La battaglia di VarsaviaAdam Zamoyski
16 agosto 1920.
Corbaccio, Milano 2009
pp. 190, euro: 16,60

Un’ambiguità circola costantemente nelle pagine del volume di Adam Zamoyski. L’opinione che la guerra combattuta tra il luglio e l’ottobre del 1920 abbia rappresentato una grande lotta polacca, coronata da successo, in difesa della civiltà occidentale tout court, invero ignara del pericolo corso. Alle porte di Varsavia, il 16 agosto, non si combatté solo una «guerra del diciottesimo secolo», come ebbe a dire il generale britannico Radcliffe (p. 173). Ma si vanificò la duplice intenzione bolscevica di «fare irruzione in Europa» (p. 15) e, sostituendo le truppe tedesche in ritirata dalla fascia confinaria galiziana, allestirvi quel trampolino di lancio indispensabile per «esportare la rivoluzione» mondiale (p. 19).
Posto che è compito arduo stabilire fino a che grado anche il bolscevismo appartenga (oppure no) alla civiltà occidentale,

cosa sia quest’ultima – damigella insidiata dall’orco asiatico – rimane nelle pagine di Zamoyski tutt’altro che precisato. Ironicamente, ma non troppo, si potrebbe anzi osservare che il livello di accuratezza col quale l’autore presenta questa sfuggente eppur onni-presente civiltà occidentale sembra inversamente proporzionale alla forza dimostrata dalla stessa come slogan brutale utile, nell’ultimo decennio, a giustificare le reiterate rappresaglie degli stati virtuosi versus stati canaglia […]
Più seriamente, l’ambiguità irrisolta di Zaymoski rischia d’infirmare il valore della ricerca in almeno due direzioni. Da un lato, risultando ad uno specialista della materia irritante il semplicismo con il quale sono abbozzati temi tutt’altro che facili alla vulgata. Dall’altro poiché, a cagione di simili banalizzazioni, rinvia al lettore più sprovveduto un’immagine manichea della realtà politico-militare che poco o nulla riflette gli imperativi dell’analisi storiografica. Fin troppo delineate e irrigidite, infatti, appaiono le tipizzazioni concettuali degli attori sulla scena, con i buoni Polacchi – nei panni di Rambo ante litteram? – contrapposti ai barbari comunisti di un Lenin smanioso – of course spalleggiato da Stalin – di muovere dai territori ucraino-polacchi per, via Ungheria, Cecoslovacchia e Romania, approdare alla testa della vittoriosa rivoluzione mondiale addirittura in Italia (p. 93).
Probabilmente è questo semplicistico approccio, rinunciatario delle tinte in chiaroscuro, a spiegare alcune delle pagine a mio giudizio più controverse del volume. Ne ricorderò tre.
In primo luogo, è sorprendente lo spazio consacrato – e correttamente – da Zaymoski all’antisemitismo dei soldati russi, sfociato in massacri e spogliazioni, a fronte del diverso metro diremmo buonista adottato nei confronti del non meno sistematico odio antiebraico polacco. Un odio le cui conseguenze non sfuggirono alla penna cruda e feroce del Babel’ dell’Armata a cavallo (1926). È solo il caso di ricordare che proprio durante le vicende oggetto del volume in esame si registrerà un salto di qualità della tradizionale ostilità antiebraica della società polacca (Kapiszewski, 2004; Poland from 1795 to 1939, 2008, pp.1390-1403), divenuta un rancore metodico spesso privo di scrupoli, e la cui genesi ed i cui effetti a lungo termine hanno trovato arguzia analitica nei saggi di Stanislaw Krajewski (2005, p. 99 e seg.). Un rancore, per le truppe polacche incalzate dall’iniziale avanzata russa, sulla scorta dell’accusa rivolta agli Ebrei di tradimento per aver accolto a braccia aperte gli invasori, sufficiente a giustificare assassinii di civili inermi perpetuati nella più totale impunità.
