Tra Sult (1890, Fame) e Maskens Grøde (1917, Il risveglio della terra) trascorre un tempo che è più o meno quello di un passaggio generazionale, ma tra il primo grande successo editoriale di Hamsun e il romanzo che contribuì in maniera probabilmente decisiva all’assegnazione del premio Nobel la distanza letteraria e di pensiero rimane solo per un occhio disattento. Nel primo abbiamo l’appassionata rivolta di un vagabondo senzatetto contro la routine convenzionale della vita moderna. Nell’altro si celebra un’esistenza radicata, delimitata in ogni direzione da faccende monotone. Il fatto che provengano dalla stessa penna suggerisce alla visione superficiale un completo capovolgimento di posizione. La verità, tuttavia, è che Hamsun invece si ritrova dove è sempre stato. Il suo obiettivo è lo stesso. Se è cambiato, è solo nell’intensità dei suoi sentimenti e nella modalità del suo attacco. Ciò che, soprattutto, odia e combatte è l’inutilità artificiale dell’esistenza che per lui si è incarnata nella vita della città in contrapposizione a quella della campagna.
I problemi non entrano nei romanzi di Hamsun nello stesso modo in cui entrarono nelle commedie di Ibsen. Hamsun sembrerebbe prendere la vita così com’è, senza alcuna pretesa della sua completa accettabilità, ma senza speranza o intenzione dichiarata di rinnovarla. Se la sua tolleranza non è mai esente da satira, la sua satira è invece sempre facilmente tollerante. Si potrebbe quasi sospettare che consideri la vita come qualcosa di statico contro il quale ogni lotta sarebbe inutile. Anche le peggiori brutalità della vita sono raccontate con una disinvoltura di modi che induce a cercare lo scherzo che deve essere alla base di esse.
E in questo quadro d’insieme s’inserisce Pan, pubblicato nel 1894 a Kristiansand in Norvegia. Il romanzo è scritto in prima persona e per la prima volta Hamsun parla della regione dove trascorse l’infanzia, la Norvegia settentrionale. Hamsun affermò, in merito a questo romanzo, che ogni capitolo è una poesia, ed effettivamente lo stile lirico e musicale – che Verdinois rende piuttosto bene nella sua traduzione dei primi anni del ’900 – rende possibile definirlo un romanzo lirico in prosa. I capitoli brevi sono efficaci per stabilire questo ritmo sfumato e ricco di atmosfera.
Il tenente Thomas Glahn (Tomaso Glan nella traduzione di Verdinois), il protagonista narrante – fino all’appendice nella quale la sorte di Glahn stesso viene invece narrata da un amico qualche anno più tardi e con un’ambientazione, l’India, completamente diversa – è un cacciatore e sognatore e vive in intima simbiosi con boschi e monti, in un paesaggio di monumentale pregnanza, nel quale l’amore incarna il mito di Pan, l’eros incantatore, che obbliga ogni creatura a danzare al suono del suo flauto. Il racconto di Glahn verte su quello che accadde nell’estate del 1855 che egli trascorse solitario in un capanno assieme al suo cane Esopo vivendo di caccia e pesca. Conosce il commerciante Mack (Mak per Verdinois) e resta incantato dalla figlia di questo, la giovane Eduarda che ricambia i suoi sentimenti. Le visite di lei al capanno riempiono di gioia la solitaria esistenza di Glahn. L’insicurezza e l’alternanza delle manifestazioni emotive fanno da filo conduttore del romanzo; Glahn vorrebbe riconquistare Eduarda dopo un episodio che ha generato grande imbarazzo. Ma ciò nonostante avvia una relazione con Eva la giovane moglie di un fabbro (scambiata da Glahn per la figliola dello stesso) che lo ama del tutto disinteressatamente e senza alcuna pretesa. Glahn è talmente geloso di Eduarda che, vedendola spesso in compagnia di un medico che zoppica vistosamente, decide di spararsi in un piede per poter assomigliare il più possibile a questo. La descrizione di questo episodio è di una potenza letteraria davvero rara. Poche righe dove si lascia tutto intendere, descrivendo l’essenziale e consentendo a chi legge di vivere l’emozione sofferta e patologica del protagonista tramite una narrazione che è solo apparentemente scarna. Lasciamo a chi vorrà leggere il romanzo il piacere di scoprire come l’individualismo anarchico di Glahn si sviluppi ulteriormente di fronte al paventato matrimonio di Eduarda con un barone fino a portare all’esito inevitabilmente tragico. E nell’appendice si completa poi la tragedia nella quale si trascina caparbiamente il protagonista.
