Ritengo opportuno postare il bel testo con il quale di Pino Tossici ha presentato Oasi Criptate di Patrizia Garofalo, Nina Nasilli e Margherita Gadenz lo scorso 23 gennaio, alla Biblioteca Ariostea di Ferrara.
Ringrazio Patrizia Garofalo di avermi inviato il suo ultimo libro di versi e invitato a introdurlo qui stasera, leggendo con l’occasione alcune sue liriche e scritti tratti anche da altre opere, nonostante io non sia un critico letterario né un addetto ai lavori. Cercherò di rispondere a questa apertura di credito, per quel che vale, con la mia curiosità di lettore e soprattutto con il mio amore per la parola in ogni sua forma.
Il mio incontro con Patrizia è recentissimoed è scaturito dalla sua lettura di un mio libro-romanzo di natura autobiografica in cui ha ritrovato persone e paesaggi delle Marche, sua regione d’origine, che entrambi abbiamo conosciuto e attraversato in periodi diversi della nostra vita. Ne è nata una corrispondenza, uno scambio dapprima telematico e poi telefonico di pensieri, riflessioni, ricordi evocati con leggerezza e buonumore, in cui abbiamo scoperto tante affinità e qualche curiosità, come quella di essere nati nello stesso giorno. Oppure quella, altrettanto singolare, che quando mi ha telefonato la prima volta eravamo entrambi in Salento, lei a Castro, io a Porto Cesareo, a un amen di distanza.
E siccome tre indizi fanno una prova – amici comuni, compleanni contestuali e luoghi di vacanza condivisi – ha deciso che sarei stato uno dei suoi compagni di viaggio di questa sera. Così eccomi qua, felice e onorato di esserci.
Oasi criptate è uscito lo scorso anno per le Edizioni il Foglio di Piombino, e costituisce una raccolta di versi di tre poetesse, Patrizia Garofalo, Nina Nasilli e Margherita Gadenz, dagli stili e provenienze geografiche diversi, che trovano qui armonia e sintesi. Patrizia racconta in un’intervista che il libro è nato per caso un paio d’anni fa: dopo che lei aveva confessato a Nina e a Margherita un suo profondo disagio, una mattina si ritrovò sul PC una mail che diceva «aggiungi due versi ai miei».
È proprio in quel periodo che moriva il papà di Patrizia e nel libro ce ne sarà solo un accenno: «tutto uno scritto su noi in un giorno di dolore e rabbia. È morto mio padre. 18 giugno 2010», e nella citazione iniziale di Camillo Sbàrbaro: «Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, ugualmente t’amerei». Non tanto per pudore, almeno credo, ma per convinzione intima, perché in un’altra sua poesia Patrizia scrive «La morte non si racconta, si celebra. Il lutto è muto».
Oasi criptate: l’oasi è al contempo realtà e miraggio e la realtà spesso è oscura, indecifrabile, criptica come la stessa poesia che di per sé è inspiegabile, come ci ha ammonito Paul Valery, perché tradurla vuol dire tradirla, ma non per questo inintellegibile. Il titolo che Patrizia Garofalo ha concepito, credo voglia esprimere la ricerca di un luogo dove l’anima possa dialogare con gli altri, uno spazio di ritrovamento dell’autenticità.
Ed è così, sulla via della spontaneità, che nasce tra queste tre donne un dialogo in versi, intimo e diretto, spesso un vero e proprio botta e risposta, che unisce sentimenti, emozioni, memoria e che fonde armoniosamente – ma non confonde – le diverse sensibilità poetiche e femminili. Versi polifonici che nascono tanto dall’estemporaneità dell’attimo e dello spunto dato e ricevuto così come da temi invece lungamente meditati.
L’incipit della Gadenz: «aggiungi due versi ai miei/ poche parole, oasi criptate/ nella sabbia è ciò che resta/ del silenzio, esplorato/ a tutto tondo// aggiungi due versi ai miei/ anche solo il battito degli occhi// aggiungi due versi ai miei/ bava di piccole lumache/ brillanti sulle foglie».
Perciò un dialogo che scaturisce dall’ascolto dell’altra, un dialogo che contiene in sé anche piccoli monologhi in cui ciascuna riflette sui propri motivi esistenziali.