Una seconda pagina discutibile riguarda la valutazione espressa da Zaymoski a proposito delle conseguenze a lungo termine del conflitto. A prescindere dalla leggenda nera di uno Stalin a cui non possono addebitarsi che crimini e misfatti diabolici, l’autore incorre in una inesattezza quando sostiene esser stato l’isolamento entro la quale l’Urss fu cacciata dopo la sconfitta con la Polonia a sospingerla «tra le braccia dell’altro regime generatosi dall’umiliazione, e alimentato dalla determinazione di rovesciare gli accordi di Versailles: la Germania nazista» (p. 169). Pare davvero eccessivo stabilire un legame di causa/effetto così deterministico tra le condizioni europee dei primissimi anni ’20 e quelle che vedranno la firma del Patto Ribbentrop-Molotov il 23 agosto 1939. Ammesso che l’isolamento sovietico fu tutt’altro che perseguito dai dirigenti moscoviti, si può anzi dire che dalla metà degli anni ’30 i tentativi di Stalin per pervenire ad un accordo con le democrazie occidentali furono tutt’altro che improvvisati o estemporanei (Riasanovsky, 2008, pp. 513 e seg.). E se fallirono – un indizio lo si percepì nella sostituzione di Litvinov con Molotov al Commissariato del popolo per gli Affari Esteri – certo la responsabilità non fu solo ed esclusivamente della doppiezza sovietica (Carley, 2009, pp. 197 seg.).
Infine, un terzo ed ultimo opinabile passo di Zaymoski merita una riflessione. Esso ruota attorno all’affermazione esageratamente ottimistica posta in chiusura di volume secondo la quale «Oggi il senso civico e democratico di quella parte d’Europa è, in gran parte, il risultato dei due decenni di libertà assicurata e difesa da PiÅ‚sduski e dalle sue armate sulla Vistola, nel 1920» (p. 175).
L’encomiabile passione che nutre il lavoro di ricerca dell’autore ne ha probabilmente forzato la mano. Zamoyski cade qui vittima di quello strabismo mnemonico ed interpretativo denunciato da Kochanowski (2004, p. 119) quando ha scritto: per i polacchi l’orgoglio della gloriosa vittoria militare, soprattutto dopo il 1945, divenne un «importantissimo punto di riferimento. La Polonia del periodo tra le due guerre è diventata una vera Arcadia: in realtà povera e arretrata, nella memoria collettiva è diventata il paese della felicità, del benessere ( […])». D’altro canto, senza scomodare storici di vaglia, solo una ventina di righe prima di formulare tale sorprendente giudizio, Zaymosky stesso aveva avuto parole che mal si conciliano con le ottimistiche valutazioni successive. Con un artificio linguistico ben reso dalla traduzione – in altre passi invece affrettata – aveva sottolineato il «per nulla incruento» colpo di Stato di PiÅ‚sduski del 1926, cui avevano fatto seguito la fine della democrazia postbellica, la repressione dei comunisti – incarcerati -, e la marginalizzazione degli oppositori del regime (p. 174). Come la dittatura del maresciallo sia potuta divenire una palestra per il senso civico dei Polacchi anni ’90 e non solo – un regime classificato nell’accurato studio di Enzo Collotti (1989, p. 16) come autoritario con debordante carattere nazionalistico-militare – è passo interpretativo davvero arduo da seguire.
Cosa resta, allora, di valido del volume di Zamoyski potrebbe chiosare il lettore una volta fattane la tara delle ipotesi fanta-storiche, fanta-politiche e soprattutto delle loro immaginarie conseguenze di long durée?
Non poco. Innanzi tutto, 16 agosto 1920. La battaglia di Varsavia si propone all’appassionato come una lettura gradevole e mai faticosa, dalla quale traspare un’ammirevole partecipazione per gli avvenimenti dell’autore. Il volume colma una lacuna conoscitiva imbarazzante, proponendo la cronaca di un fatto d’armi senza alcun dubbio poco noto fuori dai paesi in causa e dai circoli degli specialisti.
