Ecco un autore pressoché dimenticato. Vale la pena riportare i cenni biografici che appaiono nella quarta di copertina dell’edizione 2001 curata dalla ComEdit 2000:
«Eros Sequi nacque il 15 ottobre del 1912 a Possagno (Treviso) – è il paese dove nacque anche, nel 1757, Antonio Canova (Nda) -. Da bambino si trasferì in Toscana, compiendovi tutti gli studi, compresi quelli universitari. Si laureò nel 1934 alla Normale di Pisa. Lavorò al Ministero dell’istruzione e fu insegnante in scuole del Dodecaneso. Trasferito a Zagabria, ricoprì il ruolo di docente presso la cattedra di lingua e letteratura italiana e di responsabile dell’Istituto di cultura italiana. Dopo l’8 settembre del ’43 aderì al movimento partigiano. Dal 1944 ebbe incarichi politico-culturali, fondando e redigendo vari fogli partigiani in lingua italiana, ultimo dei quali “La Voce del Popolo” che diverrà il quotidiano della minoranza italiana. Fu fra i fondatori dell’Unione degli Italiani di Istria e di Fiume. A lui si deve anche la nascita delle riviste “Arte e cultura” ed “Orizzonti”. Caduto in disgrazia con le autorità croate che lo accusavano di mantenere legami troppo stretti fra la minoranza italiana in Istria e la madrepatria, Sequi si trasferì all’università di Zagabria e poi a quella di Belgrado, ove arrivò ad essere preside di cattedra. È morto, a Belgrado, nel 1995.
Insignito più volte delle più alte onorificenze dalle massime autorità italiane e straniere, sia per la sua militanza nella resistenza che per la produzione artistica e letteraria, Eros Sequi è una delle figure più significative della cultura italiana in Jugoslavia.
“Eravamo in tanti”, è la sua prima opera pubblicata in Italia.»
Devo aggiungere che si adoperò sempre per mantenere forte il legame tra gli italiani e la madre patria. Sulla rivista trimestrale “La Battana”, da lui fondata nel 1964, furono pubblicate opere – spesso anche inedite – di grandi scrittori italiani contemporanei e tradotto il meglio delle letterature jugoslave. Fu amico di scrittori quali Ivo Andrić, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri.
Restò sempre legato alla Jugoslavia.
Quando viveva in Toscana, Sequi scelse come luogo d’adozione, Lucca, la mia città. Scrive il prefatore Erio Franchi: «Di Lucca, ove era giunto piccolino, si è sempre sentito cittadino, assumendone la parlata, le tradizioni, la cultura, il gusto del motto arguto e della bellezza estetica secondo i più classici canoni della toscanità.»
Si laureò «brillantemente» in lettere presso la Normale di Pisa.
Con «Eravamo in tanti», ci troviamo di fronte ad un diario, composto dall’autore con riferimento alla guerra partigiana combattuta nella ex Iugoslavia, e precisamente nella regione che ora è diventata lo Stato della Croazia. Va dal 14 ottobre 1943 all’agosto del 1944.
Sequi aveva lasciato la cattedra di insegnante per farsi partigiano nelle file di Tito. Egli intendeva dare come italiano un contributo alla liberazione di quelle popolazioni dal nazifascismo. Il suo gesto voleva essere la testimonianza che non tutti gli italiani erano fascisti e che molti erano disposti a sacrificare anche la vita per affermare la libertà e la dignità dei popoli.
Il diario ci mostra, dunque, la guerra partigiana condotta non più sul suolo italiano, ma fuori dell’Italia, e qui sta uno degli interessi di questa testimonianza.
Direi che un accostamento obbligato va fatto con un altro diario di notevole rilievo, quello di Renata Viganò, «L’Agnese va a morire», del 1949, che reca la testimonianza della guerra partigiana sull’altra sponda dell’Adriatico, nell’Emilia Romagna, intorno alle Valli di Comacchio.
