Lis cidulis, Scene carniche.
di
Caterina Percoto
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A LUCIA VENTURA VIVANTE
Caterina Percoto.
I.
Volgeva il giorno al tramonto, e Giacomo, seduto sul dinanzi del pigro carrettone, giugneva appena sotto le sbiancate rupi di Amaro; egli avrebbe voluto divorare la via, guardava al sole che già si nascondeva dietro Cavasso, guardava ai cavalli stanchi, alla strada che si faceva sempre più ripida.
— Ancora una mezz’oretta, – disse il carrettaio, – e poi siamo a Càneva.
— Contate di passar la notte là? – chiese il povero giovinotto, cui la speranza che l’aveva mantenuto allegro e facondo tutto il viaggio, or quasi scaduta cominciava a mettere in serietà.
— Farò dare due misure alle mie bestie e poi proseguirò, disse l’altro. Passarono entrambi quella mezz’ora in perfetto silenzio: l’uno pratico del sentiero e sicuro delle sue mule, lasciavasi andare a lor discrezione, senza por mente all’orribile pericolo di quelle erte così frequenti, e saliva lento, e veloce discendeva, sempre intento a raggruppare la coda della sua frusta; l’altro cogli occhi fisi ad un punto, aveva mille volte col pensiero percorso lo spazio che ne lo divideva, e, se gli avessero offerto di guadare il torrente, di gettarsi attraverso quelle frane e que’ rompicolli, avrebbe accettato, purchè avesse potuto marciare in linea retta. Giunsero a Càneva, e Giacomo, smontato dal carrettone, contò alcune monete al compagno; indi, postosi in ispalla il suo fardello, prese la via di Paluzza, contento d’essersi liberato da quella pigra vettura, e persuaso che le sue gambe dovessero servirgli assai meglio. Infatti, pareva ch’ei volasse. Lasciò la strada non ancora compiuta che passa per Terzo, e tenutosi basso tra le ghiaie del dirupato torrente, lo saliva a ritroso valendosi di tutte le scorciatoie e tendendo l’orecchio perchè il fragore delle acque gl’insegnasse il luogo dei ponticelli. In tre anni di assenza, quanti rivolgimenti! Il fiume inquieto aveva cangiato più volte di corso, ed egli era obbligato a rintracciare le seghe e i passi mutati. Era dirimpetto a Zuglio, quando le aeree campane di San Pietro suonarono l’Avemmaria. Quel suono lo commosse. Parevagli la voce conosciuta d’un amico che rivedi dopo lunga lontananza. Quante memorie gli tornarono allora nel cuore! La sua fanciullezza passata, i genitori, gli amici, la patria, il primo palpito della sua anima innamorata, tutto si legava a quella campana armoniosa, che, illuminata dall’ultimo raggio del sole, salutava la prima il suo ritorno. Bel pensiero gli parve allora quello dei suoi vecchi compatriotti, che consecrarono all’Apostolo quella sublime pendice. E la chiesa parrocchiale circondata dal cimitero, comune un tempo a tutta la vallata, e il magnifico campanile situato in modo che l’angolo della sua guglia compie la piramide della montagna, gli parvero in quell’istante opera veramente maravigliosa. Arrivò sull’imbrunire ad Arta, guardò la montagna che sorge a sinistra del villaggio, e sulla cui cima è situata Cabia. Il cuore gli batteva impetuoso. Nel dimani celebravasi la messa così detta della gioventù, ed egli avea tanto corso, ch’era giunto prima che si cominciasse a far scivolar le girelle. Tra que’ monti vige un antico costume. La sera precedente a un dì solenne, alcuni giovinotti del villaggio ascendono la montagna, piantano a lor dinanzi un impalcato, e tagliate di legno resinoso delle rotelle in forma di stella, le conficcano ad un palo, indi danno lor fuoco e le girano, le girano finchè sieno bene ardenti, poi battono d’un gran colpo il palo sulla panca, e le fanno scivolar giù a salti per la montagna consecrandole al nome delle giovinette del paese. A’ piedi del monte vi è un’altra turba di garzoni, che stan pronti con armi da fuoco per festeggiare a chi più può il nome della propria amorosa. Giacomo sapeva che la gioventù del suo villaggio era solita nel dì seguente far cantare una messa alla Vergine perchè ne custodisse i costumi, e che in quella sera salivano a metà dell’erboso monte di Cabia per lanciare le girelle. Erano tre anni ch’egli aveva abbandonato Arta per guadagnarsi il pane col mestiere del legnaiuolo. Era giunto a farsi benvolere dal suo padrone, aveva accumulato qualche risparmio, e ritornava in patria a far provvista di legnami, e nello stesso tempo a vedere se la Rosa gli era ancora fedele. Portava un paio di pistole e della polvere da schioppo, e tutto il viaggio aveva mulinato del come arrivare sconosciuto, e della grata sorpresa che preparava a lei nel farle sentire nella festa delle girelle salutato il suo nome da parecchi spari e forse più che alcun altro delle compagne. Quando guardò al monte di Cabia e vide che arrivava in tempo, sentì corrersi al cuore un tal soprassalto di gioia e sì fattamente cominciarono a tremargli le gambe, che dovè entrare nell’osteria per refocillarsi un istante. Ivi ad una tavola trincavano alcuni giovinotti suoi coetanei. Vicino alla tazza tenevano le pistole già cariche e cantavano le patrie villotte, quelle villotte, ch’egli stesso un tempo insieme con essi avea creato e che più d’una suonava nel nome della Rosa. Fu lì per correre ed abbracciarli, ma si rattenne pensando all’improvvisata che macchinava. Si ritirò in un cantuccio, visitò le sue armi; e quando vide partire i compagni, tenne lor dietro fino alle falde della montagna. Là si nascose dietro una macchia presso il fonte, e stava aspettando il grido di gioia che doveva dirgli il nome dell’amata. Era una bella notte serena, mite la stagione e tutte ancor verdi le montagne. Di dietro ai gioghi di Cabia spuntavano due candidi raggi che andavano allargandosi a guisa di ventaglio e si perdevano nell’immenso azzurro. Prima che comparisse la luna incominciò la festa. Fu accesa la prima girella e balzò pei greppi della montagna consecrata al parroco del paese; dopo questa fu lanciata la seconda nel nome della più bella ragazza del villaggio, e poi una terza, e poi una quarta, e spari di fucile e grida festose le salutavano al basso, e l’eco fragorosa le ripeteva fin’oltre Paluzza. L’un dopo l’altro furono declinati ventotto nomi, senza che mai suonasse quello di Rosa Pignarola. Era indescrivibile l’ansietà di Giacomo. Sul principio, il proprio orgoglio gli faceva sperare primo quel nome. Bionda, ricciutina, candida e rosata, dagli occhi neri e dalla svelta figura, gli pareva impossibile che tutti come lui non la vedessero per la più bella. Ma quando udì preposte altre, ch’egli aveva conosciute, e che nella sua mente non valevano un ricciolino della Rosa, cominciò a pensare che la poveretta era così trascurata perchè aveva l’amante lontano, e sentivasi crescere il cuore, e si felicitava di vendicarla e farla trionfare cogl’impensati suoi spari. Intanto suonò l’ultimo nome di fanciulla. Dopo questo furono inalberate un’altra ventina di girelle, e fra gli evviva i canti e gli scoppi balzavano a salti dalla montagna, ed altre a furia le seguivano, sicchè da lungi ti pareva una pioggia di stelle che giù volassero a tuffarsi nelle acque della Bût, o che una magica verga per illuminare la notte avesse percosso il monte e fatta scaturire questa magnifica fontana di foco. Povero Giacomo, che fu di lui, allorchè sentì svanirsi ogni speranza! Ch’era dunque stato della Rosa? Avrebbe voluto lanciarsi tra i compagni e chiederne conto, ma lo rattenne la paura d’una risposta fatale. Potevano dirgli ch’ella era morta…. o maritata…. Ah! ch’egli avrebbe dovuto prevederlo. Così bella!… Era impossibile che si fosse contentata d’aspettarlo; lui tapino che non aveva di suo che le braccia! – Questo pensiero lo riempì d’amarezza, e per un istante gli pesò sul cuore tutta l’impotenza della sua umile condizione. Si ricordò allora di sua madre…. Con quanto affetto non lo avrebbe abbracciato la povera vecchia! Erano tre anni che non la vedeva. Quando partì, ella pianse tanto! Era infermiccia e temeva di morire senza rivederlo, gli diede tutto il danaro che a forza di privazioni aveva potuto raggranellare, lo benediva con tanto amore…. ed egli aveva potuto ritardarle la consolazione di riabbracciarlo?… Aveva potuto fantasticare tutto quel giorno per far sorpresa ad una ingrata che lo aveva dimenticato, e neppure un pensiero alla povera donna che non viveva se non per lui…. Ben gli stava l’immenso dolore con che il cielo ne lo puniva! e lacrime dirotte gli corsero per le guance. Cresciutogli affetto dal rimorso, avviossi alla sua casa ansioso di abbracciare la buona vecchia, la cognata ed i figliuolini del fratello, l’ultimo dei quali era nato dopo la sua partenza. La porta della cucina era socchiusa, due fanciullini giocavano insieme seduti dinanzi al focolare, e un terzo dormiva in grembo alla cognata, che ad ogni tratto smetteva di ninnarlo per attizzare gli stecchi sotto un paiuolo che dal fumo e dal borboglío conoscevi presso a bollire. La vecchia col dorso vôlto alla porta e china sulla madia aperta, era affaccendata a far correre lo staccio. Prima ad accorgersi del sopravvenuto fu la cognata, che mise il suo bimbo sullo spazzo e corse ad abbracciarlo. Ei le fe’ cenno di starsi cheta, e pian pianino era per gittare le braccia al collo di sua madre, quando questa s’accorse, diè un grido, e, gettato lo staccio, strinse al cuore il suo povero Giacomo. Dimenticarono per buona pezza la polenta, lieti del rivedersi e curiosi di tutto che era passato in quel frattempo. Suo fratello era ito sul monte colla mandria di compare Giovanni, e doveva di giorno in giorno ritornare. Le due donne lo aspettavano pel dì della Madonna, ed erano liete che il caso avesse così per quel giorno solenne riunita tutta la famigliuola. Intanto i fanciullini, che al suo venire s’erano rincantucciati in un angolo del focolare, gli si fecero d’intorno e mescevano anch’essi la loro linguetta a quell’allegro chiacchierare; ei tenne un pezzo fra le braccia il piccino, e lo baciava con quell’affetto con cui avrebbe baciato il fratello. Chiese dei conoscenti, degli amici, del parroco; ma non nominò la Rosa, nè le donne s’attentarono di farlo. Era uno scoglio che tutti tre fuggivano per diverso motivo. Giacomo procurava di mostrarsi gaio: fu solamente durante la cena, che il cuore la vinse. Suo malgrado gli corse la memoria ai giorni precedenti la sua partenza, e impensierito teneva in mano la scodella, senza poter trangugiare il tozzo che meccanicamente aveva imboccato. Le donne si accorsero, e dopo un minuto di silenzio: — Che hai Giacomo? chiese la madre con voce affettuosa. Povero Giacomo! gli occhi gli si fecero grossi, e suo malgrado fu vista luccicare una delle tante lagrime che inghiottiva. — Hai dunque saputo della poveretta? continuò essa. Quest’anno è stato un grand’anno per lei! Noi abbiamo preveduto che doveva finire così. Si affaticava di troppo, massime sul taglio dei fieni: correre ogni giorno fin lassù nei prati di Sorassacco…. — Ma dunque?… diss’egli, e aspettava, come il condannato aspetta la fatale sentenza che deve troncargli il capo. — Dunque è morta? — Morta no! ma gravemente ammalata. Dopochè suo padre si è riammogliato, la poveretta non poteva aver pace con quel demonio della Margherita. Ne pativa d’ogni sorte, finchè finalmente risolse d’andarsene, e prese servigio qui a Cedarzis in casa di quel mandriano, che ha suo figlio muratore in Germania; te lo ricorderai, era della tua età. In quella casa ella lavorava dì e notte per farsi benvolere, e un po’ forse per dar torto alla matrigna, che la predicava per una dappoco. La mattina una fornata di pane, ch’e’ hanno i dazi, poi l’acqua per la cucina, talvolta un mastello di pezze: a mezzogiorno un boccone, e poi su ne’ boschi a legna, e caricava più che alcun’altra; e quando si fecero i fieni, mi diceva qui la Togna, dall’alba alla sera un continuo lavorare, finchè si è buscata la malattia, per cui sono otto giorni che batte la febbre. — E che ne ha detto il medico? chiese Giacomo. — Ho paura che nessuno si sia preso la briga di consultarlo, e forse, soggiugneva la vecchia, sarà meglio; che se la è destinata…. — Oh madre mia! vi prego…. Che ora abbiamo? Non devono essere ancora le dieci, e forse s’io corro in Piano, arrivo prima che il dottore si corichi. — Il dottore? ripigliò Tonina; facilmente, se andate qui da M*** egli c’è’ ancora. È solito giocar la partita con quei signori che son venuti a prendere le acque, e l’altra sera batteva mezzanotte che ho sentito passare il suo carrettino. — Volo dunque là, disse Giacomo: a rivederci domanmattina.
