscia di confine, dove con un braccio e con un occhio stiamo nella realtà e con gli altri tocchiamo un mondo magico che della realtà può anche diventare la chiave di lettura. Come la scatola di latta che l’Omo Nudo regalò al protagonista ragazzo, che contiene il piccolo libriccino scritto in una lingua che allora non conosceva. Un Omo Nudo la cui vita è accompagnata dalla idolatria per un campione di formula 1 del passato, William Grover-Williams.

La Garfagnana percepita da Maggiani è questa: «È la rupestre signorilità di questo popolo di animali solitari, che s’abbrancano solo per le grandi cacce d’autunno e per il calendario dei suoi santi, ma che si vincolano l’un l’altro offrendo solo il proprio odore in pegno.»

Una selvatichezza meno primitiva e violenta di quella descritta dal nativo Pardini, il quale Pardini, forse, per ciò stesso, ne penetra e ne rivolta le viscere. Direi una Garfagnana dolce e nobile nella sua vetustà, quella di Maggiani.

Credo che la Garfagnana, con i suoi miti e le sue leggende, si sia rivelata una terra congeniale alla ispirazione e alla fantasia dell’autore. La sua vocazione, che attinge alle narrazioni orali, trova timbri e colori nuovi, e forse inesplorati. Ogni frangia di realtà va a mescolarsi con il mito, e il mito rivive nell’impasto nuovo della memoria.

Maggiani non può resistervi: «Un ragazzino che viveva con la madre e le sorelle alla Sella di Cerasa aveva preso per padre un castagno di nome Beniamino» e s’infila nella luminosità come a gioirne e a bearsene. La madre, «la Duse», ne è il riflesso. La sua severità, come madre e come maestra, è subito messa in ombra dalla sua bellezza, di cui l’autore ricorda il momento in cui la scoprì.

Attraverso la madre, nascita e morte convivono nella lucentezza di un fulgore mitico. Le quarantotto ore che la madre impiega per far nascere il figlio diventano la metafora della vita come connubio di verità e di illusione, di gioia e di dolore.

La Duse partiva per andare a scuola alle quattro del mattino, perché doveva recarvisi a piedi, come del resto i suoi alunni. Si muniva di «una lampada militare ad acetilene di qualche esercito che non ricordava, per farsi luce nelle selve finché non spuntava mattino.» E portava il suo zaino «americano» caricandoselo probabilmente, ogni tanto, anche sulla testa. Una vita aspra, dura, da montanara. Ma dolce sarà la sua morte, un Sabato Santo: «Dunque ha messo a lievitare le pasimate per fare la Pasqua, si è cambiata, si è messa il rossetto, e ha chiamato la Santarellina perché l’accompagnasse all’ospedale, a morire. Se l’è cavata in un paio di giorni, il sabato sera era già tutto finito.»

La orografia e la Storia diventano tutt’uno. La Pania e il Gruppo Valanga, eroici partigiani che si immolarono per proteggere quelle popolazioni della montagna dai nazifascisti, si rassodano in una unione che diviene paesaggio dell’anima.

Resta sempre in primo piano la incredibile facilità del raccontare. Immaginatevi il tronco di una pianta che a poco a poco metta rami e foglie. La bellezza dello stile di Maggiani sta in questa fioritura. Soffermarsi a riflettere se esso rientri nei canoni letterari è un’impresa assolutamente inutile e vacua. Maggiani è il narratore naturale che affida la sua scrittura ai ritmi spontanei della storia. Vale per lui ciò che valeva per Michelangelo. Come il blocco di marmo grezzo già conteneva in sé la scultura che egli ne avrebbe tratto, così accade a Maggiani. Nella matassa della storia, egli trae l’albero che la racconta e la dipana con la sua fioritura.

Nel romanzo un albero c’è davvero, alto e grosso: è il platano sotto la cui ombra sedeva il poeta Giovanni Pascoli, che aveva casa a Castelvecchio e in dieci minuti, con il suo calesse, giungeva all’Osteria del Ponte, a bere e a giocare a carte con i villici del posto, che lo adoravano.

L’osteria apparteneva ai nonni della Duse, la madre del narratore, e quel luogo, e quel platano, sono incombenti nel romanzo come l’Omo Nudo. Figure che, anche quando il loro tempo è scaduto nell’ordine della narrazione, restano a fare da supporto perenne nell’immaginario del lettore. Trovo nella scrittura di Maggiani la felicità narrativa di un Carlo Sgorlon. Con questa differenza: la narrazione di Sgorlon procede con un ordine logico, preciso; quella di Maggiani fuoriesce improvvisa e imprevista, come la gemma da un ramo.