Lo stato d’animo di queste viandanti, quasi il loro statuto d’esistenza, è espresso con efficacia da Patrizia Garofalo: «vive, nel cercarsi intere/ segniamo la via di piccole briciole/ e speriamo nello sguardo distratto/ di un passante che non guardi il cielo».
A questa richiesta-speranza di attenzione e di ascolto Nina Nasilli risponde così: « […] ma un alito di vento basta/ a portarle via/ disperse in un altrove lontano/ o indifferente/ così sarà il cielo in persona a scendere/ per guardarci da vicino/ – molto vicino -/ e vedrà nei nostri occhi bene aperti/ il tempo che lo specchia».
Ho riportato questi brevi stralci per cercare di rendere subito l’idea dell’incessante intrecciarsi e inanellarsi di parole e versi tra queste tre donne che si aprono con fiducia a loro stesse e, con questo libro, al mondo e spesso sembrano annusarsi, incoraggiarsi, consolarsi e coccolarsi, pettinarsi, agghindarsi di perle di fiume. Inoltre va detto che solo in un momento successivo è stata decisa la pubblicazione e questo ha indubbiamente impreziosito la spontaneità degli scambi.
Ci sono alcuni motivi ricorrenti a connotare la poesia di Patrizia Garofalo e quello che mi ha colpito di più è la concretezza e la trasparenza, il non girare intorno alle cose ma puntarle dritto e descriverle come sono. In altri termini, l’esercizio e la frequentazione del principio di realtà, la mancanza di ogni sublimazione oltre a quella, comune a ogni altra forma d’arte, dell’uso stesso della poesia. Pur sognando e facendoci sognare, Patrizia non vive trasognata, perché conosce benissimo le gioie e gli inciampi dell’esistenza e per rappresentarceli gioca con l’immaginazione, parole sue, «come fosse il pongo, cercando di plasmare la vita e di farne la più grande occasione di libertà». Ed è il principio di realtà che rende la sua poesia non eterea ma corporea, tangibile, carica non solo di senso ma anche di sensualità: «Inarco la schiena/ Quando voglio raggiungere la luce/ È successo/ Quando ti ho visto/ Ti offro/ Il ritmo di un corpo/ Che respira/ Caldo».
Nel suo verso agile, rapido, in quelle minisceneggiature che rivelano la scrittrice teatrale, nel descrivere i piccoli gesti del quotidiano, i paesaggi, l’acqua, il mare tanto ricorrente, i capelli che si confondono festosi, che si pettinano e si spettinano, i capelli che intrecciano ceste, ci fa toccare la fisicità dei sentimenti, la corporeità delle emozioni. E chi legge capisce che non c’è finzione, bensì il coraggio di una donna che sa esporsi, metaforicamente denudarsi, per raccontarci la sua verità e il suo sguardo sul mondo. E che riesce a farlo anche con leggerezza e ironia, trovando perfino quel «sorriso che resiste al dolore».
«Invio foto d’amore/ Titolo «poetessa tra le rose»/ Troppo ovvio/ «Donna a primavera»/ Obsoleto/ «Donna in fiore»/ Sono troppo vecchia// Pensaci e ricomincia// Invio foto d’amore/ Titolo/ «Patrizia Garofalo»».
Uscendo per un momento dall’imbarazzo, che a volte si fa abuso, del commento e del controcanto all’altrui creatività, la cosa migliore è affidarsi alle sue parole, in versi e in prosa, per capire meglio il senso che per Patrizia Garofalo ha la dimensione poetica: «È carne la poesia// e tu sai che ne portiamo la croce/ senza compiacenza, senza paura/ senza supponenza o vanagloria./ Scoiattoli, arrampichiamo i tronchi/ mangiamo ghiande/ infiliamo bacche/ per collane di corallo rapito ai fondali».
È carne, la poesia: indicazione perentoria, inequivocabile. Scala le vette degli alberi, su verso il cielo, per poi inabissarsi a scrutare i fondali: scoiattoli e subacquei, aquiloni e archeologi; il viaggio del poeta, senza mediazioni e senza rete. Si insegue la felicità, ci si immerge nel dolore. E sempre si accetta di camminare sul filo, senza la paura del vuoto, con equipaggiamento da funamboli. «I poeti li spoglio/ piano, ne sbottono l’anima/ ne bevo i sospiri».