In Italia si incontrano tedeschi e fascisti; intorno a Zagabria, invece, tedeschi e ustascia, quest’ultimi dalle facce di «delinquenti agitati, coi fucili in pugno e lo sguardo e i gesti sospettosi.»
Ma i casi in cui i partigiani della Viganò e quelli di Sequi si somigliano molto sono innumerevoli, segno che non vi è distinzione nelle due guerre di liberazione. Ricordate quando Agnese passa con la sua sporta davanti alla caserma dei tedeschi? Sa che è una sfida, e cerca tuttavia di simulare naturalezza. Così accade a Sequi – che in quei luoghi chiamano il «Talijan» (l’»Italiano») perché «è più facile» – quando passa davanti ad una caserma di ustascia: «a cinquecento metri da noi, sulla stessa strada, c’è una caserma di ustascia. Forse la sfrontatezza è la migliore scorta.»
Circola una cattiva fama tra gli slavi sul coraggio degli italiani, li si giudica vigliacchi: «Me poi, che sono italiano, non mi vedranno mai vigliacco, ci avessi a rimettere la pelle gratis: qui no, ma a Zagabria m’hanno detto tante volte che gli italiani sono vigliacchi.»; «Da queste parti pochi italiani vanno tra i partigiani. A Zagabria ce ne sono parecchi, ma per la grande maggioranza fanno schifo.» Sotto la data dell’11 aprile 1944, troveremo una descrizione pietosa della disistima che pativano gli italiani in Jugoslavia.
Sequi è lì tra i partigiani slavi anche per dimostrare che non tutti gli italiani sono fascisti e vili. È un proposito che impegnerà tutta la sua vita, e gli costerà molto caro e molta ingratitudine.
È un linguaggio quasi telegrafico quello che accompagna la narrazione, come veloci, essenziali sono i colloqui tra i partigiani che si spostano in colonna lungo i sentieri della montagna. Vi è armonia tra lo stile che racconta e ciò che è realmente vissuto.
È una costante del libro: «Durezza di attesa immobile dietro un ronco di faggio avvolto nella camicia cristallina del ghiaccio. Le mani s’irrigidiscono sul fucile, le gote s’illividiscono; i fili d’erba, baffi ispidi e ingrati, bianchi di trina, pungono il viso.» Scrive anche: «Nessuno si stupisce ch’io scriva; non domandano neppure che cosa scrivo. Per buttar fuori un libro, un giorno o l’altro? Macché! Ma mi devo sfogare con qualcuno. E racconto ai miei figlioli, a mia mamma.»
A causa delle diverse etnie, nei gruppi partigiani ci si trova ad ascoltare diverse lingue, ma non è difficile intendersi, il croato è la lingua che va per la maggiore: «Parliamo croato, mescolando parole straniere di almeno sei o sette lingue, ma ci comprendiamo e ci pare di parlare tutti la stessa lingua, anche se qualcuno capisce di più e qualcuno di meno le cose.»
Si apprezza la forte volontà dell’autore di combattere per la Resistenza. Professore a Zagabria, abbandona tutto per darsi alla montagna, o come si chiamava in quei luoghi, al «bosco», affrontando una vita dura, camminando spesso su strade o poggi «con l’argilla impastata dalla neve.», alla quale non era abituato: «Facile combattere per gli americani, che si portano dietro ogni ben di dio, e al ritorno da un’azione di guerra, si stirano sotto una doccia tiepida.» Dormono all’aperto, o in stalle su letti fatti di torsoli e di cartocci di granturco, che fanno un chiasso del diavolo ogni volta che qualcuno si rigira nella notte. Addosso hanno i pidocchi: «Io ho i brividi: non ho mai visto con i miei occhi i pidocchi del corpo; e a sentirli scoppiare fra le unghie inesorabili dei miei compagni, mi si raggriccia lo stomaco.» Le marce sono faticose, i piedi dolgono: «è un affar serio mettersi in piedi su tante vesciche. Sotto quelle scoppiate già dolgono le altre più profonde.» Spesso le scarpe si sfasciano e si deve camminare a piedi: «Ogni cinque metri, una fermata a levare una pietruzza dai tagli spasimanti sotto i piedi. Poi la corsa per raggiungere il plotone.»
