Il generale Capello si propone con questo suo testo di rendere conto della propria azione in guerra, prima quale comandante della nuova armata sul fronte goriziano nel marzo 1917, e poi quale comandante della seconda armata durante le operazioni che condussero al ripiegamento dell’esercito italiano dall’Isonzo al Piave. Il volume ha quindi carattere essenzialmente difensivo e si popone l’obiettivo di ribattere le conclusioni alle quali approdò la commissione d’inchiesta a proposito dell’opera svolta dal generale medesimo. Scrive infatti l’autore:

«Lo scritto è quindi opera di necessaria difesa. Difendo la mia dignità di uomo e il mio onore di cittadino e di soldato, perché ne ho il dovere e ne ho il diritto. Difendo anche la causa della giustizia e questo sarà utile per tutti».

Capello fa precedere al suo scritto una lettera del capitano Lorenzoni; tale lettera vuole mettere in rilievo quale rapporto esistesse tra il generale e i suoi ufficiali, ma tale esposizione che appare piuttosto apologetica è stata smentita negli anni da altre testimonianze di tutt’altro tono. Tra le tante scelgo quella del tenente Edoardo Magni il cui racconto è alla base del libro di Giampaolo Pansa Eia eia alalà:

«Altrettanto brutale era il capo della II Armata, il generale Luigi Capello, detto Tristaccio. Aveva cinquantasei anni, era un piemontese di Intra, un omone straripante, massone, spregiudicato, aggressivo, sempre circondato da giornalisti, politici e faccendieri. Era un militare persino troppo ansioso di combattere. E convinto che esistesse un solo modo di fare la guerra: con la crudeltà.»

Edoardo Magni era in servizio però nella terza armata comandata dal principe Emanuele Filiberto di Savoia, il Duca d’Aosta.

L’esposizione della propria azione da parte di Luigi Capello è sistematica e prende in esame la sua azione di comandante e di educatore delle truppe, citando fatti, documenti, testimonianze. Attraverso questa minuziosa esposizione si precisano e si chiariscono carattere e particolarità di questo generale, il cui nome e la cui opera sono in stretta connessione con le pagine più salienti della partecipazione italiana alla prima guerra mondiale, da Gorizia a Caporetto. È corretto che l’esame storico di questa vicenda prenda in considerazione questa esposizione di fatti e apprezzamenti, che va accolta e meditata, per poter formulare una parola il più possibile equa e storicamente credibile. Infatti il generale Cadorna e i suoi difensori sostennero da subito una tesi “politica” in base alla quale il disastro di Caporetto fu dovuto ai casi di diserzione precedenti al disastro e ai casi di resa a discrezione che avvennero durante il disastro stesso. E questo fu, secondo Cadorna, la conseguenza della propaganda “disfattista” che veniva tollerata e che era alla radice della demoralizzazione delle truppe. La versione del generale Capello serve se non altro a riequilibrare giudizi che apparvero fin dal primo momento soprattutto funzionali ad esercitare influenza durante campagne elettorali. Come scrisse Pietro Nenni in un suo articolo su “Il Secolo Illustrato” del primo Marzo 1920,

«la parola definitiva su Caporetto non è certamente quella della Commissione d’Inchiesta nominata dall’on. Orlando. Con tutto il rispetto per alcuni membri della Commissione […] il giudizio non risulta sempre esatto ed imparziale».

Per questo il libro del gen. Luigi Capello può rappresentare ancora oggi una lettura utile per capire le ragioni più specificamente belliche e militari – supportate anche dalla testimonianza di Badoglio – e pure personali, in quanto Capello durante la disfatta era malato. Dice Capello:

«Di fronte a queste contraddizioni ed a queste difficoltà la mia situazione, già dolorosa di per sé, si faceva tragica. Vedevo la salvezza nella manovra e ignoravo se avrei potuto eseguirla».

Alla vigilia di una grande e forse decisiva battaglia il comandante dell’armata minacciata (Capello, appunto) costretto a letto si adoperò inutilmente per poter conferire con il suo capo diretto. L’Ufficio operazioni di Comando Supremo sembra che valutò superfluo mettere direttamente a contatto il generale Capello con il generale Cadorna. Pare quindi che la burocrazia fosse attivamente all’opera per danneggiare e ostacolare iniziative ragionevoli. La Commissione d’Inchiesta concluse che

«circostanze eccezionalmente favorevoli e per il nemico addirittura estremamente fortunate abbiano consentito l’avanzata della XII divisione Slesiana per il fondo valle Isonzo».