II.
Tra i forestieri venuti a bere le acque, c’era una ricca signora di B*** sul primo fiorire dell’età, appariscente piuttosto che no; grandemente amata da’ suoi, ell’era da tre anni ammalata e forse vicina al sepolcro. Dopo aver consultato indarno i primi professori dell’arte e ricorso a tutti gl’immaginabili rimedi, furono suggerite a sua madre le acque di Carnia, e la figlia accettò, non perchè le credesse efficaci, ma per compiacere a’ suoi cari, e forse nel suo secreto per una trista speranza. Nata di seme italiano, in una città italiana, i suoi genitori avevano creduto di farla distinguere fra tutte le sue coetanee col procurarle un’educazione peregrina, ed a tal fine se la tolsero dal seno, e la mandarono ancor bamboletta in un convento nel cuore della Germania. Povero fiore così acerbamente trapiantato! Lungi dal suo clima e dalla sua terra natale ella crebbe a stento. Aveva sortito da natura un carattere timido, un cuore espansivo e facile all’affetto. Si trovò sola in mezzo a volti stranieri: lungo tempo incompresa suonò per essa la voce umana, e ad uno ad uno morirono sulle sue labbra tutti gli accenti del suo armonioso dialetto. Dicevano che l’uso della stufa, a lei italiana e debole, era stato cagione della malattia che soffriva. Aveva perduto la voce, e tutto faceva dubitare che fosse affetta da tisi. Ella stessa n’era persuasa, e placidamente si rassegnava a lasciare questa bassa terra di guai dove non aveva còlto che dolore; ma per una contraddizione inconcepibile nascondeva a tutti la sua malattia. Pareva che cercasse di velare agli occhi degli altri, ciò ch’era pienamente manifesto a’ suoi. Giunta in Carnia, non volle che fosse chiamato per lei il dottore, e la madre fu obbligata ad informarlo in secreto ed a fare che le sue visite fossero come di semplice civiltà, o per l’occasione di altri forestieri alloggiati nello stesso albergo. Se avveniva che una notte avesse tossito più delle altre, o se la mattina guardandosi nello specchio le pareva di essere più sparuta del solito, si chiudeva nella sua camera e ricusava di lasciarsi vedere. Sul tramontare quasi ogni giorno la coglieva un po’ di febbriciattola: allora i suoi occhi, per solito muti e come appannati, si animavano, e benchè brillanti di una luce sinistra, apparivano bellissimi; le sue labbra si colorivano d’un rosso vivace traente più al chermisino che al corallo, e le sue gote sempre pallide si facevano serene, e serena mostravasi la sua ampia fronte italiana, ombrata da nitidi folti capelli castagni, che, oltre le tempie lasciati liberi, si avvolgevano in due morbide spire scendenti sulle delicate ma pallide spalle. Il sussulto della febbre le rimetteva nelle vene il brio della giovinezza per lei già perduto, e in quell’ora e tutta la sera parlava volontieri, e le facevano gradita attenzione nel farle visita e giuocare la partita. La madre, poveretta, lusingata dall’affetto, vedeva con piacere queste ore d’ilarità, faceva buon viso a tutti, procurava di farla divertire, e non s’accorgeva di contribuire con ciò a consumare la vita preziosa per conservar la quale avrebbe dato la propria. Il dottore guardava con interesse questa gentile creatura già destinata al sepolcro, e nel vedere che le acque, ch’ella con gran coraggio beveva, lungi dal recarle danno, come in simili disperati casi suole avvenire, pareva anzi che l’avessero alquanto migliorata, nel suo intimo nutriva una lontana lusinga. Quanto avrebb’egli pagato nel veder consolata la povera madre! Non ardiva peraltro palesare questa sua fievole speranza, ma faceva più frequenti le visite; e tutto il tempo che gli era libero la sera, lo passava in loro compagnia, nel pensiero d’osservare più dappresso l’ammalata, di giovarle se fosse stato possibile coll’arte, od almeno colla sua presenza impedire ciò che avrebbe potuto accelerare il punto fatale. Era dunque egli spessissimo da M*** e si fermava fin tardi, come aveva osservato la Tonina; e Giacomo, che diritto corse là a vedere di lui, lo trovò infatti, che già montato in carrettino stava per andarsene. In poche parole narrò il caso della Rosa. Il dottore lo fece salire nel proprio carrettino, e invece d’avviarsi a Piano tenne a mancina verso Cedarzis. Faceva un bel chiaro di luna, ed erano magnifiche quelle montagne vedute così di notte. Tacevano entrambi. Giacomo stanco di quella troppo combattuta giornata, e presso ad un di quei momenti solenni che s’imprimono nell’anima per poi colorare gran parte della nostra futura esistenza, pensava alla Rosa; ma era calma la sua fronte, e il cuore lungi dall’essere agitato batteva placido, e l’aria fresca del torrente gl’irrigava le membra d’una dolcezza tranquilla e soave. Sia che la finita nostra natura non ci permetta le agitazioni del dolore che sino a un punto oltre il quale tornano i nervi nella quiete di prima, o che l’interno dell’uomo rassomigli alla faccia esterna del globo che abita, sulla quale, prima della procella, regna sempre la calma più perfetta, fatto si è che il povero giovane, lontano pochi minuti dalla terribile catastrofe che poteva infrangere la sua anima, si lasciava andare a una soavità di pensieri e ad una pacatezza d’immagini, quasi simile al sopore d’innocente bambino. I pensieri del dottore erano quali da qualche tempo solevano essere ogni sera a quell’ora. Riandava il saluto, gli atti, il portamento, ogni parola della forestiera. Erasi fitto in mente, che la malattia di lei derivasse da più recondita fonte che non si diceva. Quell’ostinato fuggire ogni rimedio, quella sua disperazione di guarire unita alla strana cura di dissimulare e nascondere i propri patimenti, alcune espressioni a cui egli aveva dato un senso assai lontano forse dall’idea di chi le aveva proferite, la malinconia, l’abbandono e un cupo desiderio ch’egli credeva d’aver talvolta sorpreso ne’ languenti suoi sguardi, qualche sospiro, qualche istante di astrazione involontaria, tutto questo ingigantito e colorato poeticamente dalla sua fantasia di giovanotto, gli faceva vedere in quella interessante creatura la vittima di qualche tremenda passione. Qual era la spina che s’era fitta in questo cuore di vergine? Amava ella colla veemenza d’un primo affetto forse contrastato, forse illecito? più facilmente, come dicevano i suoi occhi lenti e freddi, avrebb’ella così giovanetta percorso un lungo stadio, e disingannata, piegherebbe la frale esistenza oppressa dal peso dell’umana malizia? La prima volta che la vide restò colpito dal singolare contrasto che la sua educazione faceva coll’esteriore sua forma. Infatti guardando Massimina, chi mai avrebbe immaginato di ritrovare nelle sue labbra, mobilissime come quelle di tutti i meridionali, il barbaro accento e le aspirazioni del settentrione? Anche le sue maniere avevano un non so che di esotico; e v’era ne’ suoi detti, nel suo vestire, in ogni suo tratto una tal quale bizzarria, che tuo malgrado ti feriva; ond’egli avvezzo a tutto notomizzare avrebbe voluto squarciar il mistero e contando ad una ad una le fibre di quel cuore, scoprire donde proveniva il veleno che così distruggeva quella macchina gentile. E non s’avvedeva, che i soli cadaveri ponno venir sottomessi a tale disamina, e che a misura che ti avanzi colla face della scienza nella mano, fugge ritrosa la vita, e che se v’ha qualche cosa per cui la sottile osservazione sia un’arte affatto vana, gli è appunto il cuore della donna! Giunsero intanto a Cedarzis, smontarono dinanzi una casetta che Giacomo additò, e picchiato, chiesero della Rosa.
