Spesso la letteratura si è occupata del tema dell’adozione dei bambini orfani o abbandonati; l’argomento ha grande tradizione anche da un punto di vista simbolico, basti pensare a Romolo e Remo e all’attenzione che ha riservato anche Jung il quale sottolinea in più di un suo scritto i pericoli che incombono sul neonato “esposto” in relazione alla precarietà dell’esistenza psichica.

Il racconto basato sulle vicende di questi bambini rappresenta quindi la spinta alla difficile realizzazione di sé attraverso il superamento del mistero delle proprie origini e del distacco da queste per mezzo di un’esperienza psichica autonoma e creativa.

La letteratura si è fatta interprete, spesso – credo – inconsapevolmente, di questi concetti fin dal Decamerone di Boccaccio e poi Straparola fino ai più recenti romanzi sul tema di Vittorini e Palazzeschi, solo per ricordarne alcuni e limitandomi alla letteratura italiana. In questo contesto socioculturale – che varia notevolmente in base all’epoca e al luogo delle vicende narrate – trova il suo posto, forse non preminente ma neppure trascurabile, questo romanzo di Bianca De Maj, pubblicato in prima edizione dall’editore Quinteri, che da circa un anno era marito dell’autrice, e ristampato più volte fino al 1944 da altri editori. Certamente sarebbe facile trovare le pecche stilistiche, incertezze e ingenuità, che scompariranno in romanzi successivi di questa autrice, ma si avvertono già tutti gli elementi di un’arte sicura che si consoliderà in seguito e, soprattutto, un forte senso di umanità che consente la partecipazione emotiva senza pause – nonostante le lungaggini talvolta eccessive – di chi legge. Questo perché si individuano i rudimenti di un’apertura al divenire e al mutamento del sistema socioculturale al quale ho accennato.

Bianca De Maj è sensibilissima al tema della maternità, e certamente non immune dall’influenza che il contesto storico e ambientale della fase nella quale viveva, per cui la maternità va legittimata con il matrimonio ed è naturale conseguenza di questo; inoltre appare quasi sempre come l’unica possibilità per la donna per esprimere il proprio valore, oltre alla cura della casa. Ne consegue che l’esistenza dei figli illegittimi diveniva per ovvie ragioni una sorta di “piaga sociale”, una vergogna da nascondere; nonostante la “ruota”, che rendeva del tutto anonima la genitorialità, fosse stata soppressa, almeno nelle grandi città tra il 1870 e il 1880, il problema sussisteva. Il codice civile infatti continuava a vietare la ricerca della maternità e paternità. Ricerca consentita successivamente per ragioni di ordine medico-sanitario, capitolo questo che aprirebbe un altro vastissimo tema. In un’epoca nella quale le donne partorivano usualmente in casa, quelle che si recavano all’ospedale o al brefotrofio erano donne in genere più povere e più deboli, per le quali inoltre la maternità illegittima era fattore di isolamento, almeno temporaneo, dalla loro rete di solidarietà sociale. Avevano necessità di mantenere la segretezza del loro parto.

Bigia e Pietro Franco sono una coppia che non ha potuto avere figli propri, e le due maternità portate a termine hanno prodotto infanti che sono morti poco dopo la nascita. Per questo Bigia per due volte, a distanza di cinque anni l’una dall’altra, si reca al brefotrofio per farsi assegnare un bimbo senza genitori legittimi da allattare a pagamento. Porta quindi a casa prima Donato (per il quale l’autrice sottolinea più volte i lineamenti fini e le fattezze aristocratiche per evidenziare come il fenomeno dei figli illegittimi sia stato spesso imputabile alla lussuria delle classi abbienti e al loro profittare di giovani donne di classi povere) e poi Maria, che è invece figlia di una zingara deceduta poco dopo il parto e di un ladruncolo. Per entrambi la restituzione dei bimbi al brefotrofio dopo l’allattamento diviene una sorta di “tira e molla” con il marito Pietro (e per quel che riguarda Maria partecipa a questo “tira e molla” anche con Donato ormai grandicello e affezionato alla “sorellina”) nel quale prevale la volontà materna di Bigia, che spiega poi anche, nel corso di un drammatico passaggio del romanzo, il senso del titolo “madri dell’ombra”. Bigia impersona alla perfezione il ruolo materno così come era visto all’epoca e come l’intende l’autrice, la quale però si fa interprete della possibilità di un cambiamento nel comune sentire attraverso la complessità e la contraddittorietà delle emozioni e della sensibilità di Donato, descritte sempre con una forza e un’espressività che impreziosiscono questo romanzo.

