Silenzio

di
Edgar Allan Poe

tempo di lettura: 7 minuti


Le sommità delle montagne riposano;
la vallata, le rocce e la caverna sono mute.

Alcman.

— Ascoltami, disse il Demonio, posandomi la sua mano sulla testa. La contrada di cui ti parlo è una ben triste contrada nella Libia, sulle rive del fiume Zaira. E là non regnano nè riposo, nè silenzio.

Le acque del fiume, malsane, sono di un colore giallognolo; nè esse scorrono al mare, ma agitansi eternamente sotto l’occhio infuocato del sole con movimento tumultuoso e convulsivo. Da ambe le sponde di questo fiume dal letto melmoso, ad una distanza di parecchie miglia, si stende un pallido deserto di gigantesche ninfee, le quali mandansi in quella solitudine reciproci sospiri, ed innalzano verso il cielo i loro esili colli di spettri, eternamente ondeggiando i mesti lor capi. – Si eleva da esse un mormorio confuso, simile a quel di torrente che scorra sotterra; – e continuano vicendevolmente a mandarsi gemebondi sospiri.

Ma il loro impero ha pure i suoi confini, che sono stabiliti da un’immensa, nera ed orribil foresta. Ivi, a guisa dei flutti che flagellano le Ebridi, piccoli e spessi alberi agitano continuamente le loro fronde. E pure non è ventoso quel cielo. E primitivi alberi smisurati fluttuano eternamente da questo e da quel lato con fracasso orrendo: e dalle sublimi lor cime stilla a goccia a goccia un’eterna rugiada. E a’ lor ampii pedali piante strane e velenose contorconsi in agitato sonno. E sulle sublimi lor teste con iscroscio reboante, sempre di verso occidente, precipitansi grigiastre nubi sino a che que’ vegetali annosi, qual ampia cataratta, rovesciano dietro i limiti infiammati dell’orizzonte. Né spiro di vento si agita per lo cielo: e sulle rive del fiume Zaira non havvi calma, e non havvi silenzio.

Era notte, e la pioggia cadeva; e, nel suo cadere, era acqua, – caduta, pareva sangue. Ed io stavami confitto in quel tristo padule tra grandi ninfee, e la pioggia mi cadeva sul capo, – e le ninfee mandavansi reciproci sospiri nella solennità di quella loro desolazione.

E d’un tratto la luna levossi a traverso il lieve velo di quella funebre nebbia, e mostrò il suo disco splendente d’un vivo chermisino. E i miei occhi si fermarono sopra una grigiastra roccia, elevantesi alla sponda del fiume, sulla quale la luna effondeva lo strano suo splendore. E la roccia era grigiastra, e sinistra e altissima; – e la roccia era grigiastra! – Sopra il suo frontone apparivano impressi grossi caratteri; ed io stentatamente avanzava in mezzo a quel padule di ninfee, anelo di toccare la sponda e poter così leggere distinte le lettere impresse sulla pietra. Invano! non riuscii a decifrarle. Ed io stava per immettermi ancora nel mezzo del padule; quand’ecco la luna brillare d’un rosso suo più vivo; e mi rivolsi e nuovamente guardai verso il masso e verso i caratteri; – e i caratteri dicevano: DESOLAZIONE!

E drizzai più in su lo sguardo, ed al sommo della roccia vidi immobile un uomo; e tosto, a spiare le di lui azioni, mi nascosi tra le ninfee. Grandi e maestose erano le sue forme, e dalle spalle a’ piedi egli era avvolto solennemente nella toga dell’antica Roma. I contorni della sua persona, indistinti – ma le sue linee, quelle d’una vera divinità; avvegnachè, malgrado le ombre della notte, e la nebbia, e la luna, e la rugiada, – i contorni del volto brillassero di luce. Ed alta e grave di pensieri la fronte, ed il suo occhio, come per affanno, torbido; e nelle ampie rughe delle sue guance io lessi le leggende dell’affanno, della fatica, del disgusto dell’umanità, e d’una grande aspirazione alla solitudine.

E l’uomo si assise sulla roccia, e la testa appoggiava sulla mano; – discorse lo sguardo sopra quella desolazione. Osservava gli alberelli irrequieti e que’ grandi alberi primitivi: più in alto fissò il cielo conturbato di lievi nubi e la luna tinta di sangue. Ed io men giaceva tutto rannicchiato tra le ninfee, tutt’occhi sulla persona di quell’uomo strano. Ed egli in mezzo a quella solitudine tremava; – ma intanto la notte si faceva alta, ed ei perdurava immobile sulla roccia.