La povera fanciulla giaceva in una cameruccia a pian terreno; sul meschino letticciuolo le vesti della malata facevano uffizio di coperta; da più ore niuno era stato a vedere di lei. Era nel delirio della febbre, il suo volto infocato ardeva, le carni inaridite scottavano; non conobbe il dottore, non s’accorse di Giacomo, sempre nella stessa positura cogli occhi impietriti e fisi in un punto continuava a delirare, e le parole tronche e sconnesse uscivano dalla sua bocca tutte di un tuono e senza che mai perciò movesse le labbra. Fu indarno il farle mostrare la lingua: il dottore le prese il braccio per forza, e mentre tacito contava il rapido battere dell’arteria, diede un’occhiata a Giacomo che finì di sconcertarlo. Si pose a scrivere. Prima di terminare la ricetta, si volse alla padrona di casa, e le disse di trovar tosto chi andasse in Piano a farla spedire. — Non basterebbe doman mattina? dimandò quella femmina mezzo assonnata e vogliosa di presto sbrigarsi. — No, rispose il dottore, s’è già anche di troppo ritardato…. e stava per dire alcunchè di brusco: ma guardatala, s’accorse che l’inchiesta non proveniva da cattivo cuore, bensì da quel fatale pregiudizio per cui la maggior parte dei villici riguardano la medicina come scienza inutile. — Non avete alcuno, buona donna, ripigliò egli con voce più mansueta, da mandar tosto alla spezieria? perchè, vedete, questa povera fanciulla è di molto aggravata, e un’ora perduta potrebbe forse decidere della sua vita.
— Ma…. diss’ella, son tutti a dormire.
— Ebbene! fateli alzare. — Giacomo allora richiamò tutta la sua energia e fece un passo come per proferirsi.
— Buon giovanotto! gli disse il dottore che lo intese, monta nel mio carrettino, trotta, ti aspetto qui: forse intanto dechinerà l’accesso, e potrò somministrarle io stesso la prima pillola.
Non ringraziò, non rispose Giacomo; ma era già nel calesse e volava. Il dottore fece alcune interrogazioni a quella donna; ma accortosi che ne cavava poco costrutto, si rivolse all’ammalata e tornò a sentirle il polso. La vecchia intanto aggiustò il lucignolo alla candela, poi si assise su di una cassa, e tiratosi il fazzoletto sugli occhi, dormicchiava. La malata continuava nel suo terribile vaneggiamento: solamente, dopochè le si aveva per forza fatto cavare il braccio, all’immobilità di prima aveva sostituito un sinistro movimento, come se, dato una volta l’impulso ai nervi, fosse per lei impossibile di frenarli. Se ne accorse il dottore, e più volte fe’ prova di coprirla, ma indarno; ella tornava sempre a quel moto convulsivo, e presentava fuori delle coperte quella mano pallida e tremolante. A tal sintomo, che annunziava in modo così evidente la presenza del sussulto nervoso, scosse il capo il dottore, e tremò di non essere forse più in tempo d’arrestare la tremenda malattia. Concentrato camminava su e giù per la cameretta, gli parve l’aria soffocante, e pensò che negli otto giorni dacchè ella giaceva forse non si erano aperte mai le finestre. Mentre colla mano allontanava la rozza imposta di una di esse, gli corse alle nari un lieve profumo, come di garofano. Era una cassetta con un bel pedale di questo fiore e due bottoni già quasi dischiusi. Ma sbocciavano languidi, ed anche la pianta era imbianchita. Dacchè Rosa giaceva, niuno s’era più ricordato de’ suoi fiori, ed essi crescevano all’oscuro, senz’aria e senz’acqua. Nella rude sua vita di fatica e di travaglio, forse quella cassetta era il suo unico sollievo. Forse ell’era un dono dell’amante, e chi sa con quanta gioia avrà veduto spuntare que’ due bottoni sperando di adornarsene nella vicina festa della Madonna; ed ahi! pensò il dottore, non fiorivano forse che per venir gettati sulla sua bara. I loro petali scoloriti, il gambo sottile, e quell’esile fragranza che spandevano, tornarono nella mente del dottore un’altra creatura che grandemente li somigliava. Anch’ella pareva cresciuta all’oscuro; la sua giovanezza era come quella di que’ garofani, avvizzita prima di sbocciare, senza un soffio d’aura vitale, senza un raggio di sole che la confortasse, senza una stilla di benefico umore che la rinverdisse!… Eppure così languida e così morente, spandeva anch’ella un effluvio di gentilezza che dolcemente rapiva. — Tornò ad osservare la malata. Il rosso infocato delle sue guance cominciava a dar giù, a poco a poco tranquillossi il delirio e il sussulto, e parve come conspersa d’un lieve madore. Di lì a pochi minuti Giacomo di ritorno entrava con in mano la scatola delle pillole. Il dottore guardò l’orologio, e vôlto alla vecchia:
— Su, madonna, disse, portate un cucchiaio e una tazza d’acqua. Ma come faremo, continuava, a provvedere che venga bene assistita questa povera fanciulla? Bisognerebbe cambiarla di biancheria, farle del brodo; e qui in casa, o non hanno, o non vorranno, e se ci fidiamo di loro…. Dite, madonna, diss’egli alla femmina che ritornava, chi assisterà quest’oggi la malata?
— Che c’è da fare? rispos’ella. — Allora il dottore prese Giacomo in disparte, e restarono intesi di mandar tosto a chiamare una brava donna del villaggio che faceva da levatrice, e che questa assisterebbe la malata, senza che quei di casa s’impicciassero nè punto nè poco. Indi tornato al letto di lei, le fece prendere la pillola. Più non delirava, ma non era peraltro in sè, e mostravasi abbattuta. Giacomo la chiamò più volte per nome; ella non fece che aprire i suoi grandi occhi languenti, lo fisò come mentecatta, e poi di nuovo assopì. Venne intanto la Maddalena, il dottore le diede i suoi ordini, le lasciò il proprio orologio perchè fossero eseguiti colla massima esattezza, e partiva accompagnato da Giacomo, che non sapeva come ringraziarlo, se non col pregare per lui e consecrargli tutto sè stesso.
III.
Nel dimani, prima che il sole avesse superato le pendici del monte Marianna, Giacomo era di già un’altra volta a Cedarzis. Attraverso frane, grebbani e siepaglie, egli avea tenuto la via più breve, e spuntava sull’altura che cuopre a settentrione il villaggio, quando udì sonare a distesa il campanello che precede la comunione agl’infermi, e poi giù tra il verde vide le torce, la bianca ombrella del Sacramento e una riga di lumi e di donne devote, che col fazzoletto sugli occhi e le mani giunte seguivano pregando ed alternando con voce sottile le litanie al grave salmeggiare del sacerdote e dei pochi che lo accompagnavano. Portavano il Signore alla Rosa. A quella vista sentì nel cuore un subito affetto e un desiderio di preghiere, e corse ad unirsi alla processione, e coll’anima purificata da immenso dolore pregava per lei…. Pregava che il Signore gliela ridonasse! Giunto alla casa del mandriano, entrò il sacerdote con pochi, tra’ quali Giacomo. Gli altri s’inginocchiarono sulla via, e pregavano sommessi. Nella cameretta di lei avevano apparecchiato un tavolino coperto da una tovaglia da chiesa con suvvi due candele accese e il secchiello dell’acqua santa; Maddalena, la padrona di casa, Giacomo, il sagrestano, e i due che portavano le torce, inginocchiati facevano corona al letto. La malata aveva sul capo il suo fazzoletto da festa, teneva gli occhi chiusi, le mani giunte, e nella semplicità della sua fede pregava in silenzio. La sua faccia era pallida, abbattuta, ma serena; i graziosi ricciolini che solevano contornarla, ora distesi e negletti volitavano in tenui liste sulle tempie e lungo le guance. Quando sentì la voce grave del sacerdote annunziarle la pace, adunò tutte le sue forze e fece come un moto per sollevarsi incontro al Signore che veniva a visitarla; indi con più divozione strinse le mani, e al chiarore delle torce fu veduta correre sulle bianche sue gote più di una lagrima. Cogli occhi sempre chiusi aprì le labbra pallidissime, e ricevette l’Agnello che toglie i peccati, chinò la fronte, e dentro a sè raccolta pregava con grande affetto. Spensero i lumi e partirono: solo Giacomo era rimasto, e colla faccia nelle palme inginocchiato a’ piedi del letto piangeva in silenzio. Di lì a qualche poco Rosa s’accorse di lui.
— Giacomo? diss’ella, siete proprio voi?
Egli si alzò, ma non poteva proferire parola.
— Oh! se sapeste quanto ho pianto per paura di morire senza vedervi! — e gli porse la mano, e quelle mani affettuosamente congiunte più si dicevano di quanto avrebbe saputo la lingua. — Nei giorni passati, continuò Rosa, ho tanto pregato la Vergine e i Santi che vi mettessero in cuore di tornare al vostro paese, e questa notte mi siete comparito in sogno: eravate seduto lì — e additava il posto che Giacomo aveva tenuto durante il suo tremendo delirio; — ero così contenta di vedervi!… Quando mi sono svegliata questa mattina e che mi sono accorta d’aver sognato, ho sentito una tale amarezza!… Non ho potuto tranquillarmi, se non nel momento della comunione. Mi parve allora che il Signore mi promettesse che vi avrei riveduto in paradiso…. Ah! Giacomo, e voi siete qui!… Mi farete una grazia? chies’ella dopo alcuni minuti di silenzio.
— Potete credere! disse Giacomo tutto commosso.
— Dopochè voi lasciaste il paese, ne ho patite tante….
— So tutto, interruppe egli, mi hanno raccontato….
— Or bene. Mio padre non voleva che venissi qui, e crede che io non lo ami! Gli ho fatto dire che sono ammalata….
— Ed è stato a ritrovarvi?
Rosa fe’ cenno di no, e le si annebbiarono gli occhi.
— Pur troppo morrò senza vederlo! diss’ella dopo un altro momento. Mi dorrebbe, ch’egli credesse ch’io fossi partita da questo mondo serbando rancore contro di lui…. e voi, Giacomo, avete a farmi la grazia d’andarlo a trovare. Gli direte ch’io l’ho sempre amato come quando ero picciola e che viveva la mia povera madre, gli porterete quel po’ di danaro che mi viene del mio salario, lo bacerete per me, e voi contategli con quanto dolore vada sotterra priva della sua benedizione e del suo perdono…. — In quella entrò Maddalena con una scodella. Si accorse che la malata era commossa, e non le parve bene; fece viso arcigno, e mentre col cucchiaio andava freddando il brodo,
— Bisognerebbe, disse a Giacomo, che arrivaste da Galante per farvi dare quel paio di lenzuola e quella copertina che dicevano ieri sera; e poi qui ci vuole della carne…. — E andava ricordando al giovane diverse faccenduole e spese da farsi tanto da torselo dai piedi. Giacomo intese, e salutata la Rosa, se ne andava.
