Nennella o le uova di pasqua.
di
Giuseppe Sacchetti
tempo di lettura: 11 minuti
I
Tonio era un povero contadino che viveva in un paesello di montagna. Non aveva più nessuno al mondo. Da buon figliuolo aveva, col lavoro, assistito i suoi vecchi genitori; i quali erano morti in pace benedicendolo. Gli avevan lasciato una casupola, una specie di capanna che era situata un po’ distante dal paese, vicino al bosco. Là, da parecchi anni se ne viveva solo; cioè, non del tutto solo, perché aveva la compagnia d’una gallina. Andava a opera dai contadini che stavano a podere; e tutti gli volevano bene perché era buono, laborioso e allegro.
Una sera, sul finire d’agosto, se ne tornava dal lavoro colla vanga sulla spalla. La giornata era stata caldissima. Dalla parte di ponente si vedeva una striscia come una lama d’oro fulgido che a poco a poco andava impallidendo; mentre a levante, lassù nel turchino profondo compariva una stella piccina piccina bianca e lucente. Tonio guardava queste belle cose e respirava l’arietta fresca e odorosa del bosco; e si sentiva riavere dopo tanto sole e tanta fatica. Quando fu vicino al cimitero del paese osservò un movimento insolito di gente. Certo ci doveva essere stato un morto.
Tonio si avvicinò ad un gruppo di donne che eran rimaste ferme davanti al cancello richiuso dal custode. Si sentiva un pianto disperato. Una bambina di otto anni al più, stava tutta rannicchiata per terra colla testa appoggiata alle sbarre del cancello, col viso nascosto nelle mani. Era lei che piangeva.
— Povera bambina! — disse una donna; — se la piange ha ragione; è morta la su’ mamma.
— Ma non ha più nessuno? — Domandò Tonio.
— Chi lo sa? al su’ paese forse qualcheduno de’ suoi ci sarà. La dev’essere d’un paese di molto lontano: vedete com’è vestita.
La bambina, infatti, non portava il costume del paese. Aveva un bustino rosso, una sottanina turchina, e sulla testa aveva un pezzo di tela bianca messo in quadro, secondo il costume delle contadine abruzzesi. Per terra vicino a lei si vedeva un cembalo.
— Ma dunque, — riprese Tonio, — chi ci penserà ora a questa povera figliuola? Come camperà?
— Come ha campato finora! Oh bella! La seguiterà a girare il mondo, a sonare il cembalo e a chiedere la limosina, — disse un’altra donna con una vociaccia da strega e con un viso dove ci si vedeva stampata la cattività.
Tonio era rimasto pensieroso. Con una mano tra i capelli bigi si grattava si grattava…
A un tratto si rincalcò sulla testa il cappello mezzo sfondato e rimettendosi la vanga sulla spalla, con piglio risoluto:
— O sentite! — disse, — questa bambina la piglio io! Non ho nessuno, figurerò che la sia mi’ figliola.
Ed avvicinandosi a quella povera creatura abbandonata e afflitta, si chinò, la prese per una mano e le disse:
— Vo’ tu venire con me? tu m’aiuterai a far l’erba; e un pezzo di pane ci sarà per tutt’e due.
La bambina alzò gli occhi lacrimosi e guardò la faccia buona di Tonio; poi, zitta, zitta si rizzò in piedi, raccolse il cembalo e si lasciò condur via macchinalmente; mentre la donna che aveva parlato per la prima, diceva tutta commossa:
— Bravo Tonio! questa è una buona azione davvero! e Dio ve ne renderà il merito.
— Sicuro! — esclamaron ad una voce le altre donne, meno quella però che si era mostrata cattiva: la quale invece, si voltò con una mossaccia per andarsene brontolando da sé:
— Ha fatto proprio una bella cosa a mettersi dintorno quella vagabonda!
⁂
Erano già passati alcuni anni dal giorno in cui Tonio aveva raccolto caritatevolmente quella bambina abruzzese. La Nennella, che così si chiamava, si era fatta grande, e non aveva più l’aria di accattona e di vagabonda.
Tonio non aveva avuto certo da pentirsi della sua buona azione. La Nennella voleva bene al suo benefattore come ad un padre, e cercava di aiutare più che poteva e di risparmiare la fatica al buon vecchio che, coll’andar degli anni, si sentiva scemare le forze. Quella buona figliuola aveva ben profittato dei benefizi ricevuti. Essa, non solamente aveva imparato a far le faccende e i lavori di campagna. Aveva imparato anche a leggere e già sapeva fare i numeri e le lettere passabilmente. Chi l’aveva istruita, e continuava ancora nella buona opera, era la signora Veronica, la sorella del curato; la quale aveva acconsentito, pregata da Tonio, a dare a Nennella un po’ di educazione in cambio di qualche piccolo servigio. La ragazza si era portata bene, si era fatta amare, per la sua buona volontà, per la sua intelligenza vivace; e si era fatta una buona donnina da casa.
