Piove all'insùDi Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra

Leggendo “Piove all’insù” (Bollati Boringhieri), scritto da Luca Rastello, una persona che è nata nel nostro stesso anno, ci siamo resi conto che parlare di “generazioni”, definirne tratti comuni, caratteristiche e modi di pensare non è sempre una banalizzazione, una schematizzazione.

Si aveva la stessa età quando esplose la bomba a piazza Fontana, quando l’uomo sbarcò sulla Luna, quando Gigi Riva segnava i suoi gol, quando morirono Pinelli e Calabresi, quando fu rapito Moro; si sono viste le stesse dirette televisive, si sono lette le stesse scritte sui muri, si sono fatti scioperi e “seghini” negli stessi giorni.

È la generazione di chi, troppo piccolo, nel ’68, ha vissuto, da spettatore (come noi), da comprimario (come Rastello) o da protagonista, gli anni della strategia della tensione, delle lotte sociali, dell’eroina e del “riflusso”.

Ma nel romanzo non c’è l’abusato compiacimento autoreferenziale che limita troppo spesso i romanzi generazionali: l’io narrante racconta se stesso per raccontare la storia di quegli anni ad una persona che, in nome delle magnifiche sorti della flessibilità, ha appena perso il lavoro, e per comprendere che, forse, le radici della situazione attuale sono piantate proprio in quegli anni “irrisolti”.

Ha scritto Goffredo Fofi a proposito di “Piove all’insù”: il romanzo è appassionante per capacità e ricchezza di racconto e di ricostruzione di personaggi e di storie, ma è anche coraggioso e provocatorio per la sua sincerità e per l’ostilità ai modi menzogneri con i quali la parte “emersa” della generazione ha continuato a farsi bella e a occupare il presente.

La scrittura è densa, evocativa, vibrante e originale; la narrazione procede volutamente a salti, per “schizzi”. Unico limite, forse, l’eccessiva presenza di passaggi ellittici, poco comprensibili se non si ha un’approfondita conoscenza degli avvenimenti di quegli anni.

Intervista

L’intervista a Luca Rastello, originariamente pubblicata nel sito http://www.fantascienza.com/, prende particolare spunto dalla presenza nel romanzo di riferimenti fantascientifici.

Domanda: La fantascienza percorre il romanzo come un fil rouge a partire dall’incipit dove il protagonista decide di consolare la sua donna appena licenziata raccontandole di quattro “Urania” che non esita a definire sia “libri veri, con dentro i valori e i sogni di quel tempo” sia anche simili ad “un tipo che non capisci più, che t’imbarazza, ma che ogni tanto sarebbe bello rincontrare per fare quattro chiacchiere” e da questi “Urania” scaturisce la memoria di quegli anni, del suo crescere ed esplorare vita, sesso, impegno politico e conflitto generazionale. Ed è di questo che vogliamo parlare con l’autore, iniziando proprio dalle copertine.

Per quelli che sono nati negli anni Sessanta gli “Urania” bianchi con le copertine di Karel Thole sono stati la fantascienza, che in qualche modo ci ha regalato l’uscita di sicurezza per sopravvivere negli anni.

Sì, sono state un assillo della mia infanzia: avevo uno zio giovane che leggeva fantascienza in dosi massicce e accumulava a casa della nonna con cui viveva pile e pile di “Urania”. Bene, a me facevano una paura terribile quelle copertine, non so dire perché ma ho scoperto che qualcosa di simile è accaduto anche ad altre persone che conosco. Per alcuni l’effetto è stato quello di allontanarli per sempre dalla fantascienza, a me temo abbiano invece instillato una sorta di curiosità morbosa e un po’ inorridita. Un po’ come quella che spinge gli adolescenti alla passione per l’horror (che tra l’altro io non ho mai avuto) o a certe esperienze psichedeliche che richiedono di invertire la percezione, trasformando in piacere qualcosa che inizialmente respinge e disgusta. Per fortuna, io ho esaurito in gran parte questa esperienza nel riappropriarmi delle (splendide!) copertine di Thole, senza bisogno di cercare troppe emozioni chimiche. In ogni caso, l’effetto che facevano quei disegni era di indicare altre possibilità sotto il mantello della realtà quotidiana, di alludere ad altro da quello che è normalmente percepito. Una specie di iniziazione all’universo simbolico che precede ogni avventura narrativa.

