Nei primi decenni del ’900 vari autori friulani pubblicano i loro versi. Tra questi Giuseppe Malattia della Vallata (che scrive nella variante friulana di Barcis), Bindo Chiurlo, che nel 1927 compilò una Antologia della letteratura friulana, Enrico Fruch, che fu autore sia di poesie che di villotte – una delle forme cantate più caratteristiche della tradizione friulana che è costruita su quartine di ottonari – ma che scrive in koiné, vale a dire cerca una lingua friulana comune che si sovrapponga ai dialetti locali, Ugo Pellis valente studioso degli aspetti linguistici del friulano.

Tra tutti questi il posto di Giovanni Lorenzoni, spesso trascurato e dimenticato, non è secondario. Certamente più che come letterato viene ricordato come promotore delle attività di salvaguardia e di difesa della tradizione culturale friulana. Sua fu l’iniziativa di cercare di proseguire, tramite la rivista “Le nuove pagine” l’esperienza di “Pagine friulane” di Del Bianco. Non avendo avuto successo riprovò qualche anno dopo con la rivista “Forum Julii”. Questo suo impegno fu decisivo per poter costituire, nel 1919 a Gorizia, La Società filologica friulana, che più tardi si trasferirà a Udine e che nel 1936 diverrà Ente Morale.

Le poesie raccolte in questo volumetto, prefato da Bindo Chiurlo, sono il meglio, selezionato dallo stesso autore, delle sue fatiche letterarie giovanili. L’espressione di sentimenti, la descrizione di ambienti, l’immediatezza del messaggio comunicativo prendono un vigore speciale con l’uso del dialetto. Zeno-Schmitz in una pagina che credo significativa della Coscienza, dice: «Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto». E nel 1925 scriveva a Prezzolini:

«Da me, cresciuto in un paese ove, fino a sette anni fa, il dialetto era la nostra vera lingua, la mia prosa non poteva essere che quella che è, e, purtroppo, non c’è più il tempo per raddrizzare le mie gambe».

Lorenzoni non ha l’esigenza di raddrizzare le gambe e può descrivere la vita, gli ambienti, i caratteri, rispettando il “tutt’altro aspetto”, perché usa appunto il dialetto.

Le vicissitudini sociali per le quali l’uso del dialetto tende ad estinguersi sono note e non è questa la sede per esaminarle e dilungarsi. Per la poesia friulana è però giusto ricordare che i sussulti di rinnovamento sono stati numerosi e notevoli: nel 1942 Pasolini pubblicò Poesie a Casarsa che Rienzo Pellegrini definì «un capitolo nuovo per il friulano e non solo per il friulano». Nel 1963 poi, costituitasi in regione autonoma il Friuli Venezia Giulia con Trieste capoluogo, la friulanità prende ulteriore vigore e lo scrivere in friulano diventa più diffuso; negli anni ’70 dello scorso secolo decidono il passaggio alla poesia in friulano autori come Elio Bartolini, Amedeo Giacomini e Celso Macor.

Nonostante la normalizzazione e la standardizzazione del friulano decisa con L.R. 15 del 1996, che definisce la grafia ufficiale, dai letterati questa viene sentita come un’imposizione e una penalizzazione delle varietà locali. Nell’ambito di questo dibattito le poesie del Lorenzoni, scritte con le varietà ortografiche tipiche del primo ’900, possono essere viste come testimonianza di un’epoca e come elementi precursori di un filone tuttora fecondo.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit della prima poesia Il poete e il mont:

Anìn vie drez! Ance se nus tormente
qualchi volte un dolôr c’al smange ‘l cûr,
se l’ànime nus vai tant malcontente,
se nus ciol la peraule un gran lancûr,
no vin di cedi. Un ciâf c’al è pleât
nissùn lu stime: al fâs nome pietât.
No’, come pôi, supiàrps ‘o resistìn
cuintri lis botis c’al nus dà il distìn.

Nus domandin dai viars che fedin ridi?
E ben, ridìn dal nestri stes dolôr.
Parcé mostràlu, se vin un fastidi?
Des nestris penis ce ur impuàrtje a lôr?
Tignìn par no’ – tal cûr al è ‘l so sît –
ce che nus dûl, ce che nus à dulît.
Tignìn par no’ i dolôrs che ‘o vin vidûz:
se orìn contàju, no sarìn crodûz.

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