Morto all’età di 35 anni (a Firenze il 26 gennaio 1960) in seguito ad un’operazione chirurgica, l’autore era nato a Seravezza (Lucca) nel 1925. Autodidatta, prima di diventare scrittore esercitò molti mestieri: meccanico, renaiolo nel fiume Versilia, bracciante agricolo nella pianura Padana e infine informatore farmaceutico. Nel 1953 esce per Mondadori, nella prestigiosa collana della Medusa, «Prati di fieno», una raccolta di racconti ispirati alla sua esperienza di bracciante agricolo, che vinse nel 1956 il premio Firenze; seguito nel 1958 dal romanzo «La valle bianca», ambientato tra i cavatori delle Alpi Apuane, che, sempre nel 1956, quando ancora era inedito, aveva vinto il premio Hemingway. Postumo uscirà nel 1971, per l’editore Massimiliano Bono di Bologna, «Dove nasce il fiume». Collaborò a giornali e riviste e si interessò anche di cinema. Un suo documentario sui cavatori di marmo, intitolato «I cavatori», vinse, l’anno dopo la sua morte, nel 1961, il premio «L’Airone d’oro» di Montecatini Terme.
Siamo in una terra, l’Alta Versilia, da dove si è soliti emigrare in cerca di fortuna. La vita in quei paesi è dura, disoccupazione e miseria la fanno da padroni. Come non ricordare «Pane duro» di Silvio Micheli, uscito nel 1946 e ambientato negli stessi luoghi versiliesi?
Stefano se n’era andato in cerca di una vita migliore, ma ritorna. Ha raggranellato un po’ di denari e ha sentito la nostalgia di casa. A suo cugino Giulio, più giovane di lui, confida che vuol mettere su un’attività, un agrumeto, e fermarsi in paese per sempre.
Giulio intuisce che ciò che cerca, in realtà, è un po’ di pace, dopo anni passati faticosamente in città. Il terreno da acquistare è posto su di una collina davanti al mare. Il cugino Giulio «guardava due ragazze in leggeri abiti primaverili che zappavano in una vigna poco distante.»
L’avvio del romanzo ha un’intonazione dolce, quasi pastorale, con gli echi di un sogno che alberga in ciascuno di noi: il desiderio di riposarsi, di dire basta ad una lotta quotidiana che raramente ci vede soddisfatti e vincitori. Il cugino vorrebbe invece che riaprisse una vecchia cava di proprietà di Stefano, ma quest’ultimo gli risponde: «Ora sono già vecchio, non ho più voglia di niente e non ho più nessuna capacità.» È un uomo disarmato, che ha deciso la resa; la voglia di lottare si è tutta consumata nelle delusioni ricevute. Non altrettanto accade al giovane cugino, il quale, disoccupato, vede nella riapertura della cava la possibilità di un lavoro per lui e tanti altri del paese. Sono gente povera a cui restano solo le braccia per sfamarsi. Se nessuno vuole il lavoro delle loro braccia, la loro vita è finita. Giulio combatte per non essere sconfitto.
Il ritmo narrativo, lento e suadente, ci sta conducendo verso un terreno di lotta e di scontro con la vita. Giannini vi si incammina gradualmente, accompagnandoci nel percorso in un confronto tra sogno e realtà; tra desiderio di pace e lotta per l’esistenza.
Ecco le parole che segneranno la svolta di Stefano: «forse era la Versilia che gli tornava nel sangue, l’Alta Versilia, quella dura, quella che a sera non ti lascia forza nelle braccia, che ti fa soffrire per una giornata di pioggia perché non puoi lavorare, che ti fa imprecare quando la cattiva stagione, la neve, arriva troppo presto.» Suo padre, suo nonno, il suo bisnonno erano stati padroni della cava, lavoratori insieme agli altri. Sale in Stefano il desiderio della sfida: «riprovò per un attimo in tutto il corpo una vitalità che mai più di allora vi aveva avuto».
La scelta è compiuta, e si apre al lettore il mondo dei cavatori, la Valle Bianca: strade polverose e irte, camion che transitano colmi di blocchi da portare in valle, il sole che batte a picco sulle cave. Donne intente al loro lavoro, in silenzio, come Iolanda e Alda.
Mattia, uno dei compagni di Stefano, raffronta quel lavoro che si svolge sotto il sole a quello che ha svolto all’estero nelle miniere, dove gli pareva di essere un topo, prigioniero del buio. La sera si ritrovano a cenare nella trattoria di Michele, dove lavora anche Alda, sua figlia, e lì trascorrono la notte. Giocano a carte, discutono. A casa, a Seravezza, vanno una volta alla settimana, la domenica.