È l’occasione, anche, per ricredersi su quanto gli avevano insegnato da ragazzo, ossia che i comunisti sono cattivi; invece riscontra rispetto e solidarietà tra i compagni: «Dove sono gli uomini feroci e senza scrupoli della mia educazione domestica?»
Il mio cuore ha palpitato quando Sequi ha ricordato i rioni popolari di Lucca, dove i suoi genitori dicevano che si trovavano i comunisti. Tra questi il rione di Pelleria, nel quale sono vissuto per 28 anni, quelli della mia giovinezza: «Eppure mi piacevano i quartieri poveri della città, brulicanti di ragazzi di ogni età, di grida, di canti, di sporcizia e di miseria, e quando veniva l’occasione, ero felice di capitare dalla lavandaia, al ‘Bastardo’, o in ‘Pelleria’, dall’arrotino e dal legnaiolo. Il male era che, con il mio vestito più netto, i ragazzi accucciati a giocare per terra neanche mi davano bada.»
Per aver vissuto quegli anni, anche se qualche decennio dopo, posso affermare che con pochi tratti Sequi ha reso lo spirito della Lucca popolana, povera ma felice, avida della vita.
Non è una sensazione fugace quella di Sequi. La porterà sempre con sé anche nella vita partigiana. Leggete questa descrizione, dove aleggia lo stesso sentimento, e notate la precisione dei verbi che animano gli animali del cortile: «Scrivo appoggiato sul pilastro di legno del cancello spalancato tra l’aia e la strada fangosa. Mi hanno chiamato a montar di sentinella. M’arriva il fumo della marmitta, dove cuoce il rancio serale. Dallo stallino dietro il mucchio giallo delle zucche viene sulle ondate del vento, come il fumo, il grugnito del porco. Dal cortile accanto abbaia un botolo, in accordo con un latrato più maturo. Dalla catasta della legna chioccolano le galline, le oche starnazzano beatamente stupide nel rifiuto fangoso del pozzo; le mucche rientrano in un mite muggito alla stalla e i cavalli alla palizzata scalpitano contro le mosche e rispolverano i fianchi con la coda, mentre scrocchiano, inesauribilmente affamati, il fieno odoroso.»
È la pagina di diario del 28 ottobre 1943, tra le più belle, scritta nella località di Mustafina Klada. Vi saranno altre pagine da incorniciare e spesso è il ricordo degli anni trascorsi a Lucca a ispirarle. Leggete la breve storia di Errichetta, nelle pagine del 13 novembre 1943, di grande qualità letteraria, che ci richiama alla mente la stamberga del capitano a riposo Snieghirióv, il padre del bambino Iljuša, e della sua famiglia povera, narrato ne «I fratelli Karamazov» di Dostoevskij.
È lo stesso clima popolare della infanzia che l’autore ritrova tra i partigiani: «battono i denti e sono aperti e puliti, che li passi da parte a parte; e trovi ignoranza, difetti, miseriole, ma tanta buona salute di pensiero e di coscienza, che t’arrabbi con chi l’ha tenuti senza istruzione: gente in gamba, che combatte decisa, anche se il sibilo delle pallottole fa paura».
Direi che insieme con questo sentimento popolare, anima il diario anche l’altro, a cui Sequi resterà legato per tutta la vita: il riscatto degli italiani dalla vergogna. «Italiani? Turarsi il naso! Così ci guardavano noi italiani.»; «sono sempre contento quando gli italiani si fanno onore. E ce n’è bisogno dopo tanta vergogna.»; «Esiste un mezzo solo per non sentire la colpa: sparare anche contro tutti quelli che si dicono italiani e t’infamano un nome che t’è dolce come quello della famiglia.»