La Commissione non potè tuttavia non riconoscere che se la linea monte Plezia-Foni-Osteria fosse stata meglio difesa e munita ci sarebbe stato tempo e modo per il resto della brigata di giungere in soccorso nonché per qualche gruppo di artiglieria di intervenire. Dice quindi Nenni nel già citato articolo:

«Resta così stabilito che nel punto più delicato da difendere non c’era che un battaglione isolato, giunto sul posto poche ore prima dell’azione, facile preda quindi del nemico.»

Conclude poi il suo articolo scrivendo:

«Che nelle fasi delle fortunate azioni che vanno dal 24 ottobre al 9 novembre vi siano stati casi di diserzione, di scarsa difesa, di resa a discrezione purtroppo è vero, che il morale delle truppe lasciasse molto a desiderare è pure vero. Tutto ciò però non toglie che il disastro abbia origini puramente militari. E questo andava detto perché non restasse nell’esercito un’accusa di tradimento e di viltà che non resiste alla obbiettiva esposizione dei fatti»(1)

E per rintracciare queste origini puramente militari del disastro di Caporetto lo scritto di Luigi Capello è certamente un tassello utile.

La commissione d’inchiesta fu particolarmente indulgente nei riguardi di Badoglio; entra qui in gioco il ruolo della massoneria, alla quale appartenevano sia capello che Badoglio. Aldo Alessandro Mola scrisse in proposito (Storia della Massoneria italiana dall’Unita alla Repubblica):

«L’inchiesta mandò assolto da ogni addebito il generale Pietro Badoglio, comandante del XVII corpo d’armata, il cui cedimento spezzò il fronte e determinò il tracollo dell’intera armata […]. L’inusitata clemenza della Commissione [fu] da molti attribuita ai legami di Loggia che avrebbero unito Badoglio a Capello medesimo e ad Armando Diaz.»

In realtà l’appartenenza di Diaz alla massoneria è assai controversa, anche secondo Mola, il quale aggiunge poco dopo:

«Va infine ricordato che senza ombra di dubbio ove il Grande Oriente avesse avuto modo di orientare le conclusioni della Commissione d’inchiesta su Caporetto, non avrebbe esposto a una conclusione severissima e mortificante il generale Luigi Capello, anche da quelle risultanze spinto sul pericoloso terreno di un revisionismo che lo vide schierato vicino a Mussolini.»

Ma Giorgio Galli commenta (La venerabile trama. La vera storia di Licio Gelli e della P2):

«L’influenza della Massoneria sulla Commissione d’inchiesta, data per acquisita da molti storici, probabilmente non poteva spingersi sino alla difesa dell’avventuroso generale Capello, sempre propenso all’offensiva e che aveva disatteso gli ordini di Cadorna, volti a modificare in senso difensivo lo schieramento della II armata, in vista del previsto massiccio attacco austro-tedesco.»

Tra storici, commentatori e giornalisti la valutazione dell’operato di Luigi Capello è abbastanza omogenea. Citiamo ancora quello che scrive Raffaello Uboldi

«[…] Uomini che guardavano ai loro ufficiali e graduati con la devozione di un gregge di pecore al pastore, e non potevano credere che li avrebbero condotti a morire, oppure ne avevano un tale timore reverenziale da preferire il fuoco avversario alla punizione che gli sarebbe venuta qualora si fossero dimostrati «vili di fronte al nemico», era il termine più usato per bollare l’insuccesso di un attacco, e assolvere chi l’aveva deciso, addirittura sapendolo impossibile, ed era un’accusa che poteva comportare la decimazione, un soldato ogni dieci dichiarato colpevole per tutti, un processo rapido e il plotone di esecuzione. Uomini di truppa, la «bassa forza» come venivano chiamati in gergo militare, considerati nelle alte sfere – una incredibile accozzaglia di sadici, di mistici, di incapaci, valga per tutti l’attributo di «macellaio» caduto sulle spalle del comandante della Seconda Armata, il generale Luigi Capello, per qualificare il disprezzo che aveva per la vita dei soldati – nient’altro che carne da cannone, caduti a centinaia di migliaia nel corso delle più inutili delle offensive, cos’altro erano state le undici offensive dell’Isonzo, malgrado l’aggettivo di «gloriose» che gli avevano attribuito?»

