Classico dell’umorismo inglese, fu pubblicato a Bristol nel 1900 dieci anni dopo Three men in a boat. To say not of the dog, del quale rappresenta il seguito, con gli stessi personaggi. Contrariamente al suo predecessore che era stato programmato come saggio storico e topografico sul Tamigi – solo dopo il grande successo delle parti comiche i brani storici vennero eliminati dal direttore di «Home Chimes» la rivista che ospitò la prima edizione – è nato proprio come romanzo umoristico.

Three Men on the Bummel è il titolo originale e chiunque abbia dimestichezza con l’inglese scopre facilmente che ‘Bummel’ non è parola del dizionario inglese. E Jerome ne fa spiegare il significato al protagonista narratore nell’ultimo capitolo: “un viaggio lungo o breve, senza uno scopo, regolato dalla sola necessità di ritornare in un dato tempo al punto donde si è partiti”. “Viaggio senza uno scopo definito” troveremmo definito in un dizionario di tedesco. Il viaggio è infatti attraverso la Germania, con una puntata a Praga dove George viene convinto a bere meno dopo essersi persuaso che il vedere sempre la stessa statua dovunque sia frutto di allucinazioni, mentre in realtà ne esistono ben tre copie identiche per la città.

E l’occasione per accentuare le situazioni paradossali, nelle quali i tre amici si rivelano come al solito comicamente incapaci di destreggiarsi, viene fornita dal carattere tedesco, onesto e buono e pronto ad eseguire qualunque cosa venga ordinata da chi indossi un uniforme. Anche l’emanciparsi della donna tedesca è guardata con interesse non privo di ironia da Jerome. Infatti i suoi due personaggi sposati (George è ancora scapolo impenitente) si stupiscono che le rispettive mogli non si sentano affatto abbandonate per la loro decisione di mettersi in viaggio in bicicletta attraverso la Germania, ma siano anzi ben felici dell’idea e decidano di concedersi anche loro una vacanza.

Fin dall’inizio del viaggio gli strali dell’ironia sono diretti verso i tedeschi e le loro leggi e abitudini: formidabile la digressione che consente all’autore di riflettere sull’amore tedesco per la geometria, l’ordine e la pulizia al punto di modificare i troppo selvaggi e irregolari paesaggi naturali spingendosi fino al punto di sostituire i nidi degli uccelli, antiestetici e disordinati, con “casette” appese agli alberi. Molto spesso i tre amici sono costretti a fare i conti con la polizia a causa delle strane leggi tedesche. Ma i loro guai sono anche ingigantiti dalle bizzarre idee che si sono fatti sui tedeschi stessi; smarriti, affamati e inzuppati nella Foresta nera sono convinti che dappertutto avrebbero trovato i ristoranti tedeschi, anche in cima alle montagne. La visita a una città universitaria offre lo spunto per discutere del ‘Mensur’, assurda e sanguinaria usanza del duello studentesco, ma anche per osservare le conseguenze negative portate dall’abitudine di bere smodate quantità di birra.

È chiaro che questo romanzo fu scritto per rispondere all’enorme successo di Tre uomini in barca, non solo in Inghilterra e negli Stati Uniti, ma ha comunque una sua dignità autonoma grazie alla capacità dell’autore di esasperare fatti apparentemente banali e farli assurgere ad eventi epocali. L’estraneità dei personaggi rispetto all’ambiente tedesco permette alle situazioni e agli avvenimenti di snodarsi perversamente dotati di vita propria e metter così a dura prova la burbanza di George Harris e del narratore stesso.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

— Ciò che ci occorre, – disse Enrico, – è di cambiare.
In quel momento si aprì la porta, e s’affacciò la moglie di Enrico per dire che veniva da parte di Etelberta a rammentarmi che, per Clarence, non dovevamo far tardi a rincasare. Io tendo a credere che Etelberta si faccia, per i bambini, nervosa senza necessità. La verità è che il piccino non si sentiva male. La mattina era uscito con la zia, la quale, se lo vede guardare avidamente la vetrina d’una pasticceria, ve lo fa subito entrare e gli compra pasticcini di crema e meringhe finchè egli non dice di averne abbastanza, e finchè, con cortesia, ma con fermezza, non rifiuta di mangiar altro. Poi, è naturale, a colazione non vuole che un solo pezzettino di budino, – ed Etelberta immagina che egli si senta male. La moglie di Enrico aggiunse che avremmo fatto bene ad andar presto di sopra, anche nel nostro interesse; se no, avremmo assistito alla declamazione della signorina Muriel del «Tè del cappellaio matto», dall’«Alice nel Paese delle Meraviglie», Muriel è la secondogenita di Enrico, ed ha otto anni: è una bambina vivace e intelligente; ma mi piace più nei lavori seri. Rispondemmo che, finite le sigarette, saremmo andati subito di su; e pregammo anche di non far cominciare Muriel prima del nostro arrivo. Ella promise di trattenere, il più che possibile, la fanciulla, e se n’andò. Enrico, chiusa appena la porta, riprese il discorso interrotto:
— Voi sapete ciò che intendo, – egli disse, – si tratta di cambiare completamente.

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