Inutile sarebbe indagare e inoltrarsi nella logica di qualsivoglia guerra se non rintracciarla nella follia di chi stabilisce le sorti di individui destinati a precipitare nell’instabilità storica, fisica e coscienziale, a partire senza una motivazione plausibile e a nulla anelare tranne che a cercare la propria salvezza a qualsiasi costo. Ma alla guerra non c’è fine: devasta la normalità, le emozioni e i sentimenti, trasmuta ogni vincolo spirituale, sancisce il trionfo della disumanità, sventra ogni tentativo di ricostruirsi con fantasmi che inutilmente tentano di svanire, di rimuoversi, si appropria per sempre del corpo, è un attraversamento di dolore che assiste all’annientamento della vita insieme al sovvertimento dei valori.
Una terribile eredità di Gordiano Lupi (Perdisa 2009) si sgrana pagina per pagina sia in immagini dure e distaccate, in una impartecipazione quasi da terza dimensione, sia in aperture a grandangolo nel cui alternarsi assiduo risiede l’originalità dell’autore.
Ogni parola rimanda al cuore la sofferenza del protagonista nel perdurare dell’orrore, lacerante, senza rimedio e senza respiro. L’animo e lo sguardo dello scrittore sono al di qua di qualsiasi giudizio o interpretazione; mai omologazione dunque, ma identità precise e irripetibili, sofferte, «persona» nella sua unicità è il protagonista, delineato attraverso un realismo forte a tratti da reportage giornalistico, e al contempo accompagnato da uno scrivere riscaldato dalla pietas. L’esperienza reale trasmuta in quella scritturale, luogo d’elezione in vista della memorabilità degli eventi.
Lo stile del romanzo, simbiotico al contenuto, è controllato da una sapiente paratassi e da una punteggiatura che si sgretola mimando, reificando quasi, i ritmi dell’orrore e del dolore; arrivano al lettore input parossistici nella forza espressiva delle immagini che sempre più intensamente comunicano l’avvertimento della catastrofe. «La terra non ce la faceva più a sopportare il peso dei suoi morti e quasi rifiutava di ingoiarli e di dargli sepoltura».
Mi sovviene Ungaretti in Non gridate più; ma nella guerra di questo racconto, dove il protagonista resta fermo alla fase della pena, mancano la fede e la tensione a un altrove mistico, il riscatto, la pace, la possibilità di sollevarsi da un’esistenza stagnante nel tragico: «Dove esiste la fame non esiste la vita»; «Qualcuno comprenda che non c’è fine all’orrore».
Mi sembra che ciò voglia dirci questo avvincente libro. Trovare come unico sfogo la soppressione di innocenti vite per cibarsi della loro carne altro non è che lo stigma enfatizzato di una guerra che segnerà un ritorno nella propria terra con un’eredità raccapricciante: «Per tutti sono un povero pazzo e posso dire quello che voglio». La pazzia quindi, l’insania come unica libertà anche se si sta marcendo dietro alle sbarre. L’antropofagia, paradossalmente, nell’introiezione dell’altro potrebbe essere letta come atto di amore e di lutto (cos’altro è l’elaborazione del lutto se non l’introiezione del soggetto dell’abbandono?). E in sequenza partono le immagini che scandiscono la storia del protagonista, stringono l’animo e ci fanno partecipi di quel dolore presente e della retrospezione.
L’irreversibile itinerario verso la follia nella disseminazione della propria individualità-identità indurrà il protagonista a coniugare insania e pena, capacità di uccidere e al contempo di continuare ad amare, e in tal senso Gordiano Lupi finisce per addentrarsi negli interstizi dell’umana psicologia quale buio perenne: come altrimenti coniugare amore e morte visto che sono isolatamente irriconoscibili? Nel protagonista più che a un inaridimento spirituale si assiste al pronunciamento della sovrana indissolubilità di amore e morte. E il suo responso di reduce finirà per vaticinare tale verità-enigma, in una visione tutt’altro che contemplativa del vero.
Le onde del mare si frangevano sul muro in granito, screpolato e distrutto in più punti […] dove si faceva più forte il sapore del mare, i palazzi colorati di rosa e di giallo mostravano alla forza del vento un antico splendore […] di quella regione ricordo solo un deserto infinito […]
Le scimmie ci fanno troppa pena […] gridano come bambini disperati […] Un pianto stridulo. Terrorizzante. Muoiono per il dolore […] il passato tornava come una scure selvaggia a decapitare i sogni […] compresi presto che con quell’incubo avrei dovuto convivere per tutta la vita […] bevo quel sangue a lungo poi stacco le labbra ho paura che i ragazzi comprendano quello che mi sta accadendo […] io non sono un vigliacco, scappo per amore […] dal deserto dell’Angola si torna, non si torna da quello dell’anima. È anche questo la guerra; non poter disinnescare una bomba che si ha dentro.
Il figlio dagli occhi come quelli di Clara c’è, lasciato, ritrovato, lasciato di nuovo […] gli vuole bene, lo va a trovare e rende più accettabile la follia. L’eredità è lì, in un pacchetto ben legato con le ultime notizie di un articolista del Granma, un pezzo di carne ben salato dal profumo dolciastro». Emblematica oblazione: paradigma e lascito di dannazione o di reciprocità d’amore.