Una domenica mattina, Tonio e la sua figlia adottiva stavano seduti fuori della casetta. Tonio fumava colla sua pipa di terra; la Nennella leggeva un libro di racconti morali che le aveva prestato la signora Veronica. Era una bella mattina di primavera. Per l’aria correva un odore di fiori silvestri; gli uccelletti cinguettavano nel bosco; e si sentivano lontano lontano le campane che sonavano a festa.
Mentre Tonio stava godendo in silenzio quella pace e quel riposo, dopo le fatiche della settimana, passò un garzone di un contadino dei dintorni mandandosi avanti una bella mucca. Passava di lì per andare ad un abbeveratoio vicino.
— Buon giorno, Tonio.
— Buon giorno, Gigi. Dite su; quella mucca è stata comprata da poco dal vostro padrone. Non l’ho mai vista.
— La comprò ieri a S***
— Quanto l’ha pagata?
— Ma! non lo so davvero.
— È una bella bestia!
— Eh sì! — e il garzone toccando la mucca colla bacchetta, si rimise in cammino, salutando Tonio. Questi tenne dietro coll’occhio alla bella mucca finché poté scorgerla; poi mandò due o tre fumate in furia, scosse la pipa battendola sulla panca dov’era seduto, sospirò e rimase pensieroso.
— A che pensate, babbo? — disse la Nennella. Essa lo aveva sempre chiamato così, perché pel bene che gli voleva si considerava veramente come sua figlia.
— Penso, — rispose Tonio, — che una volta in quella stalluccia, a quella mangiatoia, dove ora va a pollaio la gallina, c’è stata una mucca bella come quella che è passata ora di qui. Ero ancora ragazzo. Mi’ padre mi diceva che, per lui, quella bestia, era una gran risorsa. Per governarla ci voleva poca spesa e poca fatica, e il guadagno che si ricavava dal latte e dal concime era di molto. Venne il male nelle bestie, ce la portò via; e fu una rovina. E per tirare innanzi ce ne volle! Ma io era giovine e robusto; e mio padre non tanto vecchio, e si poté riparare. Ora nella mi’ vecchiaia la ci starebbe proprio bene una muccherella.
E Tonio dette un altro sospirone.
— Ma ci vuol pazienza, — soggiunse, — bisogna invece contentarsi di una misera gallina. Per di più l’ha smesso anche di far l’ova, perché la vuol covare.
La Nennella aveva ascoltato mezzo distratta tutto il discorso di Tonio. Ma alle ultime parole di lui alzò la testa con un moto vivace, lo guardò fisso coi suoi occhioni neri, e mise l’indice della mano destra sulle labbra come persona colpita improvvisamente da un pensiero, e stette così un momento. Poi si alzò e, di corsa, andò in casa.
— E ora? — disse Tonio maravigliato, seguendola, — che ti frulla per la testa?
La Nennella non rispose. Era troppo occupata. Aveva preso un pezzetto di gesso e sul muro della cucina, annerito dal fumo, si era messa a far dei numeri.
— O che fai le cabale per giuocare al lotto? — le domandò Tonio sempre più maravigliato, non potendo capir nulla in quei numeri perché non sapeva leggere.
— Zitto babbo! — disse la ragazza, — non m’interrompete, se no sbaglio nel far questi conti. Vi dirò più tardi quel che ho in animo di fare.
Tonio non fiatò più. Per lui un desiderio della sua figlia adottiva era un comando.
⁂
La Nennella aveva voluto conservare, come cara memoria del tempo in cui viveva la sua povera mamma, il cembalo che le aveva servito per guadagnare il pane per lei e per sé. Quello strumento che, nel paese d’origine della Nennella, rallegra tanto le feste campestri, era rimasto ozioso quasi per un anno. Ma le ragazze e i giovanotti del paese, ove la buona figliuola era stata accolta, erano riusciti un giorno a far rimettere in opera il cembalo. D’allora in poi all’orchestra dei balli campestri, che consisteva tutta in un organino suonato da uno storpio, si era aggiunto il cembalo di Nennella. In quelle occasioni, quei buoni contadini, grati ai due sonatori, solevano sempre dar loro qualche cosa da portare a casa; cioè frutte, patate, civaie ecc. secondoché portava la stagione. Così il cembalo che era stato utile alla povera mamma di Nennella, continuava ad esserlo per colui che ne faceva le veci.
(Continua)
II
La domenica successiva a quella, in cui abbiamo veduto la Nennella occupata a fare i conti sul muro, era la festa di Pasqua. Dopo le funzioni religiose, tutta la gioventù dei dintorni si riunì ad una fattoria poco distante dal paese e ci fu ballo e grande allegria. Finita la festa la fattoressa incaricata di gratificare i suonatori, li chiamò in casa. Ma la Nennella non si mosse, fingendo di essere molto occupata a salutare alcune amiche; ma veramente per aspettare che lo storpio se ne fosse andato col grembiule pieno di carciofi e di patate nuove.
Allora essa riprese il cembalo che aveva posato in un canto, lo alzò al disopra della testa, lo fece risuonare un momento, poi disse ridendo alla fattoressa:
— Sentite! io non voglio né carciofi né patate. Oggi è Pasqua e voglio le uova. E sporgendo il cembalo a guisa di vassoio soggiunse:
— Mettetele qui!