Zaymoski, purtroppo troppo tardi – a due pagine dalla conclusione – misurandosi con l’ambiguità che ne ha viziato il lavoro ha onestamente osservato con parole pacate e prudenti: «Sarebbe difficile immaginare quanto diversamente avrebbero potuto evolversi le cose in Russia se un qualche tipo di pace fosse stata negoziata all’inizio del 1919, e se l’intera guerra fosse stata evitata. Sarebbe analogamente inutile, sebbene interessante, cercare di arguire le conseguenze di una vittoria russa a Varsavia nel 1920: la Polonia e gli Stati baltici sarebbero stati trasformati in repubbliche sovietiche, seguite quasi certamente da Cecoslovacchia, Ungheria e Romania e, molto probabilmente, dalla Germania, e il resto dell’Europa ne sarebbe stato profondamente influenzato; nessuno può sapere se ciò avrebbe portato alla rivoluzione mondiale o a una crociata internazionale che avrebbe condotto alla distruzione della Russia sovietica» (pp. 93-94).
Nella nuda cronaca fattuale, lo storico polacco si rivela abile a limitare gli effetti distorsivi di quel pregiudizio di fondo che, al contrario, tende ad invalidarne i bilanci conclusivi. Nella narrazione, egli, inoltre, è indotto dalla materia stessa a rifuggire da schematizzazioni formulate alla grossa.
Tra le righe della cronaca, insomma, è da leggere la capacità di Zamoyski di fornire un’immagine della vicenda russo-polacca che non obnubila le complessità.
Parlando dello Stato polacco e delle sue armate, egli ne sottolinea la totale dipendenza «dalle forniture – [quanto interessate o ignare?] – degli alleati occidentali» (p. 21). Fornisce un esauriente resoconto dell’attività politica della Chiesa nelle evenienze dello scontro. In prima fila nel mobilitare le masse con un linguaggio di chiara trasposizione religiosa (crociata anti-bolscevica; miracolo della Vistola), l’impegno cattolico ha un evidente carattere strumentale – messe e processioni si sprecano, e non può mancare il tradizionale (chi non ricorda l’Angelo di Mons?) avallo divino: «Verso il termine della giornata [decisiva] cominciò a circolare una voce che sosteneva che la Vergine Maria fosse apparsa in cielo al di sopra delle truppe polacche e le avesse condotte alla vittoria» (p. 118). Ma Zamoyski è scrupoloso nell’andare oltre questa patina di strumentalità, descrivendo efficacemente quanto un certo habitus cattolico, facendo vibrare le corde più intime dell’uomo medio, affondi le sue solide e genuine radici nel cuore dell’identità polacca.
Ancora, Zamoyski non tace la realtà di uno Stato polacco traversato da palesi ed inqualificabili ingiustizie socio-economiche. Uno Stato che, all’approssimarsi dell’orco russo con il suo messaggio (piaccia o meno) di uguaglianza, vede i suoi ceti dirigenti nel Sejm – il parlamento – correre al riparo con il varo accelerato di una riforma agraria (p. 78) vòlta ad anestetizzare gli effetti delle parole d’ordine bolsceviche presso i contadini senza terra, cioè la stragrande maggioranza della popolazione lavorativa.
L’attenzione riservata alle complessità del campo polacco la ritroviamo, mutatis mutandis, quando dalle valutazioni generali Zamoyski passa a narrare gli avvenimenti quotidiani delle controparte russa. Ecco allora che l’immagine dell’orco bolscevico fideisticamente, fanaticamente e ossessivamente lanciato alla conquista dell’Europa si rivela per quel che è: l’esagerazione interessata della propaganda nemica.
Zaymoski mette in luce due dati particolarmente indicativi.
Primo punto: verso quale direzione riorganizzativa abbia spinto la dirigenza rivoluzionaria pressata dalle sonore sconfitte militari. Snaturando l’aplomb ed il sogno di un esercito autenticamente proletario, già nella primavera del 1920 «accantona[te] le restrizioni ideologiche ( […]) l’ottanta per cento dei quadri dell’Armata Rossa era costituito da ex ufficiali zaristi» (p. 30).
