(di Agatha Orrico)

Il 9 maggio del 1978, lo stesso giorno nel quale l’Italia è sotto choc per il ritrovamento a Roma del cadavere di Aldo Moro, nel piccolo paesino siciliano di Cinisi, a 30 km da Palermo, muore dilaniato da una violenta esplosione Giuseppe Impastato, detto Peppino. Il trafiletto di un giornale locale, relegato nel cono d’ombra di una tragedia nazionale, la tragica fine di Peppino è una nota a margine in un’Italia squassata dal terrorismo.  Peppino ha 30 anni, è un militante di sinistra e sin da ragazzo si è battuto contro la mafia, denunciandone i traffici illeciti e le collusioni con la politica. A far uccidere Impastato è il capo di Cosa Nostra negli anni ’70 Gaetano Badalamenti, bersaglio preferito delle trasmissioni della Radio libera che egli ha fondato a Cinisi.

Cento passi separano la casa degli Impastato da quella dell’assassino Tano Badalamenti, come ricorda il titolo del film di Marco Tullio Giordana che ha fatto conoscere al grande pubblico, attraverso il volto di Luigi Lo Cascio, la figura di Impastato.

A Cinisi la mafia funge da centro di mediazione sociale in cui personaggi localmente influenti si presentano come intermediari sempre disponibili a trovare la soluzione del problema sia con il povero contadino sia con il grande avvocato. Ma questa bonomia apparente nasconde la minaccia della soluzione violenta. Un clima di intimidazione e di omertà che Impastato respira sin dalla nascita. Suo padre Luigi, pur non avendo mai avuto un ruolo di primo piano, è strettamente legato a Cosa Nostra attraverso il cognato Cesare Manzella, capo della cupola negli anni Sessanta e responsabile del traffico di droga con gli Stati Uniti.

Peppino con il padre

Giovanni Impastato, fratello di Peppino, descrive così la sua famiglia: “La mia famiglia ha origine mafiosa. Mio zio, capo della cupola negli anni Sessanta, viene ucciso nel 1963 con la prima autobomba nella storia dei delitti di mafia. Peppino da subito mi disse che si sarebbe battuto tutta la vita contro la mafia. E iniziò la sua rottura all’interno della società, del suo paese ma soprattutto della propria famiglia.”

In questo senso Peppino Impastato è un caso particolare, raro, quello di un militante, un attivista che combatte la mafia pur provenendo da una famiglia mafiosa. Una circostanza anomala, dato che la famiglia solitamente rappresenta la cellula più compatta e più impermeabile della struttura mafiosa. Peppino, essendo un ragazzo che si pone il problema del suo stesso sangue, delle sue radici, della sua stessa travagliata esistenza, rappresenta il valore più alto della lotta alla criminalità. Ci furono alcune figure che esercitarono sul giovane Giuseppe un fascino particolare, quella dello zio Matteo, un liberale dalle idee molto aperte, ma soprattutto quella di Stefano Venuti, pittore e fondatore della sezione del PCI di Cinisi.

 

Negli anni ’70, insieme ad un gruppo di amici e compagni, Peppino fonda il giornale Idea Socialista, in cui mette in evidenza i rapporti tra gli amministratori locali e la mafia. Nonostante la madre Felicia cercasse di dissuaderlo, Peppino è deciso a intraprendere la sua personale guerra e niente sembra poterlo fermare, pur capendo che il prezzo da pagare è subito altissimo. Dopo aspri conflitti suo padre lo caccia di casa. La madre Felicia cerca di fare un mediazione tra padre e figlio, e in qualche occasione il padre tenta un riavvicinamento. Ma non basta; Peppino non torna sui suoi passi e non rinuncia alla sua guerra e usa anzi strumenti sempre più efficaci per mettere a nudo la vera natura di Cosa Nostra.

Il Sessantotto è alle porte e anche Peppino Impastato scopre una nuova dimensione dell’impegno politico. Intraprende delle battaglie di carattere sociale, come la difesa dei terreni espropriati ai contadini per l’ampliamento dell’aeroporto di Punta Raisi. Una questione delicatissima: nell’aeroporto si concentravano gli interessi mafiosi dato che il controllo dello scalo siciliano implicava il controllo di tutti i traffici tra la Sicilia, il resto d’Italia e soprattutto verso l’America.

Intorno a Peppino si raccoglie un gruppo di giovani, animati dallo stesso spirito di ribellione, che organizza a Cinisi il circolo Musica e Cultura, promuovendo attività  e diventando un punto di riferimento fondamentale per i giovani, attratti dall’unico luogo di aggregazione della zona. Da Musica e Cultura partono le denunce verso l’operato mafioso, le devastazioni delle coste, l’abusivismo, gli scempi sul territorio. All’interno del circolo c’è anche un collettivo femminista che discute della libertà della donna in un contesto ancora particolarmente arretrato.
Oltre a quello impegnato emerge anche l’aspetto scanzonato nel carattere di Peppino, che organizza concerti, cineforum, perfino un carnevale alternativo.

