D’ora in poi quel lettore che di solito, per spostarsi da un luogo all’altro, utilizza il treno, sappia che non sarà difficile incontrarvi Giulio Mozzi (faccia attenzione, però: ho scoperto da Facebook che c’è anche un omonimo). In ogni caso lui si descrive così: «Sono basso, grasso, avviato alla calvizie, con sei difetti di pronuncia, la dentizione imperfetta […]» Non so se le Ferrovie gli abbiano già dato una qualche medaglia; se ancora non lo hanno fatto, beh è il momento di rimediare. Giulio Mozzi non c’è giorno che non si rechi a una qualche stazione sparsa in Italia e attenda il suo treno, che lo porterà chi sa dove. Si dice che non abbia mai preso la patente proprio per non essere tentato di tradire il suo grande amore. Può essere un Eurostar (quello delle 6,54 per Milano è ormai famoso come la pipa di Sherlock Holmes), può essere uno di quei treni scassatelli che viaggiano da un paesucolo all’altro, ma Mozzi li ama tutti allo stesso modo. L’odore della rotaia lo manda in brodo di giuggiole. Quando sale la predellina, ha la sensazione di ascendere in paradiso. Dentro, guarda dappertutto, non c’è minima cosa che gli sfugga: «Dopo un minuto arriva un giovanotto grassoccio in completo grigio, camicia azzurra, cravatta blu, borsa di pelle cospicua e molto usata, due telefonini (uno con auricolare, uno senza)»; sembra abbeverarsi della vita che scorre anche sui treni; poi decide dove sedersi, difficile che si affidi al caso, è il treno piuttosto che gli bisbiglia il punto dove quel giorno la vita racchiusa negli scompartimenti pulsa di più. Parlano tra loro, i due.
A vederlo è l’uomo più serio del mondo. Raro sorprenderlo a sorridere; credo che nemmeno l’amico più caro ci sia mai riuscito. Se ha uno zaino con sé; se sta leggendo un libro (di solito di saggistica) o un dattiloscritto o una rivista letteraria, se gli leggete negli occhi quell’avidità della conoscenza che nessuno tra coloro che la possiedono può mai nascondere, è lui. Se volete un’ulteriore prova, attendete un momento e controllate se si comporta così: «Mi addormento. Mentre dormo ho dei piccoli risvegli improvvisi, di solito nelle stazioni. Mi sveglio e mi riaddormento. Il tempo di capire, sia pure in sogno, che non è quella la mia stazione. Il sonno del viaggiatore è fatto così.» Allora proprio non ci possono essere dubbi. Entrate e sedetevi davanti a lui. Non abbiate paura. In realtà è l’uomo più mite del mondo.
Conosco poche persone, anzi non ne conosco nessuna, che siano più altruiste di lui. Si fa in quattro per darti una mano. Però devi valere qualcosa, e non fare come il pivellino scrittore del racconto «Lasci perdere Piperno!», che se le cerca, ricevendo una risposta risentita: «lei ritiene di avere il diritto di decidere i tempi della mia esistenza e del mio lavoro?» o come quell’altra signora dal nome curioso di Iodonna che vuole che le pubblichi un suo romanzo e glielo racconta al telefono («Una storia travolgente, scritta con uno stile spigliato, che diverte e commuove»). Il suo mondo è quello dei libri, la sua passione è la letteratura, la sua malattia è lo scrivere. I suoi libri sono tradotti in molte lingue, perfino in russo e in giapponese. «Questo è il giardino» è del 1993; «La felicità terrena» del 1996; «Il male naturale» del 1998; «Fantasmi e fughe» del 1999; «Fiction» del 2001. Ma l’elenco sarebbe troppo lungo.
Sappi anche questo: per entrare in contatto con lui, devi gioire e soffrire come lui.