Quella che si svolge lassù, di sera, è una vita intima, in cui la quiete dal lavoro apparecchia ricordi e sentimenti. Giù si vedono le luci del fondovalle. Qualcuno esce dall’osteria a passeggiare, quando la stagione è buona, e nel silenzio e nel buio culla nella mente i propri sogni. Succede a Ranieri, che ogni tanto va a trovare Iolanda, che l’aspetta sull’uscio di casa, e nel buio, pare un’ombra.
L’amore affianca la dura vita; Giannini ne fa la luce che rischiara i momenti di pausa e di solitudine. Se Ranieri frequenta – ormai lo sanno tutti – la vedova Iolanda, anche Stefano avverte brividi ogni volta che compare Alda, che tutti trovano bella e intelligente. Ma Stefano sa di essere assai più vecchio di lei. Suo cugino Giulio, invece, è un bel ragazzo, molto più giovane di lui, e coetaneo di Alda. L’amore di Stefano si colora di malinconia; quello di Giulio è più spavaldo. Alda diventa la gemma luminosa caduta in quei luoghi abituati solo a sopportare la fatica e la calura del sole. L’amore, se dà i brividi, è anche tenero, dà calore, conforto, compagnia.
Giulio stravede per il cugino; non immagina che pure lui si sta innamorando di Alda. Ammira le sue doti di lavoratore e la sua intelligenza. L’autore ci fa intuire, proprio mentre fuori è in corso un violento temporale con tuoni e fulmini e gli operai sono costretti a restare in camera senza poter andare alla cava, che nell’aria c’è un’altra turbolenza in arrivo, quella dei sentimenti: «I suoi uomini non si accorgevano di quello che passava dentro di lui.» Le avvisaglie ci sono tutte. È Stefano il primo a rabbuiarsi e a sentire la gelosia. I rapporti con il cugino si fanno tesi senza che quest’ultimo sulle prime si renda conto del perché.
In questo paesaggio duro e desolato sono i sentimenti, invisibili, a fare la parte del ferro elicoidale nelle coscienze. Incidono, scavano, portano alla luce i segreti.
«Siamo fidanzati» dice Alda al padre Michele, quando la vede rientrare insieme con Giulio. Michele si rabbuia, avrebbe preferito un fidanzamento con Stefano. E una domenica sera che Alda e Giulio stanno seduti fuori dell’uscio della trattoria, Michele si intromette e rivela al giovane che anche Stefano è innamorato della figlia. Per Giulio è un colpo al cuore. Venera a tal punto il cugino che ne resta sconvolto.
La natura continua a fare il suo corso, con le sue voci e con i suoi silenzi, con la quiete delle sue meraviglie, con le asperità della sua bellezza, mentre il cuore dei tre protagonisti vive un tumulto che li acceca e li separa da tutto ciò. Soltanto l’amore può avere spazio, ora, nel loro animo, quell’amore complesso che lega insieme sentimento e passione: esso li occupa e li frastorna.
Con una scrittura leggera ed agile, trasparente proprio come l’acqua di un torrente di montagna, il lettore è messo nella condizione di scorgere ciò che, appena sotto la superficie, viene trascinato dalla corrente. A Giulio «mai gli era venuto in mente che il cugino potesse essere innamorato di Alda.»
Ma è alla montagna bianca di marmo che l’autore affida lo scioglimento del dramma. Sono luoghi, quelli dei cavatori, dove la morte sta in agguato, le buccine stanno li pronte a diffondere nella valle il lamento funebre di una disgrazia: «Portò la buccina alla bocca. Ne uscì un lamento, un lamento prolungato che metteva il freddo nelle ossa.» Un suono che si diffonde e penetra nelle altre cave, sui monti vicini, nei paesi. Tutti escono fuori, tremano, si avviano lungo i sentieri che conducono alla cava da dove per primo è giunto il suono della buccina. A chi sarà toccato questa volta di morire?
Giannini è dolce nel dolore; chiama a raccolta la natura e l’umanità. Lo sconosciuto che muore siamo un po’ tutti noi, come aveva scritto tanto tempo prima, vissuto tra il XVI e il XVII secolo, il poeta inglese John Donne: «Alda al primo suonare della buccina aveva abbandonato tutto ed ora correva anche lei insieme alle altre.»