— Ricordatevi di tornare! diss’ella.
— Sì! borbottò la Maddalena, faremo un altro piagnisteo, e così la febbre tornerà da capo.
La malata prese con molto piacere quel brodo, poscia dolcemente s’addormentò. Quando venne il dottore a visitarla, si mostrò ilare, parlò di buon umore, il suo polso era quasi senza febbre. Verso sera ei fece di nuovo ritorno. Trovò rinnovato l’accesso, ma però dalle riferte della Maddalena capì che il delirio s’era spiegato più tardi e men feroce della sera innanzi. L’ammalata aveva il viso straordinariamente acceso, sicchè pensò all’applicazione delle sanguisughe alle tempie. Tra il mandarle a prendere, l’applicarle, una nuova prescrizione di chinino, e l’insegnare a Maddalena come doveva regolarsi in quella notte e nel dimani, fece sì tardi, che per quella sera dovette rinunziare alla sua solita partita di Arta.
IV.
Il dì seguente, era domenica; quantunque si fosse innanzi colla stagione, faceva bellissimo tempo, e il dottore con alcuni amici pensò di fare dopopranzo una passeggiata sino alle fonti, e così visitare tutti ad un tratto i suoi ammalati; almeno quelli a cui era permesso di venir soli ad attignere le acque salutari. Quando furono sul ponticello dirimpetto ad Avvosacco, scorsero il bacino circondato di gente; v’erano delle signore sedute sulla panca, e qui e colà tra le ghiaie del torrente apparivano delle brune macchiette di chi andava, di chi veniva, o di chi gironzava, sicchè compresero che non avevano sbagliato, e che tutti com’essi avevano saputo approfittare della lieta giornata. Anche la Massimina era venuta, e la sua toletta, benchè semplice, era alquanto più ricercata del solito. Aveva un vestitino alla religiosa, liscio, di forme svelte, e minutamente quadrigliato bianco e verde, con sul capo a mo’ di cuffia una pezzuola di raso nero adorna di trine: una bella dalia fresca color scarlatto, posata con leggiadro capriccio dall’un dei lati, accresceva il pallore di quel volto, ed i suoi occhi quasi sempre abbattuti, or pel contrasto di quel fiore vivacissimo parevano ancora più smorti, e più languidi. Quando vide il dottore fu prima a salutarlo, e la madre in tuono di gentile rimprovero:
— Bravo! gli disse. E che fu ieri sera di voi? Noi vi abbiamo aspettato sin tardi….
— Signora, rispos’egli, ho dovuto trattenermi a Cedarzis per una malata — e narrò di Rosa.
— Ieri sera, disse un’altra signora, abbiamo progettato una piccola gita, e speriamo che voi pure sarete della brigata.
— Si! sì! anch’egli, replicarono due vispe ragazzine, che alla sola idea di già tripudiavano; ed egli deve persuadere a venirci la signora Massimina che fa la ritrosa….
— Ma di che si tratta? chiese il dottore.
— Qui la signora N***, disse un giovinotto, ha proposto di far dimani una passeggiata sino a San Pietro….
— Partiremo tutti in corpore, continuava un altro, e dopo ammirata e visitata in ogni angolo l’antica cattedrale, ci ritireremo sul praticello dietro la chiesa donde si vede il tramonto, e là, seduti in faccia a quella superba prospettiva, vogliamo goderci una lieta merenduccia.
— Il progetto non può essere più bello, rispose il dottore; ma temo di non poterne approfittare, perchè ho molti ammalati; — e guardava Massimina e coll’occhio pareva che la scongiurasse a guardarsi da un simile strapazzo. La povera giovinetta aveva ben compreso che il salire quel monte e l’esporsi all’intemperie d’una cena all’aperto non era piacere per lei, e vi si era rifiutata; ma nella gentilezza della sua anima avrebbe voluto che ne godessero almeno gli altri, sua madre, il dottore, e che nell’andarsene non fossero amareggiati dall’idea ch’ella restava. Perciò mostravasi lieta, e coi più cortesi modi cercava di far sì che il progetto venisse consolidato e che tutti ne approfittassero. Intanto il sole si raccoglieva nel verde degli abeti che incoronano la cima del monte di Fiellis. Era un di quei solenni momenti della natura che si fanno sentire nell’anima. La luce infranta dal folto degli alberi si spandeva più dolce, e i pratelli e i boschi che vestono il dorso delle ridenti montagne dirimpetto a Fiellis, per la fusione delle tinte e per la quietezza del lume apparivano come più freschi. Al di là della via che va a Paluzza, il tratto di fertile campagna che lieve s’inchina da Piano ad Arta era ancora illuminato, e quelle fiorenti biade parevano un tappeto di soffice verzura su cui tranquillo si riposava lo sguardo. A sinistra sulla più elevata pendice l’antica cattedrale col suo coperto di piastre, colle invetriate rutilanti di luce, e coll’ardito campanile che si slancia al cielo come un sublime pensiero, Zuglio più basso tra le rovine, e lungi, dove finiva la vista, Terzo quasi avvolto nella nebbia; a destra Arta candida nel grembo di tre verdi montagne, e Piano ed altre villette sparse qua e là nei punti più fertili della vallata, componevano un quadro, che veduto in quell’ora era veramente magnifico. Aggiugni il torrente le cui acque fragorose spandevano freschezza ed armonia, aggiugni il delicato effluvio dei ciclami misto al profumo di mille piante resinose che ti veniva alle nari con quell’aria sì pura e sì viva, onde senza saperlo tutti sentivano l’influsso della bella natura che li circondava, e la contemplavano assorti in religioso silenzio. Venne a trarneli una carniela che fu udita intonare sulla cima del monte vicino. Non arrivavano a discernere le parole: lor giugneva soltanto la cadenza, e quelle voci giovanili e quelle note semplici e prolungate scendenti dall’alto, e all’aperto, erano una musica ch’entrava nel cuore. Da lì a poco scoprirono due donne che venivano giù per que’ grebbani leste e quasi saltando; s’assisero e di nuovo cantavano. Questa volta udivasi chiaro
Olin gioldi l’alegrie
Come zovins che no sin;
Sunerà l’avemarie
Dopo muartis che sarin.
Sia che quel canto armonizzasse colla disposizione degli animi, e colla gentile malinconia dell’ora, tutti lo trovarono bello, e fuvvi chi osservò come la Carnia, produttrice di acutissimi ingegni, ricca di tradizioni popolari, di memorie nazionali, di ruderi consecrati dalla storia, paese così eminentemente poetico; con un dialetto armonioso, particolarmente in bocca alle sue donne, pure non aveva un poeta. Ella vantava in Francesco Janis un bravo giureconsulto, in Ermagora un riputato antiquario ed elegante latinista, nel conte Camucio vescovo d’Istria e poi patriarca d’Antiochia un illustre teologo, in Floriano Morocutti un insigne letterato e famoso diplomatico, in Dalla Stua un erudito, e non vi era chi con patria canzone avesse celebrato questa bella natura così ricca e così pomposa! Le due montanine erano intanto discese, e s’appressavano anch’esse alla fonte. Con quella ingenuità ch’è loro naturale vennero a ber l’acqua senza soggezione dei signori che ivi erano. Una di esse attinse una tazza e la presentò all’altra, che assaggiatala fece una smorfia e ratto la gettò via.
— Diacine! sclamò con quel suo accento provenzale, e questi signori la bevono?
— Non vi piace?
— Ma sa di ova fracide! e rideva, e maravigliava che si potesse venir sì da lontano per tracannare quella nequizia. E non sarebbe meglio una tazza di buon vino? diceva alla compagna, sbirciando cogli occhi furbetti alcuna di quelle signore, che alla cera sparuta e malaticcia pareva a lei facesse gran fallo a non ristorarsi piuttosto con un bicchierino di quelli che si bevono nei dì di sagra dall’oste di Paluzza.
— Non ne avevate mai più bevuta? chiese il dottore.
— Mainò, mio bel signore, e spero di non beverne neanche altra. Venendo giù dal monte abbiam veduto qui tanta gente, e c’è venuta la curiosità di sapere anche noi che delizia vi fosse.
— Eravate dunque voi altre quelle che cantaste quella bella canzoncina?
Esse arrossivano e ridevano.
— Or via, fatecene sentire un’altra! — E tutti le pregavano; ma esse guardando quella numerosa comitiva non si sentivano di servir loro di trastullo, e mossero per andarsene.
— Dunque, e questa villotta?
— Al solo suono dell’acqua Pudianota 1, o signori, non è troppo buon cantare, disse la più maliziosa, e salutando con bel garbo continuarono la loro strada. Anche gli altri pensavano a ritirarsi; si salutarono, e chi per una parte, chi per l’altra s’avviavano alle loro dimore. Il dottore prese la via di Arta, e dava braccio alla madre di Massimina. Giunti al ponticello, s’accorse che la fanciulla era rimasta ultima, e senza riflettere, dopo aver dato mano a passare a più di una di quelle signore, tornò di qua per offrire il suo braccio a lei. Ella vi si appoggiò languidamente, e ristette un minuto come pensierosa a riguardar l’acqua che a gran gorgogli e rapida come il fulmine passava sotto il debole ponticello e faceva traballare le uniche due travi che lo costituivano. A che pensava? Quelle onde concitate e l’una all’altra continuamente succedentisi le rendevano forse immagine della vita? Forse il suo pensiero vagava lungi e ricordavasi di qualche amata persona, o di qualche gioia fuggita come quel rapido torrente? forse per una di quelle bizzarrie che pur sono in natura, compiacevasi, ella così debole e quasi morente, a bilanciarsi sopra il pericolo e da sì fragile riparo a sfidare quell’impeto?
— Vi fa paura, madamigella? le chiese il dottore.
— Oh no! diss’ella con un quieto sorriso. La mia malattia mi ha da gran tempo avvezza a non temere.
Non comprese egli allora tutto il senso di tali parole; e poichè per la prima volta aveva toccato della sua malattia, prese il destro di parlargliene, e l’andava confortando e persuadendo a voler fidarsi ai soccorsi dell’arte, e le narrava di guarigioni ch’egli stesso aveva vedute e di casi assai più disperati del suo. Massimina camminava in silenzio, e pareva come assorta in altri pensieri. Quando furono ad Arta, la madre fece invito ai dottore di entrare; ma egli se ne scusò, e salutati tutti ed affrettando il passo prese la via di Cedarzis.
V.