Un altro esempio, dopo quello della descrizione della corte, del suo stile asciutto e personale, dall’influsso toscaneggiante, ci è dato dal ritratto del partigiano Jure: «È quadrato e largo di spalle come un armadio, il collo corto e sopra, una testa a zucca, con la faccia soddisfatta che ci rimbalzerebbero i diecioni. Ha i capelli radi e fini fini, lucidi, rappresi in due riccioletti da neonato sulla fronte. A batterli in capo con una stanga di ferro pare abbia a risuonare come un incudine.»
In sordina, Sequi continua a tessere la sua storia. Ma vi è nel diario un’intimità che supera i confini e si trasferisce a tutti noi: «La stanza era nitida e tepida: la panca sotto la finestra, il tavolo d’abete pesante come il piombo, il letto alto e la culla sospesa al soffitto. Il vecchio versava la grappa, la moglie portava da mangiare e la figlia, vestita di nero, ninnava il bimbo, con gli occhi stupiti e dolci di buona figliola senza cattiveria.» È la casa di un contadino.
La storia di Dragica, la moglie di un partigiano, che ospita in casa l’autore e racconta la sua vita di ragazza povera costretta a fare la domestica nelle case dei signori, sempre umiliata e vilipesa, è ancora segno di un’attenzione speciale, avvertita e amata, verso la condizione degli umili. Gli umili sono i migliori, coloro dai quali non ci si può attendere che solidarietà, comprensione e amore. Ne scaturisce a poco a poco, con episodi di questo genere, il ritratto di una guerra partigiana alimentata da un ideale di amore: «E il mio Nicola, quando venne a casa l’ultima volta, mi ha detto che vanno tutti d’accordo e che anche lui diventerà comunista, perché non ci si farà più del male tra la povera gente, ma si starà d’accordo a far finire le prepotenze dei signori.»
Sono parole, queste di Dragica, che fanno riflettere, al pensiero della delusione che subiranno molti, tra cui l’autore stesso, che combatterono la guerra partigiana in nome di un comunismo di amore e di fraternità che sarà invece tradito. E più avanti: «Quando parlano di ‘comunisti’, anche questi contadini della Banija, come quelli della Moslavina e della Posavina e dello Zagarje, ne parlano con un rispetto straordinario, come di uomini eccezionali, giusti e incorruttibili, come di uomini in cui essi hanno fiducia senza riserve.»
Non esiterò a ad avvicinare il sentimento che ispira questo diario alle poesie che Giuseppe Ungaretti scrisse nelle trincee del Carso nella Prima guerra mondiale. Scrive Sequi: «Ma questa mia zolla, perdio, che m’incolla le gambe e mi strappa un tormento, questa zolla è mia e la capisco come non la può capire chi non ci soffre sopra. Ed è ancora più mia, quando vi si affloscia, baciandola di sangue, un mio compagno.» Come non andare alla poesia «Veglia» che, raccolta in «Porto sepolto», Ungaretti scrisse il 23 dicembre 1915? Confesso che mi inorgoglisco al pensiero che entrambi hanno avuto un legame strettissimo con la mia città.