Lungo la strada le dicono che è morto un seravezzino, non sanno ancora il nome. Ha paura, è agitata. Si fa aiutare da Iolanda a salire sul carrello della funicolare, adibito solo al trasporto delle pietre; è vietato alle persone, ma Iolanda chiude un occhio, teme anche lei che la disgrazia abbia colpito Giulio; avvia il carrello e Alda sale con il cuore in subbuglio. Giunta in cima prende il sentiero e incontra gli uomini che portano la barella e dietro di loro gli altri cavatori. Non scorge Giulio: «Esaminò i volti che si erano fatti di pietra. Non vide quello che cercava.» Stefano gli va incontro, la sostiene, Alda « si sarebbe volentieri afflosciata al margine del sentiero, e restare lì, per sempre.»
La madre di Giulio, Assunta, vuole uccidersi. Aveva già perso il marito, si lamenta con Dio.
Giannini ci presenta la morte come un avvenimento ordinario della vita, che tutti attendono, ma nessuno accetta. La morte sconvolge amori e passioni, tuona e rimbomba intorno a sé: «Ha tentato di gettarsi dalla finestra. Ci sono in tre a tenerle bada.»; «È inutile che resti al mondo io sola, a far cosa?» La morte, una volta che è entrata nel nostro corpo, è negli altri che si trasforma e diventa disperazione e follia. Sono attimi in cui il legame con il mondo si interrompe, e si resta veramente soli. Il dolore si attenuerà solo nel momento in cui sarà raccolto e si distribuirà agli altri. Quando Assunta si accorge della presenza di Stefano, gli corre incontro e lo abbraccia fin quasi a soffocarlo. Allorché entra nella cameretta dove il corpo del figlio è stato deposto, lo fa accompagnata da Stefano, «si acquetò, serbando solo nello sguardo una sofferenza angosciosa.»
In Giannini non manca mai il culto per la natura; essa non è crudele, nemmeno nella disgrazia; osserva e partecipa allo stesso modo degli uomini; la pioggia e il sole sono i suoi occhi. È una natura schierata dalla loro parte; non può prevenire le loro disgrazie, è impotente, ma ne resta addolorata.
Lassù nel cimitero sopra la collina, ci sono tanti morti a causa di disgrazie accadute sulle cave. I fiori di Giulio serviranno ad adornare per qualche giorno anche le loro tombe. Stefano parla dentro di sé con Giulio, già calato nella fossa. Sono parole sobrie, ma piene di tenerezza: «Eravamo due buoni cugini, noi. Solo un giorno, in tutta la vita, ce l’ho avuta con te. Ma nemmeno un giorno intero, forse un’ora soltanto.»
A Giulio aveva regalato l’anello di fidanzamento da donare a Alda; l’aveva comprato per sé un giorno ormai lontano. Era giusto che Giulio, più giovane di lui, sposasse Alda. Lui ormai era vecchio. Si era convinto che andava bene così. Giulio era stato in pena per giorni e giorni, ma quel dono lo aveva rasserenato.
Nel 1958, quando uscì questo romanzo, Giannini aveva 33 anni, un’età giovane ancora; eppure la sua scrittura è quella di un uomo maturo, penetrato già nei meccanismi della vita, che evidenzia e analizza con profondità. Ci si domanda che cosa avrebbe potuto scrivere ancora, se la morte non lo avesse colpito appena due anni dopo.
Nel romanzo c’è un’idea guida, che emerge lucidamente nelle parole con le quali la vedova Iolanda riferisce ad Alda un colloquio avuto con il suo spasimante, Ranieri. Iolanda aveva detto a Ranieri che le pareva che lui, Stefano, Giulio e i compagni del gruppo fossero diversi dagli altri. Ranieri si era messo a ridere e aveva risposto: «Sarà perché noi non abbiamo un padrone, e siamo come un muratore che, dopo aver lavorato tanto per gli altri, tira su una casa che è sua: c’è più soddisfazione.» È l’idea socialista che è nel cuore della Versilia e dei suoi narratori.
Quando si troveranno in difficoltà, e avranno bisogno di soldi, Alda li chiederà al padre diffidente con queste parole: «Una famiglia, erano, ed io mi sento di far parte di quella famiglia.»
Sarà la tenacia della ragazza ad evitare la sconfitta.
Ed anche questa nota positiva la dice lunga sulle rivendicazioni e sulle emancipazioni sociali che questo romanzo ha inteso rappresentare.
Una vecchia dirà ad Alda: «Non sei soltanto bella, sei qualcosa fuori dell’ordinario, ma dentro, nell’animo. Per tanto tempo si parlerà di te, quassù. Le madri ne parleranno alle figlie. Gli uomini ti ricorderanno, nelle lunghe sere d’inverno.»