Nel dì susseguente, sul far della notte, il dottore passava di nuovo per Arta. Vide lume nelle camere di Massimina, entrò nell’albergo, e gli dissero che tutti i forestieri erano andati a far una gita a San Pietro, e che sola era rimasta colla sua cameriera la giovinetta. Pensò di salutarla, e salì. La camera dove solevano ricevere stava aperta, acceso il lume; ma niuno vi stava. S’assise sul piccolo sofà e attese. Passati alcuni minuti, si alzò, e si pose a camminar forte: l’uscio che metteva nella stanza di lei era semichiuso; suppose ch’ella vi fosse, e continuò a far rumore. Indarno. Gli venne allora in mente che le fosse venuto male, e senza più riflettere spalancò la porta. Non c’era anima viva. Sul tavolo vide la sua calzetta e penna e calamaio e un libricciuolo aperto su cui erasi scritto di recente. Il cuore gli batteva forte: ei faceva una male azione; ma suo malgrado gli occhi gli correvano su quella scrittura minuta e leggera. Ei lesse. Erano memorie vergate dalla fanciulla, erano segreti del suo cuore. Egli coonestava la sua indiscretezza coll’idea che, conoscendo a fondo l’animo di lei, avrebbe potuto forse giovarle. La prima pagina datava dai cinque di gennaio di quell’anno, e diceva così:
⁂
«…….. Mi avevano regalato un bel mazzetto. — Quindici giorni dopo, mio padre, che voleva far aggiustare la stufa della sua camera, mandò un muratore sulla soffitta. Sgombravano macerie, e trovarono ivi nascosta una tazza con acqua limpida ed entrovi un fiorellino di geranio cannella. Chi aveva là portato quel fiore? Chi vel manteneva cangiandogli ogni giorno l’acqua? Una fanciulletta di dieci anni, che i miei genitori hanno raccolta per carità e che si educa nel servigio della casa, aveva rubato quella cannella dal mazzetto che mi era stato regalato. Confessò, e fu gravemente sgridata per aver osato metter le mani nei fiori della sua padrona. Me ne dolse…. e amai quella povera fanciulla, che certo deve aver l’animo gentile. Aveva rubato un fiore! e non dei più brillanti: v’erano dei garofani, delle camelie, ed ella scelse l’esile e pallido fiorellino della cannella. Non se ne adornò il seno, o i capegli, ma lo nascose in luogo sì remoto che non poteva neanche goderne, se non di rado, il profumo. A lei bastava il cangiargli ogni giorno l’acqua e compiacevasi di sapere che, nascosto a tutti, viveva per lei!…. Quando glielo tolsero, divenne rossa rossa e le si gonfiarono gli occhi. Avevano scoperto il suo secreto e troncata la misteriosa simpatia che la legava ad un fiore. Privo di chi lo curasse ei moriva in quel giorno, ed a lei venivano dissipati molti gentili pensieri, candida delizia della fanciulletta sua mente….»
Voltò in fretta due o tre fogli, e gli cadde l’occhio sulla seguente
«Memoria funebre.
«Povera Lugrezietta! Così all’udire la precoce tua perdita prorompono coloro che ti conoscevano. Quante delle compagne, che un dì teco scherzavano entro i recinti del chiostro, avran oggi così esclamato! Quelli che non ti conoscevano, allo spettacolo della tua bara, segnata di candida croce, avran chiesto il tuo nome, e all’udire che appena tocco il quarto lustro ti appassivi come un tardo bottoncino di rosa colto dalla bruma invernale, ti avran donato una lagrima di compassione. Povera Lugrezietta!… Volano i giorni, e ratta si dilegua l’orma leggera che tu stampasti nella vita. Breve tempo basterà a seppellire nell’oblio la tua memoria. Lo sconosciuto, che tra i monti del settentrione si commosse ai funerali dell’itala verginetta, forse ha già dimenticato il tuo nome: le tue compagne per pochi giorni ancora ridiranno la dolente istoria intrecciando false novelle alla tua verace sciagura; le antiche vergini, e il venerando nostro padre, egli che pietoso raccolse dalle tue pupille la prima lagrima del pentimento, per pochi giorni ancora ti raccomanderanno a Dio nelle loro preghiere, e quando il dì dei morti verrà a metterti nella lista di coloro che in quest’anno abbandonarono la vita, il tuo nome inscritto sulla nera scheda del coro ridesterà alla lor mente la tua sorte come una dimenticata arietta ci rammenta al riudirla le fuggite idee della fanciullezza. Da qui a dieci, da qui a vent’anni chi più ti ricorderà? Quella stessa madre sconsolata che corse a strignerti al seno per l’ultima volta, e spenta ti depose sul letto funebre, ti avrà allora già dimenticata…. o almeno i ridenti tuoi anni ch’ella vide svanire non le sembreranno più che un bel sogno il cui dileguarsi profondamente rammarica. Povera Lugrezietta! A questa voce di universale compianto io non mesco la mia. Compagna dei tuoi primi anni, conscia delle più segrete ambasce del tuo cuore, come potrei piangere quel sonno profondo che finalmente ti dà pace? Ma di tutte forse le tue amiche io più a lungo serberò la tua memoria. Piacemi la melanconia, è mio diletto la solitudine, ed ha per me voluttà il dolore delle tombe. Giovinetta, tu verrai spesso a farmi compagnia nei silenzi della notte, finchè un fatto simile al tuo me pure addormenti entro la terra dei sepolcri.»
Più innanzi così voltando le carte lo percossero queste altre parole:
«…. Padova…. Bassano…. Vicenza…. In altri tempi, o con quanto ardore avrei visitato queste belle città! Oggi il mio cuore chiuso aborre le loro allegrie, e rifugge dall’ammirarne i preziosi monumenti. Pochi passi lontana dal villaggio che fu cuna a Canova, io non l’ho ancora visitato…. Io che tante volte piansi all’aspetto dei capi d’opera dell’arti belle, dimani vedrò forse fredda ed insensibile questi marmi che il genio del grand’uomo animò? Non avrò più nel mio petto neppur una scintilla d’entusiasmo? Oppressa dalla sciagura l’anima mia è morta, i miei occhi disseccati non hanno più lacrime, sulle mie labbra non v’è più sorriso….»
Il giovane leggeva rapidissimo, avrebbe voluto nell’intuizione d’un minuto percorrer tutte quelle linee; tremava, ed era attento al minimo rumore. Fu più volte per desistere, ma la curiosità lo vinse, e dopo aver deposto il libretto e stato un attimo in orecchie, lo riprese: lo scartabellò tutto velocissimo e lesse quest’ultima pagina:
«Oggi appunto compiono quattr’anni. Questo breve spazio di tempo ha operato per me una grande rivoluzione. Ho cangiato paese, il modo di vivere, le persone che mi circondano, perfino il pensiero; anzi mi pare di non ritrovar più me stessa in me…. Avevo penato da principio ad assuefarmi alla vita del chiostro. Parlavano una lingua a me straniera; non c’era una creatura che mi amasse! Sognavo ogni notte i baci di mia madre, le carezze di mio padre, i giuochi e le corse gioite co’ miei fratellini. Quell’aria così fredda, quel cielo sempre fosco, quei volti tutti sconosciuti mi agghiacciavano il cuore…. Un po’ alla volta mi ci sono avvezza; amai la mia prigione, ed ora il più dolce de’ miei piaceri è il rammemorare gli anni infantili ivi passati. – Oggi quattr’anni fu un giorno solenne. L’amica dell’anima mia, Beatrice, dedicavasi a Dio! Ci avevano vestite di bianco. E a molto tempo che noi aspettavamo con ansietà questo giorno, vi ci eravamo apparecchiate colla preghiera e col digiuno: vegliai tutta la notte, piansi e pregai…. Oh se oggi potessi ricordarmi tutti i pensieri di quella vigilia! – Il mio cuore non è più lo stesso. – Parmi ancora sentire la fredda brezza dell’alba e vederne il languido crepuscolo. Le campane sonavano a festa, la chiesa arredata come ne’ dì solenni, tutte già alzate le monache, e noi liete correnti pe’ chiostri bramose di rivedere finalmente la nostra amata Beatrice. Mi ricordo che mi tolsi all’allegria e prima della funzione mi ritirai sola in coro e pregai per essa…. Oh se io potessi sentire ancora l’affetto di quella preghiera! Era innocente l’anima mia, e la mia voce alzavasi a Dio come la fiamma della lampada perenne che arde dinanzi al suo altare, e mi pareva che fosse accetta. Venne il momento della funzione, tersi la faccia lagrimosa e andai ad unirmi alle altre alunne, che mi aspettavano per accompagnar la novizia. Dacchè aveva cominciato il suo anno di prova, noi non l’avevamo più riveduta. Ci avevano fatte inginocchiare in capitolo con un cereo acceso in mano di rimpetto ai banchi delle monache. I nostri occhi erano volti alla porta: si apre; credevamo fosse lei, era invece la Badessa coi veli rabbassati e tutta chiusa nel suo maestoso ammanto; ella venne a sedersi nella sua cattedra a destra dell’altare. Pochi minuti dopo guidata dalla maestra delle novizie e seguita da due fanciulline coronate di fiori, l’una delle quali portava una ghirlanda di spine, l’altra il Crocefisso, comparve la Bice. Era vestita da un magnifico abito di raso bianco, coi capelli leggiadramente annodati, sul cui nitido nero spiccavano molti brillanti e il prezioso diadema a cui era raccomandato il velo che le ombreggiava le spalle. Era pallida, e in atto modesto teneva chinate al petto le potenti pupille. S’inginocchiò sul damasco che avevano apparecchiato per lei, e dopo breve preghiera, si cominciò a disporre la processione. Portava la croce una giovane monachella che aveva professato l’anno innanzi; seguivano a due a due, colle mani incrociate sotto lo scapolare, le altre suore, ultime le più vecchie; dietro ad esse la Badessa, indi noi accompagnate dalle nostre maestre. A misura che si svolgeva, la processione passava dinanzi al banco dove noi inginocchiate aspettavamo la nostra volta. Così Beatrice, quando mi passò dappresso, potè strignermi una mano, e susurrarmi un affettuoso: Prega per me! Mi balzava il cuore con una commozione che non ispero sentire più mai! Quando entrammo in coro, l’organo suonava devoto e alcune voci come di angeli cantavano il Veni Sponsa Christi. Ardevano tutte le lampade e numero infinito di ceri. La chiesa di fuori era piena di gente, ed alcuni curiosi si vedevano affollati alle grate delle finestre che si aprono ai lati dell’altare, e che in quel giorno erano senza cortina. Prendemmo il nostro posto, e la novizia s’inginocchiò nel mezzo del coro sul banco ivi apparecchiato per lei. Tutte le particolarità di quella funzione mi stanno ancora in mente come se vi avessi assistito pur ieri. Vedo la folla dei curiosi dar luogo al Prelato che col suo pastorale e con devote parole chiamava la giovinetta al suo cospetto; la vedo avanzarsi timida, odo la sua protesta, l’ho presente quando si toglieva dalle mani gli anelli e dal collo e dalla testa i brillanti, e calpestava tutti quei muliebri adornanenti; indi le tagliavano i capelli, le velavano il capo ed il mento, la cingevano d’una corona di spine, la vestivano di povera lana, le strignevano i fianchi con una fune; e mentre le monache intonavano un salmo di gioia, mi par ancora vederla tutta lieta correre a baciarle una per una. Ella aveva consumato un gran sacrifizio, e la sua fronte era serena, e da’ suoi occhi come da limpido ruscello traspariva la contentezza della sua anima. Dedicavasi a Dio sul più bel fiore della giovanezza, voleva consumare tutta la sua vita nel tempio del Signore come il candido cereo che sull’altare gli arde in olocausto. Tal pensiero allora mi pareva bello e gentile. Sparirono quegli anni di preghiera e d’innocenza, altri palpiti commossero il mio povero cuore, imparai altri affetti…. Ragioni splendenti m’insegnarono a ridere di quel mio primo devoto desiderio; ma queste ragioni non han potuto svellermi dalla memoria quei giorni, e spesso, quando la mia anima geme oppressa dal dolore a cui la sorte mi ha condannata, vedo un coro di pudiche monachelle che salmeggiano nel crepuscolo mattutino: odo le monotone lor voci che in quella solitudine posatamente ripetono le divine parole che a Dio cantavano gl’inspirati profeti, e sento che in mezzo a loro potrei forse ancora aver pace!…»
Qualcuno saliva le scale…. Ei getta il libro, ed è in un attimo nell’altra camera seduto sul sofà e, tenendo il respiro, accompagnava coll’orecchio teso quella pedata, finchè udì crocchiare l’uscio in fondo al corridoio. Prese allora il cappello e giù in due salti nel cortile, e poi fuori in istrada. Stava per svoltare l’angolo, quando vede lungo il muricciuolo, che fa parapetto alla via, una figura di donna, e ravvisa la cameriera di Massimina.