Il prossimo anno Giulio Mozzi compirà 50 anni, essendo nato nel 1960. Se ti solletica la curiosità di sapere dove abita, oppure se vuoi conoscere il numero del suo cellulare, non è necessario rivolgerti a me. I suoi dati sono pubblici, li leggi nel suo sito, insieme con i titoli dei libri che ha scritto, tutti segnati dal dono dell’originalità. Vi leggi anche l’indicazione di tutti i suoi movimenti: se lo vuoi, puoi anche sapere dove si trovi il tal giorno o il talaltro. Comunque, se, incontrandolo sul treno, hai ancora qualche incertezza, chiedigli se è nato a Camisano Vicentino. Non ce ne sono due, di Giulio Mozzi, nati lì.
Se poi sei anche fortunato e non lo trovi in vena di mitragliarti con quelle sue domande che ti fanno girare la testa (mi viene in mente il poliziotto del racconto «Incontro» che dice al collega impegnato in una discussione con lui: «Giusé, andiamo. Che questo qui è filosofo.» E nel racconto successivo «Mille euro»: «Giusé. Questo è quello dell’altra sera»), allora hai proprio vinto al lotto, è il Giulio Mozzi che vive a Padova e a Camisano «non ho mai abitato». Significa che è il giorno della tua buona stella.
Il raccontino «Nunc» ti darà solo una vaga idea della quantità di cartucce che può sparare la sua mitragliatrice. Ne spara anche di calibro diverso, e tutte di prima scelta. Non ci credi? Vai a «Socratico», ma anche a «Precisamente» (stava leggendo, arriva il controllore; lui si accorge di aver perso il biglietto sul treno, finalmente lo ritrova e dice al controllore che intanto gli aveva sfilato dal libro un vecchio biglietto ferroviario: «Io le ho ritrovato il biglietto. Adesso lei mi deve ritrovare il segno.» Le sue cartucce sono un assortimento da collezionista. Con un Mozzi così non la puoi spuntare. Un altro consiglio: non mancare di leggere e rileggere il breve (ma che dice tutto di lui) «Una».
Lo considero uno dei migliori raccontatori italiani, come il mio conterraneo Vincenzo Pardini. Se leggi Mozzi, non puoi annoiarti. Mozzi sfida sempre la tua intelligenza. Non c’è cosa della vita che riesca a sottrarsi alla sua osservazione. In questo lo paragono a Ennio Flaiano. Sornione e arguto come lui. Se, come ti ho suggerito, ora ti trovi seduto davanti a lui, non credere che stia leggendo; ti ha sentito arrivare, ti ha osservato mentre riponevi la tua valigia, e ti sta misurando dal momento in cui ti sei messo in qualche modo a spiarlo. Non gli ci vuole molto. È dotato per queste cose. Sa già a che razza di individuo appartieni. Se conosci i suoi libri, sai anche che tutto ciò non può meravigliarti. Che Mozzi sia di una intelligenza rara e che sia un osservatore puntiglioso è il marchio indiscusso della sua scrittura.
Questa raccolta ne è un ulteriore esempio. Sono brevi racconti che sfilano sotto i nostri occhi come strisce di fumetto di gran classe (chi li ha contati dice che sono 131) scaturiti nel corso dei suoi viaggi per l’Italia in un periodo che va dal 30 maggio 2003 al 6 settembre 2007. È più esatto dire, però, che è una selezione di racconti: infatti, in quegli anni Mozzi ne ha scritti moltissimi pubblicandoli sul suo diario in rete. Il filo conduttore è il suo sorriso sparso a piene mani sulle incongruenze e sulle assurdità della vita. Mozzi non le denigra; le ama; sa che senza di esse saremmo dimezzati, dei manichini e non uomini.