Abbiamo visto in Fame come siano descritti i cambiamenti psichici indotti appunto dall’effetto della fame. Qui vediamo invece gli effetti che sull’animo di un viandante vagabondo sono prodotti dalle dinamiche di un rapporto sentimentale. Ma come in Fame il forte impatto di critica sociale trascura completamente le condizioni economiche e politiche sulle quasi si fonda la società borghese, così in Pan le complesse relazioni sentimentali tra uomo e donna non toccano per nulla una critica alle convenzioni o alla moralità correnti. Tutta la risolutezza con la quale l’autore descrive e denuncia situazioni di emarginazione sociale e psichica trova invece origine ed alimento nell’impatto provocatorio e di frattura con i canoni estetici consolidati e abusati. In questo modo porta in luce tutte le contraddittorie complessità della realtà psichica, che collocano i sommovimenti dello spirito al di là di ogni razionalità con confini tracciati da un’ideologia. I personaggi di Hamsun reagiscono alle costrizioni imposte dalla società e in particolare a quelle che cercano di circoscriverne le possibili esuberanze psichiche ed emozionali.
Un andamento simile a quello che troviamo in Pan, lo possiamo trovare ad esempio anche in Misteri: il confronto con una società chiusa e staticamente ancorata alle proprie abitudini e convenzioni sociali da parte di un uomo che giunge da lontano e di cui non si conosce il passato. Ma anche quest’uomo si trova ancorato a quello che ha stabilito debba essere il proprio ruolo e il suo avvicinarsi alla società che contemporaneamente lo attrae e gli ripugna rende il rapporto ambiguo e destabilizzante. In Pan, rispetto ad altri romanzi di Hamsun, questo confronto dialettico che l’intruso instaura con la comunità è fortemente mediato dalla natura: Glahn si sente estraniato dalla società ma in simbiosi con una ideale dimensione di vitalità naturalistica. Ma questo rapporto uomo-natura viene infranto e sconvolto quando subentra l’amore che costringe Glahn ad affrontare le regole della comunità nella quale con molte incertezze e ripensamenti vorrebbe entrare. La contraddittorietà è incrementata anche da Eduarda la quale accentua le dinamiche di attrazione-repulsione interne alla contrapposizione tra il mondo borghese e delle convenzioni e quello naturale e anarchico del cacciatore. Il quale si trova costretto ad autolacerarsi quando la ragazza cessa di andarlo a trovare al capanno disfacendo completamente quella parvenza di solidità psichica che stava in piedi solo se adagiata sulla contemplazione della natura e dei fenomeni della vita.
È abbastanza facile leggere poi l’appendice alla luce di una sorta di diagnosi psicanalitica, per la quale la simbiosi tra individuo e natura trova sbocco in una scelta autodistruttiva, quando la necessaria sintesi tra la suddetta simbiosi e il necessario confronto con strutture sociali delle quali faceva tranquillamente a meno nella solitudine del bosco e in assenza dell’amore, fa vacillare un equilibrio mai realmente raggiunto se non in maniera alquanto precaria.
Per tutto questo ho iniziato dicendo che tra Fame e I germogli della terra troviamo nei testi di Hamsun un filo conduttore che in ultima analisi è abbastanza lineare. Il mito della identificazione con la natura evolve con l’idea di un ritorno alla terra, al lavoro del contadino e alla sua semplicità d’animo. Il “male” resta il progresso che si identifica con la vita cittadina, organizzata in maniera democratica e secondo la guida di una “società liberale”.
Unica trasposizione cinematografica, mi sembra, quella del 1922 ad opera dell’attore norvegese Harald Schwenzen qui alla sua unica prova da regista, attentissimo a portare sullo schermo la visione panteistica di Hamsun. Traduzione moderna di Ervino Pocar, ma questa, certamente più datata, di Verdinois non è tuttavia meno efficace.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
In questi ultimi giorni, non ho fatto che pensare all’interminabile giorno dell’estate al capo Nord. Me ne sto qui, in casa, solo soletto, mi fisso in quel pensiero e mi torna in mente la capanna, dove abitavo, dietro la quale frondeggiava la foresta. Per ammazzare il tempo e procurarmi uno svago, tant’è che pigli la penna e scriva qualche cosa. Il tempo si trascina avanti con una lentezza disperante, nè a me riesce in alcun modo di accelerarne il corso, quantunque nessun dolore mi affligga anzi vada traendo la più lieta vita di questo mondo. Di tutto e di tutti son soddisfatto, e i miei trent’anni, in fin dei conti, non son la vecchiezza.
Scarica gratis: Pan di Knut Hamsun.