In breve la trama, che voglio descrivere senza togliere l’emozione della scoperta pagina dopo pagina; il romanzo è ambientato in un paese brianzolo, nei dintorni di Monza, dove Pietro Franco fa il fornaio e il grossista di grani e legumi. Abbiamo detto come, insieme alla Bigia sua moglie, non riescano ad avere figli propri e finiscano per adottare i due bimbi del brefotrofio che Bigia ha allattato in seguito alle sue maternità terminate con un lutto. Pietro Franco stenta molto ad accettare la situazione e i due bimbi crescono sapendo di essere “bastardi” e subendo anche per questo l’emarginazione orchestrata dai genitori degli altri bambini del posto. Donato finisce per innamorarsi di Maria che però verso i diciassette anni fugge, innamoratissima, con un giovane aristocratico che intende così vendicare un’offesa ricevuta da Donato quando erano poco più che bambini. Viene così preparato il drammatico finale, nel quale venendo perpetuato il tema dei figli illegittimi, l’autrice mostra una strada possibilista verso soluzioni che sarebbero probabilmente meno drammatiche per i bimbi in queste condizioni. Sono la sensibilità e il tormento di Donato che mostrano questa strada, che, nel 1919, è ancora troppo presto per essere percorsa.

Si è detto come il tema dei figli illegittimi abbandonati sia stato affrontato ripetutamente in letteratura. Va detto però che sono stati prevalentemente scrittori ad affrontarlo e infatti abbiamo in genere donne che abbandonano (non solo come partorienti) e uomini che adottano. Ci sono alcune eccezioni che non elenco per non dilungarmi troppo ma davvero rare rispetto a questo stereotipo. Bianca De Maj affronta invece il tema da un altro punto di vista, femminile certamente, che è quello della “madre dell’ombra” che adotta nonostante la resistenza del marito che solo molto più tardi si affezionerà ai bimbi ormai adolescenti. E la “madre dell’ombra” si fa custode, invano, di un possibile riscatto e il monito simbolico perviene alla figlia adottiva quando lei, Bigia, ormai morta, sembra poter far riecheggiare nella testa di Maria le sue parole:

«Maria, Maria Grazia, figlia del mio sangue, che fai? Perchè domandi quello che non devi domandare, quello chʼè fuori dalla legge, fuori dalle consuetudini del mondo; quello che ti perpetuerà, in eterno, quel marchio ch’io speravo di veder cancellato dalla tua fronte?»

Credo che sia proprio questo oscillare tra la salvaguardia del ruolo tradizionale femminile e l’apertura a possibilità nuove emergenti che rendono interessante ancora oggi questo romanzo.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

La Bigia varcò il cancello del Brefotrofio di Milano, il cancello di ferro bruno spalancato nel mattino di maggio.
Attraversò il giardino, salì la grande scala bianca e giunta al primo piano, attese nella sala comune.
Fra il gruppo delle nutrici di campagna, fresche contadine o artigiane floride, ella appariva la più alta, la più sana, la più bella. Era quel suo busto di ventitre anni, o quel tesoro di trecce bionde intorno al placido viso, o era quella sua espressione di salute appena tocca da un velo di malinconia, come un’ombra dinanzi a una stella?
Ella si presentava all’Istituto di Assistenza Pubblica per domandare una creatura in allattamento.
La levatrice anziana che aveva assistito alla visita sanitaria, nell’aiutarla a rivestirsi le disse:
— Il salario è di ventiquattro lire mensili, più il corredo. E c’è l’obbligo, ad ogni sei mesi, di riportare il bambino per la visita —
— Lo so. – rispose calma la contadina. – Non è la prima di queste creature che allatto. —
La levatrice la fissò per un attimo e si ricordò.
— Ah, la Bigia! Scusatemi, non vi avevo riconosciuta. Mancavo da più di un anno e sono ritornata giusto ieri. Come va che venite a prendervi un altro baliatico?

Scarica gratis: Madri dell’ombra di Bianca De Maj.