— Siete voi, Marietta? e la vostra padrona? ei chiese quasi involontario.
— Zitto! È uscita, e devo aspettarla qui.
— A quest’ora? e dove?…
— In quel casale colaggiù. La poverina non mangia nulla: un po’ di latte di capra è il meglio che appetisce: qui non ne hanno, ed ora che sono tutti fuori è andata sola a provvederlo in segreto per non far dispiacere ai padroni di casa.
— Non le dire di avermi incontrato — e tirò innanzi. La porta del casale era aperta e d’intorno al fuoco si vedevano tre fanciulli cenciosi, una povera donna e l’alta ed elegante figura di Massimina, che dritta in piedi tra quella squallida miseria pareva l’angiolo della consolazione. Il dottore, situato in modo da non essere scoperto, si fermò a guardare. Apparve un vecchio e con passi tremanti le portava un fiasco di latte. Ella lo prese, mise in mano a lui alcune monete ed uscì velocissima. Non vide il dottore che gli avesse dato, ma il vecchio cadeva inginocchioni piangendo e baciava la terra ch’ella aveva toccato coi piedi, e la donna e i fanciulli consolati pregavano per lei.
VI.
Rosa ogni giorno acquistava vigore. Ell’era in quello stato di convalescenza in cui il corso pericolo fa più preziosa la ricuperata salute, e in cui il cibo ed il sonno divengono così saporiti che sono voluttà. Le cure amorose di Giacomo, la sua compagnia, il perdono del padre che egli le aveva ottenuto, e la speranza di vedersi presto unita a quell’ottimo giovane per cui la gratitudine le accresceva affetto, facevano sì che ella trovasse sempre più dolce e cara la vita. Cominciava ad alzarsi, e il dottore le aveva promesso di lasciarla andare a messa pel dì della Madonna. Giacomo consumava il suo giorno tra la propria famiglia e lei; l’amava ogni dì più, parevagli d’aver egli salvato quella giovine esistenza; il bene ch’ella godeva era suo, viveva in lei ed eragli divenuta cara a misura dei patimenti e delle angosce sofferte. Ma non era lieto…. Aveva dei pensieri pel capo; stava talvolta le ore intere senza proferire parola. Nella sua famiglia pativano di miseria; più volte s’accorse che la cena che le due donne gli riserbavano era cavata dalla lor bocca, e che i fanciulletti stentavano il pane. Erano sparutelli, quasi nudi, ed egli comprendeva i lunghi lor pianti e tristamente gli suonavano nel cuore. Era venuto in paese con qualche soldo di risparmio e con una somma affidatagli dal suo padrone perchè provvedesse legname. Comperò invece polenta pei suoi, provvide ai bisogni di Rosa ed intaccò ciò che non era suo. Sperava alcun poco nella prossima venuta del fratello; ma il suo bel sogno di piantar casa, metter su bottega da legnaiuolo e condur moglie era già quasi svanito. Venne la vigilia della Madonna. Le mandrie scendevano dalla montagna, la via di Paluzza era tutta ingombra. Venivano giù a processioni a processioni, e udivi un continuo tintinnio di quelle infinite campanelle misto al belato delle capre ed al muggire delle stanche giovenche. I pastori affranti da lungo viaggio seguivano lenti quell’immenso torrente di bestiame. Erano tre mesi che mancavano dalle lor case; tre mesi di una vita durata allo scoperto e quasi nomade, e pur su que’ volti squallidi e rifiniti dalla fatica vedevi un raggio d’ineffabile allegria. Tornavano alle lor mogli, ai figli, alla famiglia, e dappertutto ti si mostravano donne e fanciulli che lor venivano incontro, e ad ogni istante udivi un dolce salutarsi, e voci piene di affetto e di consolazione. Giacomo col più grandicello dei nipoti era anch’egli sulla via. Ravvisò il fratello da lungi che veniva colla mandria di compare Giovanni, corse ad abbracciarlo; e dopo il reciproco interrogarsi e narrare, continuavano insieme la strada.
— Tornano magre quest’anno, osservò Giacomo.
— Le capre non c’è tanto male, ma le armente!… disse l’altro: abbiamo dovuto contentarsi delle due prime poste; non è stato possibile a nessuno salire al terzo casone. Ier l’altro, quando siamo partiti, c’era ancora tanto di neve. È stato sì poco caldo quest’anno, che la neve non s’è potuta liquefare.
— Anche le biade han sofferto per mancanza di caldo.
— Pur troppo sono indietro! Le migliori che ho veduto in tutta la via sono coteste — e additava la campagnuola di Piano. Davvero hai fatto bene a metterti a un mestiere: le annate corrono sì scarse, che in questi nostri monti non si campa.
Giacomo si sentiva serrar il cuore.
— Ho tanto fatto, continuava l’altro, per conservare queste due armente…. e quest’anno purtroppo prevedo converrà mangiarle.
— Non siete andato al monte colle mandrie di compare Giovanni?
— Avevo un grosso debito con lui…. e voglia il cielo che le donne non l’abbiano di già rinnovato! — Qui si fece tetro ed ammutirono entrambi. Quando furono a casa la madre narrò tosto della biada provveduta col danaro di Giacomo. Il fratello rimase prima sorpreso, e poi talmente grato e commosso che non rifiniva dai ringraziamenti.
— Oh Dio mio! caro Giacomo, andava esclamando, tu mi hai proprio redento! aveva una tal passione di dover far danaro di quelle due bestie…. Ora poi compare Giovanni può nettarsene la bocca! È un pezzo ch’ei fa all’amore alla Beleetta. Sono stato in montagna per lui e vorrei sperare d’aver pagato il mio debito; che se avesse ancora pretese, gli darò il vitellino della Picotta. — E di lì a poco ripigliava: Quest’inverno tu ti fermi in paese, n’è vero? Sposi la Rosa, noi l’ameremo come una sorella, lavoreremo tutti uniti, tu tornerai al mestiere, intanto crescerà la canaglia, e formeremo una famigliuola di grazia di Dio, che ha ad essere una vera benedizione.
Tali parole erano coltellate al cuore di Giacomo. Fu più volte per narrargli com’era ita la faccenda; ma al vederlo così contento non gli pativa l’animo di turbarlo. Almeno, ei diceva tra sè, lasciamolo cenare in pace questa sera, e dimani gliela conterò. Andati a dormire, Giacomo pensava a’ suoi casi. Non potè serrar occhio in tutta la notte; pentivasi di non aver subito detto che quel danaro non era suo, pentivasi di averlo toccato. D’altra parte gli sanguinava il cuore all’idea di dover privare la sua povera famigliuola di quelle due mucche unico bene che possedeva, e gli si presentavano alla mente i nipotini nudi, chiedenti pane, e udiva quei pianti prolungati ch’ei bene sapeva che valessero. Vedeva sua madre malaticcia, cadente, strascinar nell’indigenza di tutti gli ultimi giorni; e Rosa? Avrebb’egli avuto cuore di sposarla così, senza avere di che mantenerla? Farla stentare come la sua povera cognata? E se un suo figlio, un biondino delicato e tenerello, amore d’entrambi, avesse dovuto piangere, com’egli si ricordava di aver udito quelli di suo fratello? Ah, ch’ei voleva piuttosto patire tutta la sua vita, ma patir solo! Risolse dunque di lasciarla, d’essere galantuomo, e di compensare col lavoro delle sue braccia il dolore e il sacrifizio ch’era nella necessità d’imporre alla sua povera famiglia. Si alzò con questo proponimento, e rassettatosi del suo meglio andò a Cedarzis per accompagnare a messa la Rosa. La trovò già pronta.
— Andiamo fino a Fiellis? interrogò essa tosto che lo vide.
— Appunto, è sagra colassù quest’oggi; ma per voi sarà forse troppo lontano….