Nel 1977, con il boom delle radio libere, Impastato decide di fondarne una propria. Con gli amici si procura in maniera rocambolesca l’attrezzatura e inizia le trasmissioni. La chiama Radio Aut e usa la satira per sbeffeggiare i capimafia e i politici locali rivelando trame illecite e attività illegali. Il bersaglio preferito è don Gaetano Badalamenti, l’erede di Cesare Manzella nonché l’amico di suo padre Luigi. E’ Peppino, con l’ironia che lo contraddistingue, che ha l’ardire di soprannominarlo Tano Seduto.
Peppino Impastato è il primo a fare nomi e cognomi, senza reticenze, cercando di rompere il tabù dell’intoccabilità dei mafiosi, in un paese dove la gente, al passaggio di Tano Badalamenti, si inchina e dei boss non è  prudente nemmeno pronunciare il nome.

 

A quel punto don Badalamenti convoca il padre di Impastato. Il messaggio è chiaro: tuo figlio la deve smettere, altrimenti lo ammazziamo. Il padre di Peppino, senza comunicare il motivo alla famiglia, va negli Stati Uniti a chiedere oltreoceano protezione per suo figlio. Una missione disperata per fermare una sentenza già scritta, un ultimo atto di amore verso il figlio, per il quale dichiara “prima di uccidere Peppino devono uccidere me”. E difatti così sarà. Pochi mesi dopo il suo ritorno Luigi Impastato muore, investito da una macchina: un chiaro avvertimento, un omicidio pianificato fatto passare per incidente. Peppino si scaglia contro la gente che si reca a casa della famiglia per fare le condoglianze domandando come facessero, proprio loro che lo avevano ucciso, a presentarsi a casa sua.

Dopo la morte del padre Peppino non ha più nessuno che lo protegge dalle minacce di Badalamenti. Ma nonostante il dolore per la perdita e il pericolo che sente crescere intorno a sé, nel 1978 si candida alle elezioni comunali nelle liste di Democrazia Proletaria. Ma ormai il suo destino è segnato.
L’8 maggio 1978 Peppino passa la notte a Radio Aut. La sera successiva deve incontrarsi con gli amici. Questi, non vedendolo arrivare, si mettono in agitazione. A casa non sanno niente di lui. Così passa la notte; gli amici sono ormai certi che gli sia successo qualcosa e lo cercano dappertutto. E in effetti è successo l’irreparabile: il giornalista è stato ucciso, dilaniato da una bomba piazzata sulla ferrovia Palermo-Trapani. Viene trovato accanto a un casolare. Gli amici si precipitano sul posto, la scena del crimine non è nemmeno recintata. I Carabinieri hanno appena trovato una gamba e una mano, gli amici trovano l’altra (a dimostrazione che la bomba non gli è scoppiata tra le mani, particolare che successivamente diventerà importante). Accanto al casolare altri brandelli dei resti del giovane giornalista. Viene messo tutto in un sacchetto di plastica e portato via.

I familiari e gli amici non hanno dubbi, ad uccidere Peppino è stato Gaetano Badalamenti, eppure le indagini prendono tutt’altra direzione; si ipotizza il suicidio oppure che il giovane sia morto saltando per aria mentre preparava addirittura un attentato dinamitardo. Si indaga negli ambienti della sinistra extraparlamentare di Cinisi, si perquisiscono le case dei familiari e dei compagni alla ricerca di prove. Impastato viene presentato come un terrorista o un suicida; questo è l’ultimo oltraggio della mafia contro il giovane che ha osato sfidarla. Nessuna indagine viene fatta sull’esplosivo, la scena del crimine viene alterata, contrariamente ad ogni corretta procedura investigativa. Le prove, gli occhiali, le chiavi di Peppino Impastato, due pietre insanguinate sul luogo della morte, scompaiono nel nulla. Il compendio di quel che accadde sta in un libro di Umberto Santino che non a caso si intitola “L’assassinio e il depistaggio”. Perché questo accadde.

Al funerale di Peppino Impastato si presenta spontaneamente una folla di giovani, accorsi da tutta la Sicilia, ma la gente di Cinisi non si presenta, nemmeno i vicini di casa.

Nel gennaio del 1988 il Tribunale di Palermo invia una comunicazione giudiziaria a Gaetano Badalamenti. Quattro anni dopo però l’inchiesta viene archiviata. Ci vogliono altri 7 anni perché Badalamenti venga effettivamente processato per l’omicidio di Impastato; ad inchiodarlo la testimonianza di un pentito. E’ solo nel 2002 che, finalmente, il Tribunale emette la sentenza contro don Tano Badalamenti: ergastolo per l’omicidio Impastato, di cui viene identificato come mandante e trent’anni per il suo luogotenente Salvatore Palazzolo.

Gaetano Badalamenti è morto per arresto cardiaco nel 2004 a 80 anni, in un carcere degli Stati Uniti, Salvatore Palazzolo è morto nel 2001.

Gli esecutori materiali di quell’omicidio non sono mai stati condannati.

La modesta casa di Peppino ora è una sorta di museo. La mamma Felicia cura un giardino nel quale si coltivata l’attesa di giustizia, si nutre la memoria e sradica la menzogna. È una piccola stanza bianca dietro a una persiana smaltata color legno che ha di fianco una lapide. Dentro casa, foto e poster alle pareti. Un ritratto in bianco e nero, la tessera da giornalista ad honorem, la laurea honoris causa.