Questa raccolta di brevi saggi di Luigi Capuana pubblicata nel 1882, come dice il titolo, è pensata come una continuazione del volume di due anni prima. Quasi tutti questi scritti erano in precedenza pubblicati come articoli sul “Corriere della Sera”.

Gran parte dei saggi sono dedicati ad autori italiani e in minor parte ad autori francesi, i più importanti dei quali sono Balzac, Daudet e Zola (quest’ultimo trattato anche nel volume precedente). Uno scritto è dedicato anche all’inglese Byron. Eccezionalmente è presente un saggio riguardante non uno scrittore ma un artista figurativo, il francese Paul Gavarni, definito dall’autore come il ‘Balzac della matita’.

Fra gli autori italiani presentati dall’autore spicca il nome di Giovanni Verga, di cui Capuana recensisce favorevolmente I Malavoglia (pubblicato un anno prima, nel 1881) esaltando la sua svolta verista con le seguenti parole

«Un’opera d’arte, novella o romanzo è perfetta […] quando la sincerità della sua realtà è così evidente, il suo modo e la sua ragion d’essere così necessarie, che la mano nell’artista rimane assolutamente invisibile e l’opera d’arte prende l’aria d’un avvenimento reale, quasi si fosse fatta da sè.»

Fra gli altri autori italiani a cui il Capuana dedica un saggio sono da segnalare il poeta Carlo Dossi e Giovanni Faldella, autore che venne riscoperto nella seconda metà del ‘900 da critici come Gianfranco Contini. Solo un saggio è dedicato a una autrice, si tratta di Neera, che era anche conosciuta personalmente dall’autore.

Sinossi a cura di Michele De Russi

Dall’incipit del libro:

GINO CAPPONI
Chi dimorò in Firenze negli anni della capitale provvisoria incontrò spesso per le vie un vecchio di regolare statura, dai capelli bianchi, dalla barba anche bianca che gli contornava la faccia, con un occhiale bleu a quattro lenti da cui veniva malamente nascosta la sua cecità, con abiti decenti ma infilzati alla meglio e scarpe grossolane che stonavano un poco coll’aspetto dignitoso e coll’aria signorile di tutta la persona. Appoggiato al braccio d’un servitore meno vecchio di lui, andava con passo alquanto affrettato, la testa alta, le labbra un po’ affondate dentro la bocca priva di denti. Era un personaggio che faceva impressione e destava curiosità; si capiva facilmente come non fosse un uomo volgare. Infatti era il marchese Gino Capponi.

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