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(voce di Luca Grandelis)Marco Revelli, storico e sociologo italiano, figlio del partigiano Nuto Revelli, insegna Scienze della Politica presso l’Università del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro». Fondatore e membro di Lotta Continua, collabora con il quotidiano «il manifesto». Ha scritto numerosi libri con Laterza, Fazi, Chiarelettere, Einaudi. La sua ultima opera è I demoni del potere (ed. Laterza, 2012, già alla sua terza edizione).
Si continua a parlare di «Europa in crisi». Perché?
È vero: l’Europa è in crisi, continuiamo a constatarlo, a toccarlo con mano, a leggerne sui giornali. L’Europa sembra ancora incapace di immaginare se stessa come un’entità complessiva, come un attore unico in un momento in cui l’egoismo dei singoli Stati sembra prendere il sopravvento, in cui l’atteggiamento verso i più deboli fa pensare all’esclusione piuttosto che all’unione. Si pensi ad esempio al destino atroce che l’Europa continua a riservare alla Grecia – che in qualche modo è sua madre: l’Europa sta compiendo una sorta di matricidio lento nei confronti di quella che è stata la culla della sua civiltà. Per dire che, allo stato attuale, l’Europa è «inguardabile», per troppi aspetti è ancora lontana dai progetti dei grandi europeisti del ‘900.
Si tratta solo di problemi economici o c’è dell’altro?
No, a me sembra che i problemi economici siano il riflesso di un decadimento culturale; o di un’assenza di cultura – cioè di un’assenza di visione, nel senso di un ripiegamento su se stessi e sul proprio egoismo (egoismo che è sempre legato a una fondamentale incapacità di visione, di elaborazione, di immaginazione). L’Europa oggi ha come unico nucleo normativo l’aridissima visione totalizzante dell’economia, di un’economia sempre più separata dalla società, di un’economia dogmaticamente interpretata alla luce di pochi e fallimentari principi di un neoliberismo che sta naufragando in tutto il mondo; tuttavia l’economia continua a essere il sapere che alimenta i tecnocrati, da quelli della Banca Centrale ai Commissari europei, figure per altro verso molto mediocri, uomini di cui per la maggior parte non conosciamo neanche il nome, ruoli non legittimati da un consenso elettorale, perché nominate direttamente dalla politica. In più, l’assenza di una Costituzione europea è un problema gigantesco… dico tutte queste cose non perché sia ostile all’Europa, ma perché sono un europeista non conciliato con l’esperienza esistente, osservo che il sogno europeo – a mio avviso una grande costruzione dell’intelligenza e della nostra cultura – venga quotidianemente umiliato dalla pratica di elite di bassissimo profilo, a cominciare dalla grande Germania, che si si affida passivamente all’operato di piccoli funzionari che non arrivano neanche alle ginocchia dei loro predecessori.
Sono stati fatti degli errori in particolare nella costruzione dell’Europa?
Credo ne siano stati fatti molti e tutti concentrati nell’ultimo ventennio. Fino alla metà degli anni ’90 a me sembra che la marcia – per quanto cauta e lenta – fosse stata una marcia positiva e sempre in avanti. Poi la scelta di edificare dapprima le basi monetarie (la scelta cioè di procedere per prima cosa alla costruzione della moneta unica e poi all’unità politica – che non è mai venuta) è stato un errore clamoroso, così come lo è stato quello di separare così direttamente il potere legislativo, nella figura del parlanmento, dal poerter esecutivo, nella figura della Commissione europea, sottraendo al primo qualsiasi controllo sul secondo, e immaginando un potere esecutivo nominato dai governi e non eletto, oltre che non sottoposto a un organo elettivo – struttura che non trova riscontro in nessuno stato federale del mondo. Si poteva scegliere la forma presidenziale, o del parlamentarismo e del semipresidenzialismo, insomma una qualunque delle forme di governo conosciute: si sono scelti invece un’architettura e un assetto bizzarro, senza nessun precedente, con un potere esecutivo sottratto praticamente al controllo di qualsiasi organo elettivo. Un sistema che non ha nessun riscontro nel modello democratico.
Si tratta di un errore da principianti, o di un piano studiato ad arte per qualche motivo?
Si tratta del frutto di un deficit intellettuale, politico e morale. In realtà coloro che hanno immaginato questo percorso hanno scelto di bypassare tutti i possibili ostacoli, hanno scelto di praticare a ogni passaggio la strada più semplice.
Quale politica immagina per un’Europa veramente unita?
Io credo che rimediare a questio guasti, tanto più se dobbiamo farlo in un momento di vacche magre o magrissime, quando le risorse a disposizione sono ridotte al lumicino, sia veramente difficile. Occorrerebbe immaginare una situazione nella quale a quest’asse del nord, dei Paesi che si considerano virtuosi e che sono i forti (ciò che resta tutto da dimostrare: il rigore di bilancio tedesco ha delle falle lungo il suo percorso non da poco) si affianchi un fronte degli altri, dei Paesi mediterranei, dell’Italia, della Spagna, della Francia (che ha un piede nel centreuropa e un altro nel mediterraneo), della Grecia… io sarei felice se invece di sentire continuamente ripetere dai diversi governi «noi non siamo come la Grecia, noi non siamo come la Spagna» (dove ciascuno tenta di sottrarsi al giusdizio negativo dei forti) si stabilissero dei forti legami orizzontali fra questi Paesi e si facesse del gioco di squadra, facendo pesare una massa critica. Non dimentichiamo infatti che una bella fetta di mercato dei Paesi forti sta sul versante sud del continente. Qui l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante: ricordiamo che il nostro Paese è stato uno dei grandi fondatori, uno dei primi a dare inizio al percorso dell’unificazione. Purtroppo il ventennio berlusconiano ha sottratto l’Italia alla sua vocazione europea, togliendole credibilità.
