Nel frontespizio l’editore presenta il breve racconto come “seguito de Il Conte assassino“, ma si tratta di una furberia editoriale giustificata solo dal richiamo che Dumas fa, nelle prime righe, del personaggio del Conte Orazio, protagonista del romanzo citato. In realtà si tratta del racconto di una battuta di caccia grossa, in cui il personaggio narrante, il conte Orazio, appunto, che già era stato protagonista di una caccia alla tigre nel primo romanzo, descrive le sue avventure a Ceilan (Ceylon). Insieme allo scontro con i tre elefanti che uccide e con una tigre, trovano posto lunghe dissertazioni etnografiche e naturalistiche, che fanno pensare alle descrizioni di Salgari.
Da notare che il Conte Orazio, che nel romanzo principale era stato descritto come dotato di nervi d’acciaio e insensibile alla paura, qui confessa:
«Sono di temperamento bilioso, ed ho il coraggio del mio temperamento, vale a dire che comincio col dubitare, esitare ed anche tremare; poi mi vergogno della mia debolezza, il mio morale rimprovera il fisico, la mia anima sale sulla mia bestia, ed allora la mia bestia fa maraviglie di temerità che sorprendono gl’imbecilli; locchè non toglie la mia bestia dall’aver cominciato colla paura: se non che, lo sanno solo dessa e l’anima mia.»
Sinossi a cura di Claudio Paganelli
Dall’incipit del libro:
Tranne la rapina e l’assassinio, io conobbi il tipo del conte Orazio del mio romanzo la Paolina di Meulien o il Conte assassino. Era un uomo di trent’anni, pallido, magro, affetto da una piccola tosse nervosa, che aumentava quando provava qualche emozione. Nella vita comune era sensuale come un Turco, voluttuoso come un sibarita, parco e duro all’occasione come un pastore della Sabina. Non trovava mai soffici abbastanza i cuscini, nè sofà sufficientemente elastici quando si trattava di fumare il narghilè nel mio salotto; eppure capace di percorrere cinquanta leghe a spron battuto senza fermarsi, di dormire sull’umido o sul gelato terreno avvolto nel mantello, disfidando il caldo ed il freddo, quasi questi non avessero nessuna presa su di lui; infine, meno i delitti, era quello strano miscuglio d’estremi che cercai dipingere nel marito di Paolina, e non avrei giurato ch’ei fosse anche trafficante di schiavi come Giacomo Munier o pirata come Lara.
Di rado discorreva di morale o di filosofia, perchè, a dir suo, lo annoiava, e temeva molto la noia. Quando lo coglieva questa malattia che chiamava il suo cancro, prendeva oppio, e non trovandolo sufficiente, prendeva l’hachich. Allora, per otto, dieci, quindici giorni, rimaneva intorpidito come un serpente che digerisce, e stava in casa immerso ne’ sogni e nelle allucinazioni, custodito dal solo suo domestico, finchè, trascorso questo tempo, ricompariva guarito, almeno momentaneamente, dalla sua noia.
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