Secondo punto: il turn over di singoli e reparti combattenti al completo tra le truppe belligeranti, indice dell’estrema confusione seguita al crollo asburgico nelle aree confinarie (Galicia, 2008, pp. 560-67). Da un campo ideologico e militare all’altro, non si contarono le defezioni, ripetutesi più volte nel corso del conflitto, fino al caso limite delle due brigate ucraine della XIV Armata russa. «Tali brigate – ha ricordato Zaymoski – costituite da uomini provenienti dall’Ucraina occidentale, avevano fatto parte dell’esercito austriaco durante la Grande guerra, al termine della quale avevano combattuto contro i polacchi per il possesso di Leopoli. In seguito si unirono ai reparti di Petlura [capo nazionalista ucraino] e, quando la sua fortuna si esaurì, all’Armata bianca di Denikin, che avevano abbandonato per i rossi» (pag. 54).
Un ultimo, supplementare motivo d’interesse del volume lo si rintraccia laddove Zamoyski riflette pacatamente sulle ragioni della sconfitta russa, pur in presenza di una superiorità militare acclarata.
Lasciando a margine gli aspetti più tecnici del discorso – il lettore lì troverà elencati e ben illustrati – decisiva sarà l’errata valutazione compiuta collegialmente dallo Stato maggiore russo guidato da Tuhačevskij e dai massimi dirigenti politici. La minimizzazione del sentimento patriottico polacco – una stupida emozione a detta di Lenin (p. 100) – impedirà ai rivoluzionari di professione di afferrare la natura completamente differente della campagna russo-polacca rispetto alle guerre civili. Soprattutto, renderà la dirigenza bolscevica cieca di fronte alla scarsa forza di penetrazione della propaganda comunista presso i proletari polacchi, e sorda di fronte all’urlo di resistenza della fanteria di PiÅ‚sduski, la cui «determinazione si irrobustiva ogni volta in cui» le armate russe «si avvicinavano a zone di importanza vitale per la Polonia» (p. 97). «Tuhačevskij – conclude Zamoyski – non riconobbe alcuna differenza fra le armate bianche e quella polacca, e diede per scontato che lo Stato polacco si sarebbe sbriciolato al cospetto dell’avanzata russa, poiché considerava questa guerra in termini interamente ideologici, non di identità nazionale» (p. 73).
Dopo attacchi e contrattacchi, la disfatta russa, consumatasi nella regione di Varsavia tra il 20 ed il 25 agosto – giorno nel quale le divisioni polacche frenarono l’impeto offensivo (p. 143) – avrebbe rivelato al mondo un’altra verità. Verità di cui Stalin, questa volta sì, saprà far incommensurabile tesoro vent’anni dopo [Overy, 2003].

Alcuni suggerimenti di lettura:

– Babel’ I., L’armata a cavallo. Diario 1920, Marsilio, Venezia 1994.
– Carley, M.J., 1939. L’alleanza che non si fece e l’origine della Seconda guerra mondiale, Città del Sole, Napoli 2009.
– Collotti E., Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1989.
Galicia, in D.H. Gershon, ed by, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, vol. I, Yale University Press New Haven-London 2008.
– Kapiszewski A., Controversial Reports on the Situation of Jews in Poland in the Aftermath of World War I, in “Studia Judaica”, n. 7, 2004, pp. 257-304.
– Kochanowski J., La Polonia di PiÅ‚sduski, in P. Fornaro, a cura di, La tentazione autoritaria. Istituzioni, politica e società nell’Europa centro-orientale tra le due guerre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, pp. 119-61.
– Krajewski S., Poland and the Jews. Reflections of a Polish Polish Jew, Austeria, Kraków 2005.
– Overy R., Russia in guerra. 1941-1945, NET, Milano 2003.
Poland from 1795 to 1939, in D.H. Gershon, ed by, The Yivo Encyclopedia of Jews in Eastern Europe, vol. II, Yale University Press New Haven-London 2008.
– Riasanovsky V., Storia della Russia. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 2008.

Per acquistare il volume:
http://www.webster.it/libri-16_agosto_1920_battaglia_varsavia-9788879728881.htm?a=337441