Ancora più decisa è la presa di posizione di Angelo D’Orsi (1917. L’anno della rivoluzione):

«alla luce di quanto si sa, in termini oggettivi, il responsabile della rotta, oltre ovviamente a Luigi Cadorna, che rimane il n. 1 in questa classifica di nefandezze, è il generale Luigi Capello, diviso da Cadorna da profondi dissidi di strategia, di tattica, oltre che di ambizione personale.»

Capello sorvola talvolta in modo imbarazzante su questioni invece di importanza nevralgica. Ne cito una a titolo di esempio. Nel testo di Capello si fa cenno in maniera vaga all’uso di gas da parte degli austriaci. Giovanni Comisso, che era appena diventato sottotenente dei radiotelegrafisti e che nella ritirata di Caporetto fu coinvolto, dice:

«Quei soldati erano fermi, impietriti dalla morte che la piccola e miserabile maschera non aveva servito a impedire».

In pratica un intero reggimento venne annientato in questo modo. Comisso racconta che quei soldati erano tutti al loro posto con il fucile tra le mani e la maschera sul volto. Mille tubi elettricamente comandati erano piovuti sulle trincee italiane e i soldati erano morti senza neppure capire cosa stava accadendo. In questo caso non credo si sia trattato di cinismo ma di pressapochismo. Nei bollettini emessi quattro ore dopo si afferma che i danni sono stati contenuti e di poco rilievo. Questo fatto avvenne preliminarmente all’offensiva che gli austriaci sferrarono poco dopo (e che era largamente prevista) e non fu certo ininfluente al fine di indebolire la capacità delle linee italiane di resistere.

Ribadisco, alla luce di queste brevi riproposizioni di posizioni piuttosto autorevoli, che l’autodifesa di Capello può essere un tassello utile per la conoscenza dei fatti ma va inserito nel contesto più ampio di uno studio approfondito; cito come esempio 1915-1918. Storia della grande guerra sul fronte italo austriaco, di Stefano Gambarotto.

Sinossi a cura di Paolo Alberti


(1) Per contestualizzare il senso dell’articolo di Pietro Nenni va ricordato che lo stesso era stato interventista – andò volontario al fronte tre giorni dopo l’entrata in guerra e nuovamente al fronte, dopo essere stato a casa per una convalescenza per ferite, dopo la disfatta di Caporetto –. L’anno successivo, nel 1921, Nenni, che aveva nel frattempo maturato convinzioni politiche diverse, scrisse il suo primo articolo per “L’Avanti!” La bancarotta dell’interventismo di sinistra. L’articolo che ho citato è quindi utile per comprendere, oltre che le posizioni di Luigi Capello, anche una fase importante dell’evoluzione personale del famoso leader socialista.

Dall’incipit del libro:

Mentre mi accingevo a scrivere queste pagine, per ribattere le accuse atroci che la Commissione d’inchiesta mi ha lanciate senza prova, ho ricevuto dal capitano avvocato Lorenzoni, la lettera che qui di seguito riporto ed uno scritto annesso che pure testualmente trascrivo.
Il capitano Lorenzoni, dopo aver fatto il suo dovere in Carnia, nel Trentino all’epoca della «Strafeexpedition›, a Gorizia, nella zona del Monte Mrzli, fu assegnato nel settembre del 1917 al Comando della II Armata per il servizio di propaganda. Nella lettera egli dice quali siano le ragioni che lo hanno mosso a prendere la penna, e nelle note che vi sono annesse, prende apertamente, senza sottintesi, e con profonda convinzione la mia difesa.
Nulla ho voluto togliere alla impetuosità dello scritto per non falsarne il carattere. Il valore del documento deriva dal fatto che l’autore, per le funzioni che ebbe al Comando d’Armata, durante la mia presenza e dopo il mio allontanamento, è meglio di qualsiasi altro in grado di valutare la fondatezza e la sincerità di quanto la Commissione, sulla base di testimonianze interessate, afferma colla solennità di cosa provata. Del resto, la impetuosità della forma e la crudezza colla quale sono esposti i commenti, di cui lascio la responsabilità al capitano Lorenzoni, deriva dal dolore profondo che egli, come tutti gli altri ufficiali che furono con me, hanno sentito nel vedere il loro capo così atrocemente ed ingiustamente colpito.

Scarica gratis: Per la verità di Luigi Capello.