— Oh sono quattro passi! Fa una giornata di paradiso, e poi io sto così bene…. E mossero entrambi alla volta di Fiellis. Rosa infatti aveva bella cera, quantunque non fosse più così rossa nè così fresca come prima che ammalasse. La sua tinta s’era fatta più chiara, i suoi begli occhi neri non avevano riacquistato tutto il loro splendore: erano un po’ languidi, parevano più lenti, e quando poi si fisavano su Giacomo avevano un non so che di così affettuoso, di così soave…. la gratitudine e la semplicità del suo amore vi tralucevano come da limpido specchio. Anche la sua voce aveva perduto quel brio e quel correre degli anni fanciulleschi, s’era fatta più mite, e dava più di rado in iscrosci di risa; invece una tinta di leggiadria malinconica ne ingentiliva il colore. Pareva insomma che la natura si fosse compiaciuta di gettare su lei risanata un candido velo dalle cui pieghe leggere traspariva più graziosa la splendida Rosa di prima. Arrivarono a Fiellis proprio sul punto che s’incominciava la messa. Il Prevosto apparato solennemente era già sull’altare, fumavano gli incensi, e di mezzo a quella nube azzurrina alzavasi un Kirie devoto cantato d’alcuni semplici montagnuoli, che non intendevano quelle greche antichissime parole consecrate dal culto; ma le cui voci erano pure come la fede che professavano. La chiesa era zeppa di gente, che ti offriva un contrasto singolare. In quella remota villetta posata sulla cima della montagna, come il nido dell’avoltoio, nel verde di quegli abeti che paiono inaccessibili all’uomo, od almeno tanto lontani dallo strepito del mondo civilizzato che t’immagineresti d’esser finalmente nel grembo della natura ancora vergine ed intatta, tra le mura di quella rustica chiesetta, dinanzi all’altare povero d’arredi e di cera, e non ornato che di fiori campestri, vedevi una moltitudine di giovinotti in guarnacchino di velluto con calzoni attillati, coi capelli alla renaissance e col fare e coi modi cittadineschi. Fiellis, come la maggior parte delle ville della Carnia, manda la sua gioventù a vivere fuori di paese, ed il mestiere che a preferenza si scelgono è il sarto. Appena son essi in istato di camminare da sè, emigrano, vanno a Venezia, in quelle lucide botteghe imparano a trattar l’ago e le forbici, e ritornano coi costumi e coi vestiti affatto disformi. Il dì della Madonna ne aveva richiamati molti, e lì li vedevi malamente contrastare col rozzo vestire e co’ modi ingenui delle lor madri e sorelle. Se a questa messa solenne qui cantata avesse assistito quel tale che dimandava, perchè la Carnia non aveva un poeta, la risposta veniva assai facile. Dall’epoca in che il superbo despota romano obbligò i Carni ad emigrare, continua ancora il tristo costume. Lasciano essi i lor monti e consumano gli anni dell’affetto nel tumulto cittadino, indi ritornano a profanare la semplice lor patria coi vizi della società, e Dio li ha puniti, e non hanno un poeta. — Rosa cogli occhi fisi nella sacra funzione faceva correre i grani del rosario che le pendeva dalle mani piamente incrociate. Giacomo non poteva pregare, era distratto, inquieto: andava pensando al modo di tenerle discorso della sua risoluzione. Fin dalla mattina aveva fermato di farlo nell’accompagnarla a casa; ma ora che il punto si avvicinava, avrebbe voluto trovar qualche pretesto per poterlo ancora protrarre. Come mai dirle ch’ei la lasciava? Quali parole avrebbero potuto mitigare il dolore di questo abbandono? Ah! ell’era guarita, era sì bella, e non doveva esser più sua! Uscirono di chiesa, e il povero giovane nell’offrirle l’acqua benedetta tremava tutto e si sentiva mancare. Sulla piazzetta c’erano altre donne state a messa, conoscenti della Rosa, che la salutarono e si congratulavano con lei risanata: fecero un po’ di strada in compagnia. Egli era impaziente, avrebbe voluto che andassero, e temeva di restar solo. La fanciulla s’accorse di qualche cosa ch’ei le avesse a dire, e come se fosse stanca lasciò andar innanzi le altre e si sedette: ma a Giacomo la parola non veniva. Stettero un pezzo ivi seduti cogli occhi fisi nella magnifica prospettiva che lor s’apriva dinanzi e che forse non vedevano nè l’uno nè l’altra. Ripresero il cammino, ed egli guardando giù fiso una svolta del viottolo ch’entrava in un boschetto di giovani abeti, e si propose di non passar quel sito, senza aver parlato. Quando vi giunsero, fe’ cenno di sostare.
— Ma non sono mica stanca, disse la fanciulla.
— Sediamoci, Rosa, ho voglia di parlarvi…. ed esitava. Voi sapete se io vi voglio bene!… E si fisavano entrambi, e il lungo loro sguardo diceva più delle parole. Eppure, continuava egli, io deggio lasciarti!…
— Ma perchè?
— Povera Rosa! Non piangete Rosa; vi dirò tutto, e poi farò quello che voi vorrete; anzi intendo di metter la cosa nelle vostre mani. Or bene. Io son venuto in paese con qualche soldo; ma non erano tutti miei: doveva provvedere una zattera di legname. I miei pativan fame… In poche parole, io non ho più il danaro; e se voglio essere galantuomo, bisogna che obblighi mio fratello a vendere le nostre armente, che sono quanto possediamo. Mia madre è vecchia infermiccia…. a casa sono tre fanciulli che dimandano pane…. Fa d’uopo ch’io ritorni al mestiere per compensarli del sacrifizio che fanno. Voi Rosa potete campare colle vostre fatiche….
— E non possiamo lavorare tutti insieme? diss’ella prendendogli la mano. Ci ha ad essere provvidenza anche per noi!
— Sì: ma le mie braccia sono vendute per fin che avrò pagato! E se laggiù doveste patire di fame? Ed io esservi lontano…. e non potervi aiutare?….
— Or bene, tornate al mestiere, lavorate, e io vi aspetterò….
— No, Rosa! è d’uopo ch’io vi ritorni la vostra libertà. Potrebbe presentarvisi una buona occasione; e non è giusto che la perdiate per aspettare un poveretto che non può offrirvi se non la miseria!
— Ah! sclamò Rosa, ho capito, non mi volete più bene!
— Che dite mai? Sa il cielo se io vi amo! Non vi voglio, perchè non ho cuore di farvi stentare…. perchè possiate esser felice con altri!… Ma la fanciulla piangeva più che mai amaramente, e a lui, che tentava rabbonirla e toglierle dagli occhi il grembiule, voltava le spalle e colle mani lo respingeva.
— Quietatevi, Rosa! Le vostre lacrime mi fanno male al cuore…. via, siate buona, e capitemi….
— Eh vi ho capito, sì! diss’ella. Tornerete via, e un’altra vi farà ben presto dimenticare di me…. Era ben meglio lasciarmi morire!
— Ma se vi ho detto che non voglio fare se non quello che voi volete!
— Dunque non parlate più di lasciarmi.
— E vorreste star così impegnata!…
— Sicuro!
— E se non mi fosse possibile ritornarne prima di altri tre anni?…
— Magari dieci! O vostra, o di nessuno.
— O mia Rosa, sclamava egli, amiamoci dunque sempre!
E sorgevano entrambi, e continuavano la via alquanto racconsolati dal vicendevole loro amore.
VII.
Pareva a Giacomo d’essersi tolta dal cuore una montagna di piombo, tanto il colloquio tenuto colla Rosa lo avea consolato. Lasciatala a Cedarzis, ei mosse verso casa con passo più celere. Trovò sua madre intenta al desinare; suo fratello e sua cognata non erano ancora ritornati da messa. Fu contento di trovar lei sola, e tosto le narrò ogni cosa. La buona donna, che si avrebbe cavato il sangue dalle vene per veder felici i suoi figli, cominciò a dargli coraggio, e a dolcemente rimproverarlo per non aver prima chiarito la faccenda; poichè, diceva essa, a quest’ora si sarebbe già ripiegato, e tu saresti fuori di pena. Intanto vennero anche gli altri, e insieme concertarono di ricorrere a compare Giovanni, il quale, nella speranza di far suo l’armento, avrebbe volentieri prestato il denaro. Giacomo poi si sarebbe affrettato di ritornare al mestiere, dove col suo assiduo lavoro poteva in breve coprir questo debito, indi ripatriare e sposarsi la Rosa. Così stabilito, desinarono lieti, e poscia il giovane cominciò subito a darsi le mani attorno. Fra la scelta e la compera del legname, l’approntare la zattera e due o tre corse fino a Paluzza per causa di compare Giovanni, che in quest’affare voleva camminare coi piè di piombo, il povero giovinotto consumò tutta la settimana, senza che gli restasse tempo di andar a vedere la Rosa. Questa lo aspettava ogni sera coll’impazienza propria degl’innamorati, e non vedendolo mai, cominciò ad immalinconire. Riandava tutte le parole del lor ultimo abboccamento, e ogni giorno più parevale intravedere il pensiero d’abbandonarla. A principio scacciava tale idea come una tentazione, si rimproverava d’ingratitudine. Quel povero giovane aveva tanto fatto per lei, che il sospettarlo così le pareva ingiustizia; ma un po’ alla volta il mal umore offuscò tutte queste ragioni, ed ella trovavasi misera, afflitta, e assai più malata di quando giaceva. Sul tramonto, quando aveva spacciate le sue faccende, mettevasi a filare sulla porta della casetta. Guardava ansiosa verso Arta, una lieve speranza la rincorava; ma a misura che mancava la luce, ogni speranza svaniva. Traeva sempre più lenta le agugliate; le mani le cadevano, sentivasi serrare il cuore e finiva col ritrarsi a piangere nel suo povero letticciuolo. Venne finalmente il sabbato sera, e Giacomo, benchè fosse stanco per molte corse che aveva dovuto fare, capitò a Cedarzis a vedere di lei. La fanciulla lo accolse malinconica, per altro non si lagnò. Era venuto: ciò valeva per essa più di qualunque scusa, e quando ei le prese la mano e fisandola con affettuosa premura pareva ricercare il perchè di quella sua malinconia, ella gli aveva già ampiamente perdonato, e il racconto che fece degli impicci che lo avevano impedito di venire, non servì che ad accrescerle il rammarico d’averlo ingiustamente sospettato, sicchè procurava di compensarlo con più di affetto. Parlarono a lungo, il tempo volava per essi graditamente, e l’idea di doversi presto separare veniva addolcita dal proponimento di patire, e di affaticarsi l’uno per amore dell’altro. Disse Giacomo del come aveva aggiustate le sue faccende; disse ancora come a forza di reiterate corse e preghiere aveva ottenuto, che tra le molte zattere in quella settimana approntate fosse prima a partire la sua, e che perciò gli conveniva darle in quella sera l’ultimo addio, mentre nel dimani per tempo avrebbe dovuto trovarsi alla sega a lanciare il legname e a seguirlo….
— Dimani?… chiese Rosa, e restò come perturbata. Era domenica, e pareva a lei trista cosa profanare colla fatica il dì consecrato al Signore.
— Altrimenti avrei dovuto aspettare ancora molti giorni…. Gli è per grazia che vengono dimani al mulino….
— Ma non sarebbe stato possibile lunedì?