Mentre racconta, ad un tratto la scrittura s’impenna ed balzano all’attenzione scene e personaggi vividi, malinconici e tragici, superbamente rappresentati. Ne ho indicati alcuni, ma l’elenco sarebbe lungo. Bastino qui: le righe sobrie ma intense dedicate alla fucilazione di un partigiano disertore; il ritratto della Stojanka, seviziata dai tedeschi; quello del Komandir, «un animalone grosso e spaccone da durlindana a due mani, ignorante e maleducato come un soldataccio di ventura, ma buono e ingenuo. Quando Poldi, il commissario, tiene l’ora politica e spiega, lui se ne sta ad ascoltare con la faccia in tralice e la bocca semiaperta: per stare attento, gira la testa e guarda come le galline.»; il ritratto della giovane infermiera di sedici anni, Marica che «Leggere sa, ma scrive a zampe di gallina; eppure, ha le mani delicate e le dita bianche e affusolate di ragazzina vissuta nella bambagia delle case signorili.» Marica si è sposata da poco con l’altro partigiano, Nicola, di cui tratteggia ad un certo punto questo ritratto: «Chi parlava con lui si rifugiava sui capelli crespi, ritti sopra la fronte sbiadita. A guardarlo in faccia, ci si trovava a disagio per quell’occhio aguzzo e spiritato sul viso di giovane patito, e l’altro occhio come il bianco d’un uovo.» Nicola non avrà alcuna esitazione a sacrificarsi per salvare tre compagni rimasti sperduti nel bosco nel corso di uno scontro con i tedeschi.
Sotto la data del 25 aprile 1944, troviamo la descrizione di un attacco aereo tedesco contro una pattuglia partigiana. Ad un tratto è colpito un cavallo bianco: «Gli aerei si accaniscono su di noi. Davanti a me scende riottoso un cavallo bianco senza basto né sella. Uno schianto secco, una fiammata, le ciglia puzzano di bruciato. Il cavallo bianco resta un attimo in piedi, tronco senza testa, poi precipita al suolo. La testa, strappata via netta, è fra i cespugli, qualche metro più in là.»
E anche troveremo espressioni come queste: «la pelle dello stomaco vuoto attaccata alla schiena»; «le mani incartapecorite dalla piova e livide dal gelo»; «E se cala il gelo, il fango si raggruma gnoccuto e non sai più dove posare il piede senza buscarti una storta dolorosa.»; «innaffiati dalle mitragliatrici»; «risate di ragazze spezzate dal pudore»; «Vanno e vengono per il capo pipistrelli di pensieri neri, rondini di immagini liete.» O parole saporose, piuttosto rare: gnoccuto, sbagnicciare, rintrona, incivettano, traccagnotto, divettiamo, raggriccia, peneri, piova, cittaduzza, sartore, papasso, diacciare, fiataccina, nonzolo, arruciolìo, sciaguatta, arrancherò, bruttato, spezzonarci, inseverite, casipola.
In un diario, che può apparire cosa minore, in realtà possono ben rivelarsi pagine e stili di ottima letteratura. Qui sentiamo il Manzoni: una pattuglia di partigiani rientra al villaggio, tra essi due fratelli, uno è vivo, l’altro è morto ed è portato sopra un carro. All’entrata del villaggio i genitori stanno in attesa con il paniere delle provviste destinate ai figli: «Due statue grigie e addolorate, smarrite nell’immobilità, sull’orlo della strada; la mamma non s’è sfilata dal braccio il canestro con i regali per i figliuoli combattenti: carne di maiale, lardo, pane fresco, biscotti di casa, un paio di calze bianche di lana grossa. Si avviano stupiti e sgomenti sulla strada del ritorno, dietro al carro barcollante e al figlio insanguinato. È difficile capire che vuol dire ‘morto’.»
L’autore ricorda che da ragazzo il padre non gli lasciava leggere Salgari «perché non mi rovinassi la lingua.»
Un’altra pagina sobria e intensa è quella sotto la data del 21 febbraio 1944, in cui vengono descritte Maria e la sua amica morte durante uno scontro, i cui corpi ora sono esposti sul pavimento della «cucinetta senza fuoco, con la porta d’ingresso aperta.»