Nelle pagine del romanzo si affaccia anche la guerra, e quando si affaccia, è vista con gli occhi della Duse, impegnata a servire all’Osteria. Oggi quell’osteria si chiama Osteria del Platano.

Se si eccettuano alcune rievocazioni, come quella terribile dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, non è una guerra affogata nel sangue; la sua crudeltà si avverte in lontananza, come se quei luoghi, che pure hanno visto edificare la Linea Gotica, appartenessero ad un mito superiore ed inviolabile, sia pure macchiato dalla sofferenza. È anche una scrittura mitizzante, quella di Maggiani, grazie alla quale favola e mito sono i corroboranti ineludibili della storia umana. Leggete, solo per fare un esempio, la vicenda della Santarellina, una vecchia che fu abbandonata appena nata «sull’altare di San Lazzaro nella cappella delle monache di Sassi.» O, verso la fine, la tradizione degli «ossetti», i resti poveri del maiale che si mangiano alla vigilia di Natale.

Oppure si legga il ritratto dei tecchiaoli, gli speciali cavatori delle Apuane, a cui dedicò un gran libro, «La valle bianca», Sirio Giannini, nel 1958. O il ritratto del prete guerriero di Vagli, don Gigliante, che arricchisce una serie di personaggi e di tipologie spuntati all’improvviso come polle sulla montagna. O quello di Malvina, la scienziata astrofisica, «alta sì e no un metro e cinquanta», che ha studiato all’estero e ha scritto «Celestial Mechanics. Meccanica Celeste, dunque.» O di suo nonno Aristo Borgioni che a Roggio possedeva una casa dove ha dormito il Papa «mentre consumava le schiene degli asini pontifici per attraversare gli Appennini e chiedere la grazia di una protezione alla regina Matilda.» O il ritratto dello spaccapietre Vittorio: «Quando alza la mazza sopra la testa, senti con le tue orecchie pompare il suo cuore, glielo vedi che sfibra le cuciture e quasi strappa la stoffa della camicia.»

Le donne di Vagli trovano in Maggiani un loro innamorato cantore: «E nel loro andamento ingannevolmente debosciato, mollemente ondulatorio, che, a chi non sa, appare come il sintomo di una lascivia primitiva, ma è invece la cadenza con cui soppesano la loro straordinaria forza. Le donne di Vagli si sono abituate nei secoli a fare le opere che i loro uomini rifiutano per poca paga e troppa fatica.»

Il libro di Maggiani ha anche questo di speciale: l’incipit non sembra essere come quello di tutti i romanzi, esso sembra piuttosto la prosecuzione di una storia precedente, come accade del resto con l’explicit. È, cioè, la sua, una narrazione che aspira ad unirsi alle tante che hanno formato la letteratura universale. Non è poco.

A mano a mano, dagli uomini, dalla guerra che vi si è tenuta, dalle ombre dei morti, dalle montagne dentute «come pescicani» e nude, la Garfagnana prende la forma di un gigante; diviene essa stessa leggenda. La Pania della Croce, il Roccandagia, il Pisanino, il Pizzo d’Uccello, il Grandilice, sono le braccia di una natura che domina e s’impone. La Garfagnana è il mito visibile, eterno, che offre ancora di sé lo spettacolo di una divinità selvaggia, quasi ostile, sebbene pronta a lenirci con la sua magnificenza.

Nel suo germogliare continuo, la scrittura di Maggiani diventa una specie di summa della parola, o meglio, del raccontare. Vi si trova di tutto, tutto contiene, affinché il lettore possa ricevere le proprie personali suggestioni. Quasi una favolosa grotta del tesoro.

Il padre del narratore apparve alla madre, seduta con la Santarellina sul muretto del Ponte di Campia, tra gli americani che giungevano da Lucca, annunciati dal rumore dei loro cingolati: «Ho una fotografia di mio padre e non so dov’è. Ma non importa. Era proprio un ragazzo. Stava dentro la sua divisa di campagna come i ragazzi indossano la loro roba da strapazzo, come un principe; quel modo noncurante e trasandato eppure naturalmente signorile che gli viene dalla gloria di un corpo orgoglioso e gioioso, anche quando sono pieni di fango.»