Domanda: Proseguiamo per associazioni… diciamo: “fantascienza”…

E a me viene in mente la frase “Un altro mondo è possibile”, anche se associata a un significato più sfuggente e ampio (magari a costo di superficialità) di quello dello slogan new global. Poi, sempre per associazioni, potrei dire “mele renette” (le mangiavo leggendo “Urania” a pancia in giù e le due sensazioni, fantascienza e renette, sono per me ormai inscindibili, una richiama sempre l’altra) e poi anche “rivoluzione”, per le ragioni che racconta “Piove all’insù”, per via di un’epoca in cui sembrava davvero possibile rovesciare e cambiare ogni cosa, e nell’attesa leggevamo fantascienza, nutrivamo la nostra critica del mondo con la fantasia infinita delle space opera o della psichedelia alla Sheckley.

Domanda: Tra gli autori che vengono fuori nel romanzo ci sono Trout, Sheckley e Asimov, sono solo questi i tuoi preferiti o ce ne sono altri?

Questi innanzitutto, certo, ma anche altri non citati. A partire da Ursula LeGuin, di cui però non ho seguito l’evoluzione fantasy, da Michael Moorcock che ha anche lui avuto un’evoluzione in quella direzione, ma che trent’anni fa proponeva scenari allucinati e allucinatori che mi sembravano innovativi e irritanti come volevamo essere noi, piccoli ribelli confusi. E anche Silverberg, uno dei più radicali. E Dick, ovviamente, che sta fra i grandi autori del Novecento, indipendentemente dal genere. “Ubik” è una delle scoperte più sconcertanti possibili per un lettore dilettante come me. E poi mi sono sempre piaciute da matti le grandi space opera, i kolossal alla Heinlein o alla Van Vogt, adoro i balzi nell’iperspazio e le battaglie spaziali, anche le più ingenue, ma senza dimenticare romanzi di altra ambientazione come “Gli Uomini Nei Muri”, di William Tenn, una vera parabola della vita moderna. Mi sono molto divertito di recente con un libro intitolato “Universo Incostante” di cui non ricordo l’autore [Vernor Vinge, ndr], ma che dava soddisfazione a tutte queste passioni un po’ perverse…

Domanda: E torna il discorso “perversione”, “irregolarità” nei confronti del leggere e desiderare fantascienza, una sensazione che per anni ha accompagnato tanti di noi lettori e appassionati… ma perché?

Mah, non so. Certo che a lungo chi ha amato la fantascienza lo ha fatto quasi di nascosto, lo ha coltivato come un vizio. Penso ancora a quel mio zio di cui ti parlavo prima: lui era quello “strano” di famiglia, guardato un po’ di sbieco dalle sorelle borghesi e il suo fascino maledetto, per me bambino, emanava anche da quelle letture etrodosse. C’era una specie di anatema, tipo “Vabbè, se proprio vuoi leggi quella roba, ma almeno vergognatene un po’”. Stavano sulle stesse bancarelle dove gli uomini soli andavano a cercarsi emozioni erotiche a buon prezzo… In fondo anche noi appassionati abbiamo recuperato soltanto a posteriori, tornandoci su nei decenni successivi, la consapevolezza della carica di critica sociale e di profondità (oltre che di qualità letteraria) di tanta fantascienza anni Settanta. Magari per noi dei Settanta è anche uno strascico della soggezione che provavamo nei confronti dei “militanti severi”, quelli che leggevano Lenin, per capirci…

Domanda: “Anni di Piombo” – se vogliamo accettare questa definizione – e fantascienza, un po’ anche come psichedelia, non so perché ma vengono in mente i Pink Floyd… la musica e i romanzi, erano portelli di salvataggio per scappare o supporti vitali per andare avanti?

No, no: sicuramente per andare avanti. La frase “anni di piombo” per me è sempre stata come il coperchio, plumbeo appunto, di una bara calato su quegli anni, sepolti vivi in una definizione impropria e impoverente. Non erano anni da cui fuggire, erano anni in cui eravamo convinti di costruire, e musica, romanzi, ogni operazione di tipo fantastico, servivano a rafforzare le impalcature di quei nostri sbilenchi cantieri di un mondo diverso. La rimozione è venuta dopo, la tragedia dell’eroina di massa, del terrorismo e, successivamente, la voglia ideologica, frettolosa, anche opportunista di rimuovere il passato, liquidarlo come un incubo, un errore, una follia di gioventù. Chiuderlo in definizioni limitative, appunto. E magari stare alla larga dagli “Urania”, residuo imbarazzante di certe libertà mentali che dopo ci apparivano ingenue, costretti come siamo stati — come siamo — al realismo edonista del “tutto qui e tutto subito” dell’iperconsumismo.