Le storielle di vita quotidiana che vi sono narrate, con l’immediatezza e l’efficacia della struttura dialogica (tante avvengono al telefono. Confesso che nel leggere il libro mi è venuta voglia di fare il numero del suo cellulare per sentirmi rispondere anch’io: «Sono Giulio Mozzi»), si leggono con lo stesso piacere con cui si legge un buon romanzo, direi che addirittura formano un vero e proprio romanzo: quello della vita che ciascuno di noi incontra tutti i giorni e di cui molte volte non si avvede. Mozzi ci apre gli occhi, ci insegna ad osservare e a riflettere. È il lavoro di uno scrittore ironico, ma sapiente fino al punto di metterci a disposizione il suo intelletto ed il suo sguardo come antidoto alla malattia che tutti abbiamo contratto con la modernità. Significative al riguardo le poche parole di un racconto saettante, «Una camera». È una febbre alta, la nostra, a cui l’autore offre un antipiretico di immediato effetto. Dopo non siamo più gli stessi: siamo guariti. Sono pillole di saggezza, di avvertimento, ma anche di rassicurazione. Non c’è niente che non possa risolversi in una larga e taumaturgica risata. Immaginatevi la faccia di Mozzi, nel racconto «Das ist mein Zimmer», allorché mostra la chiave al giapponese che sta armeggiando con la serratura della sua camera. Mozzi, che non riesce a farsi capire, apre per dimostrare che quella è la sua camera e che il giapponese si sta sbagliando, ma il giapponese ringrazia, entra e lo chiude fuori. Mozzi se le fa, eccome, le sue belle risatine, e ogni tanto sceglie di giocare al gatto e al topo (anzi, «come il gatto col gatto») con i suoi interlocutori, qualche volta anche un po’, se non del tutto, psicopatici, come in «Salutare», «Emiliano», «Di mattina presto», «Qualche minuto fa», «Giovanni», «Un caffè» (quello datato 8 novembre 2005), per non dire di quel controllore del treno in «Collo», o di quel turista in «Socratico», e così altri. Esemplare è il racconto «Suonano» del 5 gennaio 2004, allorquando ad una ennesima intervistatrice si fa passare per handicappato con «una natica di legno.»; «Di palissandro. Sono le migliori. Non ho badato a spese.» Non sono da meno, però, «6,43»; «Uno e l’altro»; «Bocca», «Antonio» (qui si mette a fare la gallina), «Xuszufuzx», tutte da sganasciarsi dalle risate. Sono i più colmi di saggezza, i più raffinati addirittura. E quando usufruisce del bagno in prima classe e il controllore gli fa pagare il supplemento? («Bigliettazione», da mandare a memoria). Il fax di un avvocato che gli perviene per errore, il quale gli chiede di pagare dei danni; la signorina che al telefono sostiene di aver parlato con sua moglie «Circa un mese fa» (Mozzi non è sposato) e vuol vendergli dell’olio; e allora lui si diverte a fare il pazzo con lei; un’altra signorina che vuole affibbiargli una tomba nel nuovo cimitero del suo paese natale; il signore che bussa alla porta e gli chiede se può andare al gabinetto perché se l’è fatta addosso; la donna grassa che alla stazione di Padova, mentre lui è in attesa del treno, e legge accucciato sui talloni, per poco non gli siede sulla testa; o quando, intervistato da una radio non riesce ad entrare in onda e dopo vari tentativi nel corso dei quali lui strepita di essere collegato e di essere pronto a rispondere, il conduttore, finite le interviste, conclude il programma dicendo: «Questa sera Giulio Mozzi forse aveva altro da fare, o si è addormentato.»; il tassista che ogni volta piscia dentro una grata «a filo col muro» che dà su di una cantina; e così via, valgono nella vita quotidiana, come i dieci Comandamenti nella vita cristiana. Bisognerebbe impararli a memoria, questi raccontini, leggerli ai figli che, dopo aver finito le