Giuseppe Lipparini, nell’ambito della poesia del primo novecento italiano, è stato uno dei più solidi rappresentanti di un’arte poetica che si nutriva con dovizia dai succhi classici, senza però che questo diventasse né un vero limite né un appiattimento ad un freddo parnassianismo.Le sue raccolte poetiche sono quindi pietre miliari di un percorso che si svolge dal titolo d’esordio Lo specchio delle Rose del 1898 fino a Stati d’animo e altre poesie – che è il suo punto di arrivo poetico – del 1918. Certamente le prime prove poetiche – tra le quali anche questo Altre poesie del 1903 – non sono all’altezza della citata ultima raccolta ma racchiudono sempre gli embrioni di quel sentire che sarà sempre la nota caratteristica di questo poeta. Gli elementi della natura sono “dramatis personae” e dominano la visione poetica – che in questa raccolta è tuttavia permeata da un’idea di incombente e torbida sciagura – ma una nuova persona può porsi sul loro stesso piano ed è quella del poeta stesso che cessa di essere inerte osservatore della scena, per amalgamarsi e confondersi con essa: uomo e natura formano quindi un tutto inscindibile; l’uno con l’altra si integrano e si completano:
«i bei pascoli turchini,
e gli ampi fiumi di latte
che sognarono i poeti
stando tra l’erbe supini
ne la pura notte estiva.»
Abbiamo quindi già il tentativo di attingere e fermare in opera d’arte quel sogno di pagana e, proprio per questo, umana bellezza. Sogno che prenderà forme compiute e artisticamente meglio definite ne I canti di Melitta (che possiamo leggere in questa biblioteca Manuzio) ma con maggiore pregnanza poetica nella già citata raccolta Stati d’animo e altre poesie. Penso che non sia difficile scorgere il divario che poeticamente e artisticamente separa i sopra citati versi e quelli di Tra l’Erbe Alte, forse la lirica più bella, secondo me, del Lipparini:
«Poi fu silenzio; scorgevo tra immobili spade di verde
lembi di cielo più azzurro; e il sole versava ombre grandi,
mentre il mio fiato leggero parevami quel de la terra
e, dalle piccole cose, salivo col cuore all’immenso.»
Giunge una vespa a turbare la quiete e il suo posarsi sugli steli curvandoli sotto il suo peso «non meno che rami di quercia sul monte, quando discendono l’aquile dal cielo sul verde e le rupi». Quindi prosegue:
«Chiuse le palpebre, tenni intenti gli orecchi; l’insetto
s’allontanò: ascoltai il rombo vanire con l’ali
contro altri fiori. E il ronzio tenuissimo empieva di sè
tutta la terra ed il cielo, varcava con me l’infinito.»
In queste Nuove poesie già vediamo quindi gli attimi di poetica felicità che in Stati d’Animo si coaguleranno in una fonte immanente di indimenticabile bellezza artistica. Ma già possiamo trovare qualcosa che va oltre la pura e semplice sensazione e lascia intravedere gli elementi di comunione spirituale e commozione.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit della prima poesia Inno all’uomo:
Esaltati, o uomo! Vuoi
essere ancora più grande?
Vuoi intrecciare ghirlande
per una gloria più pura?
essere divinamente
bello e forte? Vuoi salire
oltre ogni regione oscura,
oltre il regno de la morte?
Tutto tu puoi, o figliuolo
de la vita e del destino;
chè le tue ali hanno un volo
sopra il limite marino,
sopra le vette dei monti,
sopra gli altissimi cieli.
Dove non giungerai, uomo,
con il tuo sguardo profondo?
Basteranno alla tua sete
gli alti confini del mondo?
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