E l’uomo stornò dal cielo lo sguardo, e lo diresse sul lugubre fiume Zaira, su quelle acque gialle e di morte, sulle pallenti legioni delle ninfee. Ed egli ascoltava attento i sospiri delle ninfee e il cupo mormorio che da queste si alzava. Ed io me ne stava accoccolato in quel mio nascondiglio, tutte spiando le azioni dell’uomo. E l’uomo tremava nella solitudine; – e intanto la notte avanzava, ed e’ perdurava assiso sopra la roccia.

Allora mi spinsi nelle più remote parti del padule, calpestando i pieghevoli capi delle ninfee, e chiamando gli ippopotami, abitatori dei gorghi profondi del padule. E gl’ippopotami intesero la mia chiamata e si recarono in compagnia dei serpenti tortuosi, sino a piè della roccia, e misero alti e spaventosi ruggiti, sotto la luna. Io era sempre rannicchiato nel mio nascondiglio, tutt’occhi sulla persona di quell’uomo; e l’uomo tremava nella solitudine; – e nondimeno la notte avanzava, e l’uomo persisteva immobile sulla roccia.

Io allora maledissi gli elementi, – della maledizione del tumulto; e una tempesta spaventosa si addensò su ‘n cielo, ove poc’anzi nessun filo d’aura alitava. E il cielo si fe’ livido della violenza della tempesta – e la pioggia flagellava il capo dell’uomo, – e i fiotti del fiume straripavano, – e le sue acque, tormentate sprizzavano in ischiuma, – e le ninfee mandavano stridi dai loro letti, – e la foresta a’ colpi del vento curvava, – e rumoreggiava il tuono, – e guizzavan saette, e vacillava la roccia sin dall’ime fondamenta. Ed io me ne stava sempre accoccolato nel mio nascondiglio a spiare le azioni dell’uomo. E l’uomo tremava in quella solitudine: – intanto la notte avanzava sempre, ed ei restava immobile sulla roccia.

Allora mi punse un’irritazione viva, e maledissi – della maledizione del silenzio – il fiume e le ninfee, e il vento, e la foresta e il cielo, e il tuono e i sospiri delle ninfee. Ed essi tutti andarono colpiti della mia maledizione, – ed ammutolirono. E la luna arrestò in cielo il penoso suo corso, e i tuoni cessarono, nè più lampeggiarono saette, e le nubi stettero gravemente, e le acque ritornarono ai loro letti – e vi giacquero; e gli alberi finirono di agitare le loro cime, nè più sospirarono le ninfee, cessando di sollevarsi ogni arcano mormorio dagl’innumeri loro steli, nè più udissi la menoma voce in tutto quel solenne deserto senza confini. Ed io fissava i caratteri della roccia, che si eran mutati; – ed ora essi rappresentavano questa parola: SILENZIO.

E i miei occhi ricaddero sulla figura dell’uomo, e tutto il suo aspetto era livido per terrore. – Ei con impeto tolse dalla mano il capo, si rizzò sul masso e tese l’orecchio. Ma, in tutta la immane solennità di quel deserto sconfinato, non una voce; e le lettere impresse sulla roccia, queste: Silenzio. E l’uomo arricciò di paura in tutto il corpo, e fe’ repente un voltafaccia e fuggissi lontano lontano, a precipizio, tanto che dileguossi, nè io più lo vidi — . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Certo trovansi di bei racconti nei libri dei Magi, nei melanconici libri de’ Magi, che sono legati in ferro. In essi, dico, trovansi narrazioni splendide – del cielo, della terra e del potente mare, – e de’ Genii che regnarono sul mare, sulla terra e ne’ sublimi cieli. E scienza profonda eziandio rivelavasi nelle parole che sono state proferite dalle Sibille: – e sante, sante cose furono un tempo udite dalle melanconiche quercie che agitavansi intorno a Dodona; ma, come è vero che Allah è vivente, io ho per fermissimo che questa favola narratami dal Demonio, quando ei si assise al mio fianco nell’ombra del sepolcro, sia la più meravigliosa di tutte.

E allora che il Demonio ebbe finito questa storia, riadagiossi nel profondo vano del sepolcro, e si mise a ridere. E io non potei ridere col Demonio: – ed e’ mi maledisse, perchè non mi fu possibile ridere con lui. Allora la lince, che abita eternamente i sepolcri, uscì fuori e si accovacciò a piè del Demonio, ponendosi a fissarlo intensamente negli occhi.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Silenzio
AUTORE: Poe, Edgar Allan
TRADUTTORE:

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti straordinari / di Edgardo Poe. - Milano : Sonzogno, 1883. – 96 p. ; 18 cm.

SOGGETTO: FIC027040 FICTION / Romantico / Gotico