Proprio in Grecia assistiamo alla resurrezione delle destre estreme. Che sta succedendo nella terra della filosofia?
La Grecia negli ultimi due-tre anni ha subito un trattamento di tipo bellico, il memorandum del 2010, ribadito nel 2012 è una sentenza di morte, quello che la troika [Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea e Banca Centrale Europea, N.d.R.] chiama «risanamento» è in realtà un processo neanche tanto lento di necrotizzazione del tessuto economico e sociale. La Grecia ha già perso un 25% del proprio PIL, ha visto le conseguenze delle ricette prescritte dai cosiddetti risanatori europei e globali, ha visto il proprio debito pubblico schizzare in alto, si prevede che arriverà a una quota del 190% del PIL; ciò significa che coloro che questi «risanatori» hanno spinto quel Paesein una situazione dalla quale non potra mai uscire. Adesso si discute se occorra dare alla Grecia 2 anni in più o in meno per raggiungere il livello del 12o% nel rapporto tra il debito e il PIL: ma questo non si raggiungerà mai, nemmeno alla fine del secolo, sulla base di queste terapie mortali. Poi ci si stupisce delle convulsioni del corpo sociale ed elettorale greco: è ovviamente una grande preoccupazione per l’Europa quella relativa alla crescita di questa destra orribile, nazionalsocialista, razzista, xenofoba che pesca nei sentimenti di frustrazione, delusione e paura dei Greci; ma se rimane l’unica preoccupazione, ben poco ci si potrà fare. Per evitarlo bisogna guardare con occhi diversi le sofferenze di quel popolo e non caricarlo di un’ulteriore colpa se si sposta politicamente in quella direzione che è orribile anche per loro. Non si può chiedere ai popoli di mantenersi lucidi e riflessivi quando li si porta a questo stadio limite.
In Italia invece si teorizza a settimane alterne il ritorno alla lire, qualche volta nella variante della doppia circolazione della moneta. Cosa ne pensa?
Non ci credo, comporterebbe un prezzo spropositato. Si porta spesso l’esempio di altri Paesi, come l’Argentina, la quale più di un decennio fa ha scelto di fallire e di rinunciare alla politica di parità fra il peso e il dollaro, recuperando il controllo sulla propria moneta nazionale; si sostiene che l’Argentina in fondo è sopravvissuta a quel passaggio e di fatto si è ripresa. Ma la verità è ben altra: l’Argentina ha pagato quel passaggio con un tasso di disuguaglianza spaventoso, con un livello di povertà molto alto, col fatto che buona parte dei suoi beni (compreso il suo territorio) sia stata acquistata dall’estero; tra l’altro si è dovuta affidare a una direzione politica estremamente autoritaria. Quello è il prezzo che è stato pagato da un Paese che ha fatto quella scelta nel momento in cui il continente latinoamericano cresceva; pensiamo a cosa succederebbe se un Paese europeo facesse la medesima scelta in questo tempo di crisi. Mi rendo purtroppo conto che ci troviamo di fronte a delle alternative che sono tutte negative: restare nell’euro a queste condizioni e con questi equilibri di potere in Europa significa morire lentamente; uscire dall’euro e ritornare alle monete nazionali precedenti comporterebbe una morte ancora più rapida… questo ci mostra in quale angolo cieco ci abbiano condotto le politiche internazionali degli ultimi venti anni. Io credo che il passaggio strettissimo (che assomiglia per me a quello di far passare un cammello nella cruna dell’ago) sia la rinegoziazione del modo di stare dentro l’Europa, la sfida di poter trasformare quest’Europa anche con la spinta della paura per i Paesi forti di venir trascinati nel gorgo. Una scommessa sul fatto che rimanga un brandello di razionalità nei decisori pubblici dei grandi Paesi europei (quelli che poi contano); di fatto, i comportamenti più recenti dell’elite tedesca non lasciano ben sperare.
Concludiamo spostando un po’ il discorso sulla politica italiana: chi le sembra il candidato «più europeo» tra i cinque delle primarie della sinistra?
Ho ascoltato il confronto a cinque in televisione e devo dire sinceramente che – premesso che per alcuni contenuti Nichi Vendola mi sembra un po’ meno piatto degli altri – mi sono sembrati tutti drammaticamente al di sotto della portata dei problemi e spaventosamente lontani dalla dimensione reale del Paese. Parlavano tutti un linguaggio che è quello di chi pensa che si tratti solo di «mettere a posto un po’ di soprammobili», in una casa tutto sommato stabile. Invece la casa sta crollando e nessuno mi è sembrato consapevole di questo. Temo che stando così le cose, l’unico italiano che oggi – nel «repertorio» di uomini politici visibili sul piano internazionale – che venga stimato all’estero sia Mario Monti, il quale purtroppo fa parte del gruppetto di coloro che condividono quella cultura che ci ha portati a questa crisi; Monti si trova dunque a mio avviso sul versante della malattia e non della cura.
Quindi è legittimo pensare che il riconoscimento tributato dall’Europa a Mario Monti sia dovuto in buona parte a questa appartenenza, oltre che alla competenza.
Direi di sì. Senza per questo negare la sua competenza, credo che Mario Monti sia sopravvalutato.