Domanda: Rievochiamo un aneddoto ad hoc. Tanti anni fa alla Convention di Fanano (Modena) ci fu un incontro tra due esponenti del fandom che dopo aver discusso amichevolmente di romanzi e film ad un tavolo, tra birra e stuzzichini si resero conto di essersi picchiati in una manifestazione durante gli “anni di piombo” perché erano di schieramenti politici diversi, eppure…

Eh, anch’io mi ricordo che strano effetto mi faceva sapere che tanti estimatori della Science Fiction venivano da un ambiente culturale e politico opposto al mio. Mi ricordo alcune dispute ideologiche e certi ostracismi nei confronti di critici e antologisti che credo fossero anche in gamba, come Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris, bollati come “fascisti”. Non mancava, a sinistra, anche chi ti diceva che eri un po’ fascista anche tu, se leggevi quelle robe lì. Pensa all’ostracismo verso “Il Signore degli Anelli”…

Domanda: Comunque la fantascienza non è solo romanzi in “Piove all’insù” ma anche film come “Il Pianeta Proibito” nonché un modo di interpretare la realtà, come nella fine del capitolo “Teorema degli zeri”. Perché?

Forse un po’ per tutte le cose che abbiamo detto finora, per il suo essere finestra su altre possibilità e critica radicale dell’esistente, ma allergica ai dogmatismi. Forse solo perché erano le letture degli anni della prima formazione e inevitabilmente hanno dato il loro profumo alla mia crescita. Forse perché guardare la realtà attraverso uno specchio deformante è quello che facciamo ogni giorno, e lo specchio della fantascienza è più sincero, denuncia sé stesso per quello che è, rivela immediatamente il proprio carico di finzione. A differenza degli altri specchi deformanti di uso quotidiano: ideologia, amore per il potere, interesse economico o che altro.

Domanda: Sarà anche scontata, ma la domanda va fatta: secondo te la fantascienza (e parliamo degli autori che abbiamo nominato) è un sottogenere oppure è letteratura?

Non so rispondere. Mi viene da dire che da quando Omero ha fatto agire gli eroi dell’Iliade per decreto e volontà di dei capricciosi e bugiardi, facendo di questi dei (in cui non credeva) i veri snodi della narrazione, ogni narrazione è per forza narrazione fantastica. Il primo libro dell’uomo è racconto fantastico, ed è la condizione di possibilità di tutte le storie che sono state raccontate dopo. E quindi non si può ridurre il fantastico a un sottogenere, pena l’incomprensione di tutta l’avventura del raccontare. Non solo, ma la fantascienza è a sua volta un insieme inesauribile di generi e di modalità narrative variabili e imprevedibili. A differenza, invece, di quel codificatissimo e rigido mondo che mi sembra il noir, genere sì, terribilmente di moda, anzi quasi obbligatorio: se vuoi essere pubblicato in Italia devi quasi per forza scrivere un noir. Ma questo è un altro discorso.

Domanda: Il romanzo si chiude con un rebus irrisolto, una delle possibili risposte è: la fantasia… che ne pensi?

Penso che è una bellissima risposta. Ma non è quella giusta: la risposta èiIl principio femminile. La donna. È un indovinello tratto da un manuale alchemico del secolo scorso, “Praetiosa Margarita Novella” e distingue il principio femminile come custode del tempo naturale, della riproduzione, della trasmutazione possibile, da quello maschile legato alla produzione, al dominio, al possesso.

Domanda: Quando leggevamo gli “Urania” la fantascienza ci aiutava a sognare, sperare, lottare per una vita migliore, oggi impera il fantasy, forse più una scappatoia da una realtà che non riusciamo a cambiare, eppure grandi vecchi autori come Ray Bradbury dicono ancora che “un buon futuro è possibile” sei d’accordo?

Sono abbastanza d’accordo sulla definizione che date del fantasy, genere che mi attira di meno (anche se in “Piove all’insu” ha un ruolo forte la lettura de “Il Signore degli Anelli” con la sua Terra di Mezzo pensata come un luogo dove avrei voluto e quasi dovuto vivere). Io penso anche che un buon futuro è possibile, ma che richieda un lavoro molto faticoso e per certi versi anche sgradevole nei confronti delle tendenze politiche dominanti…

Questo e altri romanzi sugli “anni di piombo” sono analizzati da Demetrio Paolin nel saggio Una tragedia negata disponibile gratuitamente su Vibrisselibri, http://www.vibrisselibri.net/.

Per acquistare una copia di “Piove all’insù”: href=”http://www.webster.it/BIT/8833916618/ASI/337441.

Questa intervista, presente anche nella sezione di Liber Liber dedicata alla scuola (http://spazioinwind.libero.it/liberscuola/), è stata pubblicata sul “Falco letterario” anno XXV, n. 4, Edizioni Artemisia (http://www.artemisiacontemporanea.it/).