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Three Lives fu pubblicato a New York nel 1909. Sono tre lunghi racconti che attraversano il vissuto di tre donne. La particolarità e il valore di quest’opera sono racchiusi nell’aver saputo rappresentare situazioni complesse e intersecate con un linguaggio semplice, e un frasario colloquiale che richiama i momenti della vita quotidiana. Si tratta certamente di uno dei vertici espressivi della produzione letteraria di Gertrude Stein.
Nel primo racconto seguiamo la storia di Anna, cameriera tedesca, che emigra a Bridgepoint dove già risiede un fratellastro panettiere. Trova occupazione come governante presso una debole e pigra signora, Mary Wadsmith, che ha accolto in casa i due nipoti orfani, Edgar e Jane. La convivenza con la prepotente Jane non è agevole e Anna decide, dopo molti anni di servizio, di lasciare il servizio presso Mary Wadsmith quando Jane si sposa e prende la direzione della casa. La sua amica signora Lehntman, ostetrica superficiale e pasticciona, riesce a sistemarla a servizio presso il dottor Shonjen che anni prima l’aveva operata, nel momento in cui, pur riluttante, aveva dovuto occuparsi della propria salute. Il matrimonio del dottore con una donna che Anna non può sopportare la induce ad abbandonare anche questa occupazione.
Con la consueta devozione partecipe si impiega presso Mathilda fintanto che costei deve partire. Anna rimane nella casa accogliendo alcuni pensionanti per poter guadagnare qualcosa. Ogni tappa della sua attività è caratterizzata dalla generosità di Anna che con i sudati risparmi si prodiga per finanziare un’impresa fallimentare della signora Lehntman e successivamente per facilitare il matrimonio della figlia di costei, e aiutare con prestiti che mai vengono restituiti quelli che le appaiono in difficoltà, persino la moglie del barbiere. Chiedendo troppo a se stessa, finisce per ammalarsi e muore in ospedale subito dopo un nuovo intervento chirurgico, senza mai perdere il proprio coraggio e la propria dignità.
Melanctha, protagonista del secondo racconto, è una ragazza mulatta e ribelle in perenne conflitto col suo ambiente fin dall’adolescenza caratterizzata dal pessimo rapporto con entrambi i genitori. Quando s’innamora del medico di colore Jefferson Campbell, uomo tranquillo e riflessivo, la sua irrequietezza sarà ostacolo insormontabile per consolidare la loro unione. Neppure le amiche, Jane dapprima e poi Rose, saranno in grado di aiutarla a trovare equilibrio. E attraverso un progressivo sbiadimento dei suoi amori Melanctha giunge alla solitudine e alla morte per tisi.
Lena è una ragazza tedesca, occupata come governante che accudisce bambini piccoli. Appare sempre rassegnata e un po’ assente. La zia riesce a combinarle un matrimonio, non senza impedimenti e imprevisti, con un giovane sarto sempre disponibile ad assecondare i genitori, ma non entusiasta di avere una donna d’attorno. Il giovane sarà invece molto presente nell’allevare i tre figli che Lena mette al mondo sempre con il consueto senso del dovere mai scisso da una pacata rassegnazione. Il quarto parto le sarà fatale e porrà fine a un’esistenza che appare ignorata da tutti.
La traduzione e la prefazione sono di Cesare Pavese.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del primo racconto La buona Anna:
I negozianti di Bridgepoint impararono a temere la parola «signorina Mathilda» perché in questo nome la buona Anna vinceva sempre.
I piú rigidi emporî a prezzo unico finivano per darle le cose un poco a meno, quando la buona Anna dichiarava chiaro e tondo che la «signorina Mathilda» non poteva spender tanto e che la stessa cosa si poteva trovarla a miglior prezzo «da Lindheim».
Lindheim era l’emporio favorito di Anna, perché aveva delle giornate di liquidazione in cui la farina e lo zucchero costavano un centesimo di meno la libbra, e i capi dei reparti erano tutti amici suoi e riuscivano sempre a farle prezzi di liquidazione, anche negli altri giorni.
Anna conduceva una vita ardua e agitata.
Anna dirigeva tutta lei la casetta della signorina Mathilda. Era questa una buffa casetta, fra tante casette in fila tutte uguali, che formavano un mucchio affastellato come una fila di pezzi di domino che un bimbo abbia fatto crollare, perché erano collocate in una via che a questo punto scendeva l’erta di una collina. Erano buffe casette a due piani, con facciate di mattoni rossi e lunghi scalini bianchi.
Questa casetta era sempre piena della signorina Mathilda, di una serva in sott’ordine, di cani e di gatti randagi e della voce di Anna che sgridava, dirigeva, brontolava tutto il santo giorno.
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