Sequi scopre il comunismo e ne è orgoglioso. Si trova con compagni che non badano al sacrificio, patiscono gli stenti per un ideale di libertà. Ne è ammirato. Si sente fuso con il loro spirito, un tutt’uno: «Questa nostra gente ha un sentimento nuovo dell’immortalità, che incomincia a prendermi, anche me. Non posso morire, è impossibile. Mi possono piantare una pallottola in fronte, eppure sarei vivo, perché sono io e tutti, e ‘tutti’ sono immortali. Sparisce ogni timore di morte, sparisce l’esaurimento.» Ossia, vi è una continua rinascita, senza alcuna soluzione di continuità, poiché tu ed io saremmo sempre ‘tutti’: «perché se tu cadi, tu ‘tutti’ vai avanti.»
La fede di Sequi è addirittura teologica e messianica e si trasferisce nel ricordo del piccolo Paolo, il figlio lontano: «Si è che in lui entreranno, forse, già fatti e definiti i sentimenti nuovi che io e ‘tutti’ creiamo oggi, anche slabbrando lietamente qualche pezzetto di cuore.» Si aspetta molto dal comunismo, come se lo aspettano tutti i partigiani: «sento dire ‘Tito’, come dire libertà, e vedo che tutto opera secondo questa forza, che ha la magia trascinatrice di tutte le religioni e non è una religione, ma questi fatti concreti, questa lotta, questo popolo.»
Pur in mezzo alle atrocità della guerra, questo diario è un libro di amore, verso la vita e verso gli uomini: «c’è una solidarietà fisica con tutto quello che è vivo!»; «la bontà è la qualità più diffusa e comune, anche in mezzo agli orrori di questa guerra.» Perfino nei confronti del nemico.
Nel libro non troveremo alcun cenno alle stragi di italiani comandate da Tito, di quei tanti italiani finiti nelle foibe. Si deve presumere che l’autore, al tempo del suo diario, non ne fosse a conoscenza. Non si capirebbe altrimenti tutta questa fede. Parlando degli italiani che si uniscono ai partigiani di Tito, scrive: «Partito benedetto, gliela darai anche a lui questa coscienza». Ha parole commosse nei confronti degli italiani che combattono nella Resistenza: «Anche voi, compagni miei, non sapete ancora bene perché dovete combattere, perché avete fratelli i partigiani jugoslavi, e nemici, con i tedeschi, fascisti italiani e jugoslavi. Ma non siete più resti di rovina; avete già la fierezza del fucile in pugno per la libertà conquistata con le nostre forze. Siete già la calce d’un nuovo mondo.»
Quella che lui descrive è una vita partigiana vissuta senza divisioni ideologiche al suo interno, senza risse e rivalità, come invece è stato in Italia. La compattezza è cementata da una comune e rocciosa fede nel comunismo. Nelle pause di riposo alcuni istruttori incaricati dal partito tengono lezioni sul comunismo. Nessuno vi si sottrae: «Intanto andiamo al gruppo di studio: ‘Lo sviluppo economico della società’, un breve riassunto al ciclostile.» Fanno perfino un giornalino, «La Nostra Voce»: «m’è ancora nuovo questo lavoro. Proprio ieri sono arrivato dalla VII proletaria, e ancora non ho pratica. Qua, tra fogli di carta, macchina da scrivere, conti di righe e matrici per ciclostile, ci si ritrovano come in un vestito tagliato su misura.» È un aspetto, questo, poco o punto sottolineato nella guerra partigiana in Italia.
In Jugoslavia, la presenza del partito comunista è costante e forte. La disciplina è ferrea, tanto sotto il profilo ideologico che materiale. Guai, ad esempio, a rubare ai contadini. Capozzoli, un italiano, ruba un paio di calze alla padrona di casa che lo ha ospitato: «Intanto, a dormire nella nostra stalla non ce l’hanno voluto». È una disciplina accettata e condivisa. E genera fratellanza. Si commuove a questo pensiero: «Sipe mi guarda bonaccione. Chi sa che cosa pensa mi abbia costretto a passarmi la manica sugli occhi!»
Di Ivica, un partigiano con il quale conversa per pochi minuti, dirà: «Saremo sempre amici; e non lo rivedrò mai più.»