— È giusta è giusta, — gridarono in coro i contadini.
La fattoressa dové sottomettersi ed empì d’uova fresche il cembalo.
La Nennella, tutta contenta, appena tornata a casa, ne scelse una quindicina delle più grosse e le mise sotto alla chioccia. Tonio, intanto lasciava fare la ragazza, scuotendo la testa. Dubitava molto dell’esito della cova. Ma erano appena passati venti giorni, che dalle uova di Pasqua uscirono fuori vispi e belli altrettanti pulcini. Allora Tonio tutto affaccendato, non ebbe altro pensiero che di custodirli e di badare che non se ne sperdesse nessuno; e la Nennella, quando andava a suonare il cembalo non voleva altro che un po’ di beccare per i suoi pulcini. In capo a tre mesi la stalletta di Tonio non era più la solitaria stanza di una misera gallinella; ma albergava un bel branchetto di polli.
Un bel giorno la Nennella si levò che era ancora buio; entrò nella stalletta, legò i polli a coppia per le gambe, se ne caricò di una parte, dette il resto a portare a Tonio e tutt’e due se n’andarono a S*** grosso paese poche miglia distante. Era giorno di mercato; e ben presto ebbero venduti i loro polli.
Immaginatevi un po’ che cosa aveva in braccio la Nennella tornando a casa? Una bella agnelletta bianca come la neve.
Non vi so dire con quante cure venisse allevata quella innocente bestiolina. La portavano a pascer l’erba fresca per le prode dei campi; e Tonio le voleva tanto bene che le dava fino una parte del suo pane. Ma l’agnella cresceva, cresceva e non andarono molti mesi che diventò una magnifica pecora coperta di un foltissimo vello di lana.
Allora la Nennella si mise un’altra volta a fare i conti sul muro; e quando ebbe finito andò a sedersi vicino al camino tutta pensierosa. Tonio al solito stava facendo la sua fumatina.
— Babbo, — disse a un tratto la Nennella, guardando il fuoco; — domani è giorno di mercato a S.*** lo sapete?
— Lo so, — rispose Tonio; e rimase in asso aspettando di conoscere lo scopo di quella domanda.
— Bisogna vendere la nostra pecora, ormai è bella grassa, — riprese la Nennella, quasi parlando a stento e guardando sempre nel fuoco.
— Peccato! appunto ora che ci avevamo preso affezione! — disse Tonio.
— È vero, — soggiunse la ragazza, — per me è proprio un dolore… Anzi, sentite babbo; mi farete il piacere di andar voi solo a portar la nostra pecora a S.***
— Come tu vuoi, — disse Tonio.
E proseguirono a parlare ancora qualche tempo. Finalmente la Nennella prese un lume a mano ed avviandosi per salire nella sua stanzetta disse seria seria:
— Buona notte babbo; dunque m’avete capito bene?
— Sì, sì; buona notte bambina.
Il giorno dopo Tonio, tornava dal mercato mandando avanti tutto stizzito, con un ramicello di salice una brutta bestia che non voleva saperne di camminare e si fermava ogni momento mandando grugniti. Era una scrofa.
Di lì a poco il malumore di Tonio aumentò, quando sentì nella stalla un concerto di grugniti acuti che mandavano dieci porcellini appena nati. Pure la Nennella, benché non avesse davvero nessuna affezione per quei brutti e sporchi animali, badò sempre che non mancasse loro mai da mangiare; desiderando anzi che venissero ben grassi. E la professione di suonatrice di cembalo, a tempo avanzato, le giovò anche allora per procurarsi la crusca per far la broda ai porcellini finché furon piccoli e le ghiande per nutrirli allorché furono cresciuti.
Una mattina, Tonio si destò maravigliandosi molto di non sentire la solita musica di grugniti che lo annoiava tanto. Si vestì, entrò in cucina, si affacciò alla scaletta e chiamò Nennella. Figuratevi se crebbe la sua maraviglia quando, a guisa di risposta, udì un muggito prolungato, vicinissimo. Corse all’uscio della stalletta, l’aperse e rimase fermo sulla porta, sorpreso, sbalordito.
Una mucca, però non tanto grassa, ma una vera mucca insomma, era legata alla mangiatoia.
Tonio credeva di dormire ancora e di sognare. Il suo lungo desiderio era soddisfatto. Capì allora perché Nennella aveva fatto tutti quei conti sul muro, e perché aveva voluto le uova di Pasqua, e si vide ricompensato ad usura del bene che le aveva fatto.
— Nennella! — gridò commosso con voce soffocata il buon vecchio; — ma dove sei? — E voltandosi per uscire dalla stalla si trovò fra le braccia la figlia del suo cuore.
— Siete contento babbo? — disse Nennella, guardando con affetto il suo benefattore.
Tonio non senza rispondere, che non poteva parlare, la baciò in fronte. Poi col dorso della mano callosa si asciugò gli occhi pieni di lacrime.
Fine.
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TITOLO: Nennella o le uova di pasqua
AUTORE: Giuseppe Sacchetti
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti