Cristina Marginean Cocis, Zero Positivo, Gaspari Editore, Udine 2016, pp. 288, € 16,00€ – Isbn: 978-88-7541-489-4
Cosa può accadere nel cuore di una giovane donna, felicemente sposa e madre, che nel giorno del suo settimo anniversario di matrimonio, incinta del secondo figlio, scopre di essere ammalata di leucemia fulminante?
Il dolore, che si abbatte così fulmineo e inappellabile, è lancinante; tanto più che una madre non è mai solo se stessa; è anche la vita che ha generato e quella che porta in grembo.
Le possibilità di sopravvivenza sono minime. Il reparto dell’ospedale di Udine che l’accoglie è eccellente, ma non ci sono precedenti esperienze di pazienti in gravidanza.
«Nessuno mi aveva mai preparata a un dolore simile» (p. 17).
Il cuore della madre non ha dubbi: prima di tutto la vita del bambino. All’inizio si tratta, dunque, di guadagnare minuti, ore, giorni.
In uno dei primi giorni d’isolamento in ospedale, Cristina si guarda inavvertitamente allo specchio: «La vera scoperta era la mia immagine, la prova evidente della mia condizione: mi potevo vedere così, spoglia di ogni dignità, di ogni resto d’orgoglio [ […]] mi sembrava di vedere solo un corpo senza volto, senza un’identità chiara [ […]] Ero la spettatrice imbavagliata del mio dolore» (p. 22).
Con profonda saggezza questa donna intuisce che c’è molta differenza tra la dignità e un senso dell’onore che in definitiva è orgoglio d’autosufficienza. «Avrei avuto la capacità di incassare con dignità la sconfitta, davanti alla mia immagine che si sarebbe contorta per il dolore?» (p. 26). E intuisce anche che non bastano le sue sole forze per arrivare alla più vera se stessa.
Eccola allora elaborare una «strategia dei ricordi», in particolare quelli di suo padre. Prima della sua nascita, lui – che era stato pilota di caccia – venne perseguitato dal regime di Ceausescu. Ma, probabilmente per proteggere la sua infanzia in una Romania ancora sotto il tallone della dittatura, a Cristina questa vicenda non era mai stata raccontata. Inizia così un lungo viaggio (reale o mentale?) alla ricerca del padre: che è poi una delle più classiche e potenti metafore della vita.
Ricordi che diventano talmente reali da essere rivissuti, nelle notti d’ospedale: «Mi sentivo risucchiata tra i ricordi e i pensieri di mio padre e davvero non sapevo bene se il dolore che sentivo fosse mio o, piuttosto, suo. [ […]] La consapevolezza che c’erano troppe cose che non conoscevo della sua vita, mi spaventava e mi rendeva sempre più insicura» (p. 63).
Il romanzo procede a questo punto su un doppio binario: la protagonista nell’isolamento di una stanza d’ospedale e una Cristina diciassettenne che assiste alla cattura di suo padre, alle torture e che si mette in viaggio verso le sperdute isole del delta del Danubio, dove lui era stato destinato ai lavori forzati.
Ricordi tanto vivi da chiedere e imporre «un ‘passaggio di livello’ [ […]] un cambiamento di mentalità» (p. 182)
Pur con tutte le ansie e le sofferenze che genera, tale ricerca riesce, in effetti, a far emergere con evidenza una realtà che pur – lo suppongo a ragion veduta – già albergava nel cuore di Cristina: «Adesso tutto diventava chiaro: la mia esistenza non era cominciata nel momento della nascita e neppure in quello del concepimento, bensì nel momento in cui mio padre, salito sul Golgota della sua vita, nel posto più inospitale possibile, aveva generato con il suo cuore il suo primo pensiero su di me, chiedendo a Dio la mia vita. [ […]] È questo quello che siamo? Un intenso desiderio dei nostri genitori? Parole, preghiere diventate carne? [ […]] E io è da lì, dal Delta, che ho cominciato ad amare e a seguire mio padre per scoprire la mia vita? Per scoprire il mio sorriso nel suo cuore, il cuore che attraverso l’amore, mi ha generato?» (p. 275).
L’autrice/protagonista, condotta dalla tendenza tipicamente femminile di interiorizzare e scavare dentro di sé fino ad arrivare «alla carne viva», ci offre una lettura dell’identità molto profonda, che non può non coinvolgere in maniera toccante.
E, contro ogni spiritualismo sempre rinascente, ci dice qualcosa di grande sul corpo: «Il corpo umano, meravigliosamente immagine e somiglianza di Dio. [ […]] La mia carne era il tramite più affidabile e più diretto per le mie emozioni, custode e mediatore delle più intime e speciali sensazioni. In definitiva, tramite questo involucro, che tanti considerano cenere o carcassa, ci viene permessa l’eternità. Perché l’amore non è altro. E che duri un secondo, un giorno o una vita, l’amore si chiamerà comunque eternità. [ […]] Questo intermediario tra noi e Dio è un dono e non una prigione, la carne non è debole, non è inutile; è il nostro modo più bello di toccare davvero Dio» (p. 243).