Da quell’incontro nasce l’amore, ma è un amore troppo breve: «Io so solo che sono nato per un puro e semplice gesto dell’amore. E so che poco dopo mio padre se n’è andato.»

Il narratore è in attesa di una figlia dalla sua ‘Nita, e la storia vi fa riferimento spesso, e sottovoce. In realtà quello della nascita è un tema centrale del romanzo. Come quello dell’amore. Nascita e amore sono avvolti nella penombra del mistero. Sono baluginii, minuti spizzichi di luce che lasciano degli incantamenti e delle ferite.

I due temi danno al romanzo una soffusa malinconia, che non alza mai i toni, e tuttavia riesce a spalmarsi perfino sul mito, così da legarlo strettamente alla terra.

Non è un caso che attraverso la figura del padre – che veniamo a sapere era un soldato brasiliano di origine italiana, Vicenza – la dilatazione dell’universo, che ci porta per degli istanti lontano dalla Garfagnana, in realtà non divide ma unisce il cuore della narrazione in una ancestralità nuda affinché possa appartenere a tutti. Dèi dell’Olimpo, selvaggi dell’Amazzonia, eroi omerici si mescolano nella vertigine di una conoscenza famelica e magica. Il padre ha un sogno: vedere il mare azzurro della Grecia, di cui un prete gli ha parlato da bambino leggendogli l’ «Iliade», e alla guerra è venuto per poter arrivare là e coronare il suo sogno: «Secondo la Duse mio padre è stato schiavo soltanto del proprio sogno. E quella non si chiama schiavitù, si chiama passione.»; «Il sogno di mio padre l’ha portato infine sulla Pania e gli ha dato le ali per sfracellarsi nell’azzurro mare della Versilia». Sogno e realtà, passato e presente, si uniscono nel mito. Il padre come Alessandro il Macedone, del quale «si dice che morisse tenendo tra le mani l’Iliade». E il narratore come il padre. Anche lui vuol morire con una copia dell’Iliade» tra le mani, così che «assomiglierò a mio padre e ad Alessandro il Macedone.»

La Garfagnana di Maggiani ha allargato i suoi confini al mondo intero, nello spazio e nel tempo, estendendo la sua magia ai suoi stessi personaggi.

Essa non è il falco che ha visto la sua preda strisciare sull’erba dei prati e si abbassa per ghermirla, ma l’aquila che contempla una bellezza tanto vasta da essere quasi inaccessibile. Questo, ad esempio, è la Duse, allorché canta la sua canzone d’amore a Chico, quella vigilia di Natale in cui si videro per l’ultima volta: «Lo avrebbe preso, lo avrebbe portato in qualche posto lì sul greto del fiume, lo avrebbe messo a sedere su un bel masso, e lei gli si sarebbe messa davanti a suonare, a suonare finché non si fosse staccata le dita dalle mani.»; «Quella vigilia di Natale del ’44 mio padre aveva visto per la prima volta la neve.»

Una scrittura ed un narrare che non stanno fermi, che germogliano esistenze, consistenze e miracoli. Tenete a mente come la figura del padre, partita in sordina, a poco a poco si innalzi dominante, come la Pania della Croce tra le Apuane. Nessun passo precedente ci avverte. Il padre è sommerso dalla personalità della madre, donna divenuta con gli anni austera, ma dolce nel periodo della sua giovinezza e soprattutto nell’incontro con l’amore. Poi è il padre a crescere e a fissarsi nel mito, con quel suo precipitare sulla via del ritorno dal dente della Pania della Croce: «È si è ritrovato sul dente della Pania della Croce. E di là ha visto quello che andava cercando da tutta la vita. Ha visto l’azzurro mare della Grecia e ci si è tuffato dentro.» Oppure: «Metti invece che è da sessant’anni che sta nuotando nel suo mare di Grecia, e vive in una vecchia casa di tufo su un’isola al largo della Calcidica; e da lì può vedere, se ha ancora buona vista, il litorale su cui sbarcarono le navi degli Achei.»

È il romanzo di un autentico cantastorie. Dove la morte si può al massimo avvicinare, ma non giunge mai. Prevale sempre la vita, la nascita. Non per niente verso la fine troviamo: «Questo è il tempo di metterci a raccontare noi, e diventare i nostri autori preferiti, almeno per il tempo del nostro racconto.»

Che cosa è, infatti, il raccontare, se non un istante di eternità?