Ancora Patrizia, stavolta in prosa: «Io non so parlare di poesia come sostanzialità in sé ma come una sorta di costante meraviglia insita nelle cose e nelle anime e nei corpi e in tutto un mondo che, da laica, non mi sono mai sentita di affidare a Dio per percorrerlo solo come comparsa in attesa dell’aldilà. Tutto è meraviglia se lo intendiamo come scarto dalla norma. Ci sta dentro tutto, dalla morte, alla memoria, al dolore, alla gioia, al pegno che sempre paghiamo solo per essere stati vivi o perlomeno aver deciso di esserlo […] Ho compreso per quanto mi riguarda che la poesia per me era la vita scarabocchiata su un foglio che ho sempre dietro […] Avverto l’altro da me, colgo il tempo, scelgo le relazioni, non sono simpatica, quando non scrivo e non studio, da sempre, mi piace cucinare, comprare oggetti inutili, curare il corpo, creare collane e parlare in dialogo di tutto, sono felice che gli amici sappiano che «ci siamo», che il mio amore arrivi e tutto ciò è vissuto come una poesia, come un miracolo che si ripete ogni giorno».
Ecco il punto: la poesia si fonde con la vita, per lei è un tutt’uno. Perché ha deciso di pagare quel pegno, il prezzo di vivere a occhi aperti. È questo che marca la differenza non tra quelli che chiamiamo poeti e quelli che versi non ne scriveranno mai, ma tra le persone che decidono di essere presenti davvero in questa manciata d’anni che ci viene concessa, che si mettono in ascolto di se stessi e degli altri, del qui e dell’altrove, del conosciuto e dell’ignoto e quelle che, certo legittimamente, hanno deciso di attraversare la vita da turisti. Il poeta non è mai un turista ma un viaggiatore, cioè uno che trova non nel raggiungimento della meta, che nemmeno conosce, ma nel viaggio stesso il motivo del suo andare. Attivando tutti i sensi, amando la lentezza del suo procedere e il suo stesso mutare. Attraversando la terra di nessuno per farla diventare terra propria. È una condizione umana irreversibile, una volta aperti gli occhi al mondo non si può più tornare indietro. Chiunque abbia qualche dimestichezza con la scrittura sa che il suo più grande dono è la meraviglia della scoperta (e, viceversa, la scoperta della meraviglia). Non si conosce mai dove ci condurrà se ci lasciamo trasportare, e ancor di più è il poeta a non sapere per primo né come nasce la sua poesia né, soprattutto, dove lo porterà.
Certo, nel viaggio si incontra anche il dolore, perché è di dolore che siamo fatti, ma già riconoscerlo come nostro, dargli spazio e sfidarlo scrivendogli addosso è allentarne un poco la morsa, è restituirgli qualche sasso e qualche dardo e, perché no, anche qualche oltraggio. La scrittura nasce spesso da una ferita e dal bisogno di cicatrizzarla; gli scrittori veri se ne servono per evocare e qualche volta esorcizzare fantasmi e terrori. Patrizia ricorda che fin da bambina ha capito che solo scrivendo riusciva «a trascinare sporte piene di dolore»; crescendo ha evidentemente imparato a trasformare l’angoscia esistenziale in versi e trovare «il sorriso per affrontare il dolore».
E a scrivere: «E venni a patti con il dolore/ disorientato ospite/ lo ebbi più volte a cena// appassionata fotografa di vita/ mi firmai sempre/ «angelo sbagliato con ali di terra»./ Tutto desiderai, tranne la dimenticanza»».
