Pubblicato la prima volta nel 1917, Signorine di studio rappresenta il passaggio dell’autrice dalla letteratura per l’infanzia, articolatasi con la collaborazione al “Corriere dei Piccoli” e culminata con il romanzo Piccolo esploratore, va!, alla narrativa per adulti, rivolgendosi in particolare ad un pubblico femminile. Il romanzo segue le esperienze di vita e professionali di una giovinetta – Gabriella Aldani, Ninì per i familiari – che a 16 anni, perso il padre, con la mamma, una sorella e due fratellini gemelli, si affretta a completare un corso per avere una licenza alle scuole commerciali e trovare un modesto lavoro impiegatizio indispensabile per sostentare la famiglia.

La vicenda è ambientata tra Verona e Milano, con puntate sulla riviera del Garda e un brevissimo accenno a quella ligure – in un’epoca nella quale il treno impiegava mezz’ora tra Savona e Varazze… – a cavallo dei primi due decenni del ventesimo secolo; la narrazione termina infatti con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 e il susseguente abbandono dei posti di lavoro da parte del personale maschile per recarsi in guerra. È l’epoca nella quale la borghesia italiana cercava affannosamente di modernizzare il paese secondo le esigenze di una rivoluzione industriale che stentava a prendere davvero quota, ma che aveva comunque bisogno di personale sia per le fabbriche che per i relativi uffici commerciali. Gabriella si impiega dapprima a Verona in un’azienda di gomme e affini e successivamente approda a Milano in una più articolata industria chimica. Abbiamo quindi sotto gli occhi il contrasto tra una vita ancora ai margini del mondo agricolo e quella di una aspirante “metropoli”. Quando progetta di portare con sé la mamma a Milano Gabriella le dice:

«Qui, adoperi le lucerne a petrolio che ti fanno puzzare le mani, là c’è luce elettrica dappertutto. Qui ti sfiati a soffiare sulla legna e sul carbone, là il gas ti cucina ogni cosa in un momento. E poi, le camere tappezzate, il bagno, i caloriferi; e delle strade larghe, piene d’alberi e dei negozi incantevoli…»

Questo “ammodernamento” richiedeva anche manodopera a basso costo, e cosa di più conveniente della mano d’opera femminile? L’autrice non manca di particolareggiare sui dettagli delle retribuzioni e lo stridere tra le paghe maschili e quelle femminili è evidente. Il problema si è trascinato per decenni, nonostante le lotte per sensibilizzare il mondo femminile, e non solo, sull’argomento. E anche quando sembra formalmente superato lo è solo in parte, perché non si discrimina più, nei contratti, tra donna e uomo, ma per le donne la carriera, i passaggi di categoria, il riconoscimento della qualità del proprio lavoro è sempre più impervio. Recentemente nel film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, ambientato a Roma alla vigilia del voto del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando la protagonista Delia si accorge di essere pagata molto meno dal titolare della fabbrica di ombrelli rispetto a un giovanotto che non sa fare affatto quello che lei invece fa con maestria e fa le sue rimostranze al principale, questo le risponde: «ma tu sei una donna!» Quindi dopo trent’anni rispetto alle vicende di Gabriella, dei quali venti trascorsi sotto il regime che la borghesia italiana aveva scelto appunto per “modernizzare” il paese, per le donne non era cambiato nulla. In tutta Europa la letteratura si è confrontata con i problemi della condizione della nascente classe operaia, poche però sono le opere che affrontano la questione sotto il punto di vista della condizione della mano d’opera femminile.

Ricordo la raccolta di novelle Le solitarie di Ada Negri (https://liberliber.it/autori/autori-n/ada-negri/le-solitarie/) prima opera in prosa per questa scrittrice, e in particolare la novella d’apertura dove Feliciana è cucitrice in un laboratorio tessile. Matilde Serao tratta l’argomento del lavoro femminile nella raccolta di cinque novelle Il romanzo della fanciulla (1885) (https://liberliber.it/autori/autori-s/matilde-serao/il-romanzo-della-fanciulla/) ma, presto appagata dal suo lavoro giornalistico, dimenticò presto il suo lavoro da “telegrafista” – per il quale aveva sottolineato la solitudine e la tristezza delle donne lavoratrici –, si dichiarò poi sempre “antifemminista”. Sul lavoro delle telegrafiste abbiamo, grazie al recupero di Italo Calvino («il più misogino tra i grandi» come lo definisce Valeria Palumbo) che lo ha ripescato dalla più totale dimenticanza ripubblicandolo nel 1975 nella sua collana “Centopagine”, Ricordi di una telegrafista di Nyta Jasmar (Clotilde Scanabissi Samaritani), che proporremo presto anche in questa biblioteca Manuzio.

Per il lavoro operaio in fabbrica si può menzionare un paio di romanzi di Beatrice Speraz (Bruno Sperani) (https://liberliber.it/autori/autori-s/bruno-sperani-alias-beatrice-speraz/) Fabbriche e Nell’Ingranaggio. Il mondo cattolico era fieramente avverso all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro dell’industria (fabbriche e uffici), luoghi pericolosi per la salvaguardia della moralità, e patrocinavano invece il lavoro a domicilio. Non era l’aspetto del lavoro gravoso o la sottrazione di tempo alla “naturale” attività di accudimento che turbava i reazionari, diversamente avrebbero osteggiato anche il lavoro femminile nelle campagne, ma proprio la natura del luogo dove questo lavoro si svolgeva. Quando i socialisti proposero la settimana lavorativa di 48 ore si preoccuparono di lasciare il sabato pomeriggio libero alle donne, ma la proposta specificava che questo pomeriggio era previsto per potersi dedicare alle incombenze domestiche. Anche per questa ragione diverse donne (la già citata Ada Negri e Margherita Sarfatti, per esempio) passarono dal socialismo al fascismo nell’illusione appunto che potesse essere una strada verso una modernizzazione e una possibile emancipazione.