scuole, si credono di essere i padroni del mondo, di conoscerlo, anzi di conoscere tutto. Quando un controllore lo sorprende a leggere un fumetto giapponese, conclude preoccupato: «Non sarà mica un professore di mio figlio, lei?» Non se la scampano neanche i rapporti di coppia, soprattutto tra giovani, come in «Due»; «Treno, telefono». Ci sono anche storie tristi, come in «Pancia», «No», «Dice che i ritardati mentali» (è il racconto che Mozzi preferisce), «Una felicità terrena», «Saluto», ed altre. Le storie tristi formano un gruppo compatto (pur non essendo vicine le une alle altre) con il quale il mondo mostra il suo volto malinconico, struggente: «Mi mancherai, amico mio. Mi sei sempre stato misterioso. Spero di esserti stato utile: tu dicevi che ti ero utile. Che la persona divina ti accolga.» Se si ride qualche volta della vita, dobbiamo anche pensare che essa è, comunque, immersa nel dolore. Sono racconti che fanno da cornice obbligata, rammemorano, ci invitano all’amore verso tutti: «tutti veniamo condotti fino a un orlo e poi si casca giù e dopo l’orlo tutta la vita è questo continuo cadere». «Paola» è una ragazza che si fece scrivere la dedica su «La felicità terrena», gli aveva confidato che per lei il suo contenuto significava molto; poi questo libro è finito in un remainder’s. Come mai, si domanda Mozzi, se ci teneva così tanto. Chiede al libraio: è il marito che gli ha venduto tutti i libri della moglie, perché lei è morta: «Ho comperato il libro.» conclude l’autore.
Le stazioni che incontriamo nel nostro viaggio in compagnia di Mozzi sono Padova, Reggio Emilia, Bologna, Pordenone, Mestre, Milano, Vercelli, Trieste, San Benedetto del Tronto, Napoli, Sermide in provincia di Mantova, Carpi, Vicenza, Firenze, San Giovanni Rotondo, Torino, Conegliano, Ferrara. Ma è Padova il cuore delle città, qualche strada, qualche scalinata, qualche piazza entrano dentro di noi: «A cinquanta metri dal Pedrocchi, in piazza Cavour, c’è effettivamente una casa di formaggi e salumi. Un lungo banco a L con alimenti vari, possibilità di assaggio, esposizione di vecchi attrezzi agricoli, e sonorizzazione delirante con suoni di bosco, campi e stalla. Cinguettii e muggiti.»; «Sono a Padova, in piazza Cavour, seduto su una panchina di pietra. Guardo la giostra con i cavallini, i bambini sulla giostra, i genitori attorno alla giostra. Guardo la gente che passa.» (Se qualcuno dovesse un giorno fare un ritratto a Giulio, sarebbe bello che si ispirasse a questa immagine).
Nel racconto «Ultimo», troviamo la frase che dà il titolo alla raccolta.
Da questo libro sappiamo anche che cosa, di solito, Mozzi ordina al bar per colazione: «Un caffè macchiato, un cornetto semplice e una bottiglietta d’acqua da mezzo non gasata e non fredda.» Mentre io, le rare volte che faccio colazione al bar, mi prendo un cappuccino e due sfogliatelle ripiene di crema o di marmellata. In fatto di gola, son sicuro, lo batto. Non altrettanto a scrivere, però.
Nel mio immaginario (eppure quanti battibecchi ho avuto con lui! E chi sa che non mi abbia preso in giro alla maniera di questi suoi racconti, ed io, tonto, ci sono sempre caduto!), Giulio Mozzi è già una leggenda. Ha perfino letto «Il lattaio» di Peter Bichsel (Mondadori, 1967, L. 800, prefazione di Giorgio Zampa; traduzione di Bianca Cetti Marinoni). Ci sono tutti i presupposti perché lo diventi, e questo libro sarà presto un cult.
Dimenticavo. Dimenticavo di dirvi che, salvo uno, tutti i racconti sono di pura invenzione. Li firma Giulio Mozzi («personaggio mio omonimo», scrive) e sono la voce della sua vita, ma anche della nostra.
Home Libri Recensioni libri Giulio Mozzi: “sono l’ultimo a scendere e altre storie credibili”, Mondadori, 2009