Un altro elemento fortemente connotativo della poetica di Patrizia Garofalo è il rapporto con il Silenzio, inscindibile dall’attenzione rivolta alla ricerca della Parola. Rapporto e ricerca che costituisce un punto di comune interesse tra noi nell’esserci accostati, nell’ambito della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, diretta da Duccio Demetrio, all’iniziativa dell’Accademia del Silenzio. Progetto volto a diffondere una cultura del silenzio, del rispetto dei luoghi e delle persone, che raccoglie quegli umani, come Patrizia, che hanno necessità del silenzio per creare, comporre, scrivere, camminare, leggere, pensare. Ma soprattutto sapersi mettere in ascolto, sperimentando un linguaggio del silenzio, delle pause, del giusto tono di alternanza tra silenzio e parola. Il rispetto del silenzio ci obbliga a usare una nuova lingua; è dal silenzio, dal grado zero della lingua che bisogna ripartire per riscoprire le parole, ritrovare il loro suono, nel frastuono della contemporaneità, nella bulimia massmediatica che tutti ci avvolge. Il silenzio come non-parola, come attesa della parola a riempire lo spazio vuoto tra parola e parola, ultimo confine con il suono, che annuncia la scoperta, racconta l’inesprimibile. È anche il luogo dove le parole vanno a dormire: «C’è uno spazio/ nel quale le parole si addormentano/ disperdendosi nel buio/ a rincorrere sogni/ pieni di luce e colori/ immobili/ attendono mani calde/ che le rivestano di tenerezza/ e sussurri/ le bacino/ sfiorandole/ prima del risveglio».
Difficile qui non pensare a Borges e alla sua L’invenzione della poesia. Le parole di per sé sono simboli morti, stanno nei libri che sono solo oggetti fisici in un mondo pieno di oggetti fisici. Si risvegliano e tornano a vivere quando incontrano un buon lettore. «È allora che c’è la resurrezione delle parole, o meglio della poesia che sta dietro alle parole. Sicché si può dire che la poesia è ogni volta una nuova esperienza e tutte le volte che leggo una poesia l’esperienza accade». È questa per Borges la poesia, l’esperienza che ogni volta di nuovo accade.
Patrizia ci racconta che il silenzio costituisce il filo conduttore delle sue liriche, che scrive nel silenzio, che è nel silenzio che si è messa a fuoco come persona, dove ritrova le voci del passato, i ricordi, le parole pronunciabili e quelle che non ha mai voluto dire, la solitudine e la compagnia, la quiete e l’urlo. Un silenzio che assorda, pieno di ossimori, esattamente come la sua poetica che sempre comprende la possibilità di compresenza degli opposti, che in termini di approccio all’esistenza sta a significare inclusione, comprensione, compassione, ascolto, accettazione, apertura di possibilità.
Ma silenzio inteso anche come momento di sosta, di tregua, di sospensione, ovvero come un interstizio in cui tutto può accadere. È il tempo dell’attesa, che è sempre tempo polisemico perché lo riempiamo non solo di significati e di senso, ma soprattutto dei nostri bisogni e desideri.
Accettare l’intimità del silenzio è dare ospitalità al mistero di quello che siamo. È raccogliersi, udirsi, saper mangiare di sé. Un atto di coraggio, di meditazione, di giudizi sospesi, di immaginazione e invenzione. Un atto che calza come un guanto a una poetessa come Patrizia Garofalo che, citando un romanzo di Cristina Masciola, ci dice di «vivere al congiuntivo», il tempo del desiderio: «sono di razza bastarda perché vivo al congiuntivo in un mondo che vive all’indicativo […] Non è sempre facile ma i bastardi sono forti e vivono dentro le cose. Anche in silenzio».
E dopo queste parole potenti e coraggiose, appare a noi strettamente consequenziale la sua definizione di poesia: «Una poesia/ è/ un testamento/ scritto dalla follia/ senza regole/ senza giustizia/ una pagina di diario/ che lascia l’anima/ depositata/ blindata/ marchiata a fuoco/ segreta/ dolorosa […] nell’andarsene».
Insomma una poesia che esce dalle viscere, piena di pietas ma anche impietosa nel suo rigore etico, quando si carica di tensione civile. Proprio come spetta a un poeta vero, uno che non spiega e non rassicura ma spiazza, che bussa educatamente alla tua porta ma intanto abbatte, sornione, il tuo cane da guardia e i cavalli di Frisia che hai piantato in giardino a controllare sentimenti e emozioni: per non trasgredire, per sentirti al riparo, per soffrire il meno possibile. Fino a che non arriva un salvifico guastatore come Patrizia, che conserva la sua anima fanciulla e che, pascolianamente, riesce a esprimere «quella parola che tutti abbiamo sulle labbra ma che solo il poeta sa dire».
Pino Tossici
Margherita Gadenz, Patrizia Garofalo, Nina Nasilli, Oasi criptate, collana «Orizzonti», Il Foglio, Piombino, 2012, pp. 70, euro 8,50, ISBN: 8876063668