Bianca De Maj non raggiunge certamente vertici letterari memorabili, ma fornisce uno spaccato di vita delle donne negli uffici, non solo quella della protagonista ma anche dei numerosi personaggi di contorno, delle sue colleghe e colleghi sia a Verona che a Milano. Il problema lo percepisce, certo non con la visione di indagine storico-sociale che può essere fatta oggi, ma istintivamente, visceralmente:

«Ella continuò la sua vita di signorina d’ufficio, non nel senso generico che fa di quella classe l’anello di congiunzione fra l’istitutrice e l’operaia, che fonde in essa l’aspirazione del volgo e il rifiuto della borghesia.»

Perché questo trasferimento da Verona Milano? Gabriella sfugge per un pelo a un tentativo di stupro da parte del suo direttore che di lei si era invaghito, personaggio odioso abituato a soddisfare i propri desideri appoggiandosi a denaro e potere, e può usufruire del trasferimento grazie a uno dei due principali che aveva imprevedibilmente assistito al tentativo, sventandolo. Anche a Milano, anche questa volta in una fiorente industria chimica, la graziosa Gabriella grazie a una sua incauta affermazione in seguito a una richiesta di aumento di stipendio riceve una risposta “maschilista” e prevaricatrice. La molestia sessuale sul posto di lavoro è argomento che percorre tutto il romanzo, grazie per esempio alle disinvolte azioni del giovane figlio del principale che approfitta platealmente della sua posizione per infastidire e circuire il personale femminile. Quando si prende uno sganassone da un’operaia da poco entrata in fabbrica proveniente dalla campagna, chi legge non può non provare una viva soddisfazione.

Bianca De Maj non si discosta dalla visione tradizionale che vede la donna aspirare unicamente al matrimonio e alla maternità. Sottolinea che al lavoro «in ritmo d’orario la giovinezza sfiorisce».

«L’antico sogno, l’unico, che porta ogni donna sulla strada del destino originario: una casa, un amore, una maternità.»

D’altra parte i dati statistici facilmente consultabili confermano che nelle fabbriche e negli uffici lavoravano prevalentemente le nubili e le “spose tardive”. Gabriella per poter guadagnare un poco in più è costretta a pesanti lavori serali, ma le vicende la portano ad avere l’occasione per un poco di avanzamento di carriera e per una retribuzione più dignitosa. Ma l’amore le manca, anche se ci sarebbe l’occasione di fronte alla quale la sua inibizione intrisa di moralità la fa recedere pur tra mille conflitti interiori:

«Perchè non si deve potere, perchè non si può volere… Perchè è un amore colpevole? Ma io lo purifico con la mia fiamma. Perchè è un amore infecondo? Ma io gli dono la genitura delle mie lagrime.»

Oltre alla sua collocazione storico-sociale alla quale abbiamo fatto cenno (ma l’argomento meriterebbe uno svolgimento decisamente più articolato) questo romanzo ha comunque angoli di interesse in vari suoi passaggi: dalla descrizione dell’entrata in convento come monaca di clausura della sorella di Gabriella, all’ambientazione dei vecchi e polverosi uffici del primo novecento (ma rimasti simili fino agli anni ’60-’70 del secolo scorso) che sarebbero irriconoscibili per lavoratrici e lavoratori d’ufficio odierni. Chi conosce oggi, se non ha almeno 75-80 anni, la pratica del “copialettere” con il suo apposito torchio e gli inchiostri copiativi? Ed è proprio attorno al torchio del copialettere che Gabriella deve difendersi dalle disgustose “advances” del suo direttore. Ma quasi certamente il motivo più ricorrente resta quello della rinuncia e dello sfiorimento precoce delle “signorine di studio”, così spesso private del matrimonio e della maternità.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Entrò, una mattina d’agosto, nella Ditta Caroni e Valli (gomma elastica, guttaperca e affini) a far parte delle impiegate nell’ufficio di ragioneria. Si chiamava Gabriella Oldani; aveva sedici anni e un abito di tela grigia.
Veniva dalla borghesia della provincia: oscura, povera, ma non volgare. Anzi, sua madre era nobile, con un volto di finezza e di tristezza. Suo padre era morto lasciando, con lei adolescente, una sorella: Maria; due gemelli: Nino e Rino, e una pensioncina di novanta lire al mese.
La sorellina aveva la vocazione del chiostro. I gemelli avevano dei riccioli biondi e una fame da scoiattoli.
Con tre franchi al giorno, per cinque persone, la vita diviene un problema; che affatica e che non si può risolvere. Perciò il pane bruno, pei dentini insaziabili, non bastava mai; perciò la vedova Oldani, nonostante la corona sul biglietto da visita, piangeva spesso sopra un pentolino di riso troppo piccolo. E perciò Gabriella che in casa, per diminutivo, chiamavano Ninì, uccelletto maggiore della nidiata, aveva dovuto pensare al suo volo.

Scarica gratis: Signorine di studio di Bianca De Maj.