— Lunedì, martedì e tutta questa settimana saranno lanciate quelle che furono messe in pronto prima della mia, e niuno certamente vorrebbe cedermi la sua volta.
— Avete fatto gran fallo, diss’ella dopo alcuni minuti di silenzio, a non pensarvi prima. Questo vostro partire in giorno di festa io l’ho per cattivo augurio — e si mise di nuovo in malinconia.
— Ma non si lavora mica dimani. La zattera è già bella e apparecchiata, non v’è che a lanciarla, e prima potete credere bene che anderemo a messa. — Qui Rosa lasciò cadere una lacrima. Il povero giovane era mortificato, avrebbe voluto persuaderla, togliere quest’ubbia, rasserenarla: ma le parole non gli venivano. Una voce segreta nel profondo del cuore gli ripeteva invece ch’ella aveva pur troppo ragione. Intanto si faceva tardi, la luna era comparsa sull’alto della montagna di Cedarzis; si avvicinava il momento di separarsi, ed entrambi consumavano in silenzio i pochi minuti che loro restavano: eppure avevano ancora mille cose da dirsi. Ella stava appoggiata all’uno degli stipiti della porta col capo chino e quasi nascosto in seno, e colle mani teneva la cordella del grembiule e così soprappensiero l’andava facendo a piccole pieghine. Pareva la fiammella della candela di cera, quando sul primo accendersi arde così languida e debolina, che non sai se voglia mancare, o rompere il dubbioso silenzio e dar su rinvigorita e potente.
— Dunque?… diss’egli, ed allungò una mano come per prendere quella di Rosa. Gliela strinse la fanciulla e poi se la posò sul cuore, e
— Or via, rispondeva riscossa e rinfrancata, or via, non ci lasciamo così! — E qui tutti due esilarati tornarono a parlare del loro amore, finchè finalmente si venne all’addio.
— Mi vorrete dunque sempre bene? chies’ella per ultimo.
— Che domanda! borbottò Giacomo, e mosse per andarsene, ed ella lenta lo accompagnava alcuni passi. Si salutarono e poi ancora camminavano insieme un altro poco. La luna impicciolita ed alta splendeva a perpendicolo sul loro capo. Si strinsero per l’estrema volta la mano, e poi Rosa a tutta corsa ritornava: si sedette sul limine della porta, e accucciolata e tutta in sè ristretta posò la fronte nelle mani e stette un istante; il core le batteva che parea volesse schiantarsi, surse e andò sul suo povero letticciuolo a pascersi di lacrime e di dolore.
VIII.
Cinque miglia più in su di Paluzza, dove comincia la terra tedesca e dove cessano le verdi montagne che fiancheggiano il canal di San Pietro, nel mezzo, come per confine, sta un monte di aspetto severo. Aspro e selvaggio ei sorge solitario: non un filo di erba, non un arbusto sulle dirupate sue spalle. La roccia, stagliata a perpendicolo, ha la forma di un muro che termina in tre orride punte, di cui la mezzana s’inalza fin nella regione delle nubi, ed è tanto inclinata sul dinanzi che par sia lì per piombare sul sottoposto villaggio. Là sopra, dietro quell’immane padiglione di pietra, avvi un laghetto la cui faccia tranquilla mantiensi sempre allo stesso livello. Le sue rive son coperte di freschissimo verde che fa in quell’altezza una serie di ridenti pratelli, seminati di fiori e di fraghe il cui delizioso profumo scende talora a consolare le valli circonvicine e il profondo torrente. Alla metà di questa rupe, dalla parte di mezzogiorno, s’apre una caverna in forma di O, da cui coll’impeto della folgore sgorga la But. Nè per siccità di cielo, nè per arsura di stagione giammai vien meno, ed è tanta la foga del suo scaturire, che per lungo tratto la vedi correre spumante e bianca come calce in bollitura, e chi su per le valanghe, che continuamente cadono scosse dal monte, s’inerpica a vederne dappresso la sorgente, sente sotto a’ piedi il tremito della terra convulsa. Eppure l’ardito montanaro si serve di questo impetuoso torrente per esportare i legnami, e qui e colà lungo il suo letto vedi a tal uopo eretti degli edifizi. Spesso nelle piene ella li riversa, e l’uomo di nuovo li ricostruisce. Il piede delle montagne che fanno sponda è in più luoghi corroso, in più luoghi l’alveo scende ripido, ed è aspro di ciottoli smisurati e di cretaglie a cui d’intorno fan vortice le acque e sono continuo pericolo alle zattere che osano percorrere quella via. Nella piena del 1823, quando il Moscardo, ingrossato dall’immensa congerie di pietre che sfranavano dalla montagna di Silverio, ruppe dirimpetto a Cleulis e vuotò il lago che per dieci anni aveva coperto le campagne di Timao, oltre a molti altri guai, furono rovesciati il mulino e la sega che sorgevano a piedi di San Pietro, e lungo tempo la But corse in quella direzione sicchè ne risentirono danno anche le fonti salutari che nascono là dappresso. Or essa ha di nuovo ripreso l’antica sua via, e vedi asciutto il solco profondo che vi fece e dirupata la montagna che lì forma una ripida gradinata, il cui ultimo ciglio è gremito di giovani abeti, dietro il cupo verde de’ quali, il sole della sera fa ridere un piano pratello che si stende in semicerchio e su cui basa a guisa di piramide il monte di Fiellis. Più volte Massimina, quando veniva a bere le acque e sedevasi sulla panca del fonte, guardava a quella ricca verdura. Oh s’ella avesse potuto salire colassù! ammirare da di là il bel paese che le stava d’intorno! Le pareva così fresca quell’erbetta, così soave quell’aria ch’ella vedea tremolare tra quelle frondi, ed il suo cuore appassito avea tanto bisogno di freschezza e di riposo! Se in quell’amena solitudine ell’avesse potuto passeggiare a bell’agio, sedersi e respirare e bevere di quell’atmosfera così nitida, forse i suoi polmoni si sarebbero esilarati, e scosso il peso che a guisa d’incubo da tre anni l’opprimeva. Ma ella si sentiva debole, malata: per venire sin lì avea messe in opera tutte le sue forze, non poteva neppur raccogliere tanto fiato da rispondere a chi la salutava; attraversare le ghiaie del torrente, arrampicarsi per quel dirupo era fatica che non osava, e indarno gliene mettevano vaghezza gli anni giovanili non ancora domati dalla sua tremenda malattia. Spesso, fitta in tal pensiero, ella stava le ore intere colla tazza in mano e cogli occhi in quel verde, e guardava con accorato desiderio, e non udiva i discorsi di chi le sedeva dappresso, e talvolta neppure la parola a lei diretta. Una mattina (era di domenica) alzossi prima del consueto e scese alla chiesa per udirvi la messa. Dopo questa doveva celebrare e predicare il Prevosto. La madre di Massimina desiderava fermarvisi, ma vedendo affollarsi la gente e temendo che a lei potesse nuocere, si levò. La giovinetta intese, le disse all’orecchio restasse, ch’ella intanto andava a far colazione, e fe’ segno a Marietta che la seguisse. Bevette con piacere il suo caffè col latte; il sole splendeva limpido, neppur un filo di aria turbava il sereno di quella bellissima e tepida giornata: prese il suo ombrellino e s’avviò sola verso le fonti. Era più ilare del solito e camminò senza fatica tutto quel tratto di via. Stette buona pezza seduta sul margine del bacino, che a quell’ora era affatto solitario. Attinse l’acqua salutare proprio dove limpida come argento liquefatto zampilla dal terreno, bevette, e si rinfrescò con essa il volto e le mani. Godeva diguazzare, e cogliere i sassolini ch’ella copre di zolfo a guisa di candida peluria. Godeva seguire cogli occhi le mille giravolte del ruscelletto, e udirne il lene mormorío. I suoi pensieri erano lieti come la brezza leggera che vien giù colle acque della But, come l’effluvio che a lei mandavano i fiori de’ circonvicini pratelli. Giù per la riva di Arta vide discendere alcun che di bruno; le parve persona che ivi dirigesse il passo, e come disturbata surse per isfuggirla. — Vi sono momenti nei quali si sta così bene soli! Si sente come un bisogno di abbandonarsi interamente all’aria e alla terra che ne circonda: i nostri pensieri, i nostri affetti ci corrono sulla faccia, e i più reconditi secreti dell’anima, come l’immagine nel vetro, vi si dipingono tanto nudi che lo sguardo anche di un caro sarebbe allora importuno. Massimina, quasi senza accorgersi, mosse verso il monte. Fosse il desiderio di sfuggire quell’incontro, o che il tepore della bella giornata e il bevere dell’acqua l’avessero rinfrancata, attraversò le ghiaie senza fatica, e saliva con coraggio il viottolo, e le pareva di averselo figurato assai più ripido di quel ch’era difatti. Giunse sul praticello, e nell’ombra degli abeti che gli fanno siepe sedette su di un sasso, e nascosta in quel verde contemplava la magnifica scena che le si apriva in cospetto. Piano, guardato da quel punto appariva evidentemente fabbricato su di un terreno d’alluvione. Dalle gole che s’internano tra la montagna del Cucco e quella che tutta sfranata gli sorge di rincontro e protende i grebbani della fronte come tanti denti di lupo, si precipita un’immensa congerie di materia calcare che forma i rialzi del villaggio, e abbasso con declivio più dolce la fertile campagna che si stende sino al torrente. Ivi la vegetazione è rigogliosa e l’occhio si posa volentieri su’ rotondi e morbidi noci che qui e colà sorgono di mezzo ai seminati, e sul verde oscuro dei mille colossali abeti che a guisa di tende compariscono schierati sulla via di Paluzza e con bizzarra linea chiudono a settentrione il ridente dei campi. Massimina non poteva saziarsi di mirare, e l’orrido ossame del Cucco, che gigantesco s’inalza colle sue creste puntite sulle floride montagne del canale, le pareva una vecchia invidiosa che con occhio losco guardasse alla danza d’una compagnia di vergini. Intanto, la persona ch’ella aveva veduto scendere nel torrente, dalla riva di Arta giugneva alla fontana. Era una bionda contadina con sul dorso una gerla piena di bottiglie. La posò presso alla panca, poi cavatene alcune le sciacquava e le metteva in piedi sulle pietre del bacino. Vistasi sola, lasciò lì la gerla con tutte le bottiglie, e per la ghiaia si dirizzava quasi correndo al ponticello di Piano. Alla sega sotto il villaggio era in pronto una zattera, e Massimina distingueva benissimo cinque o sei uomini che si travagliavano per lanciarla, e udiva i colpi di martello e lo scassinare dei pali che le toglievano d’innanzi. Già erano montati due in punta, tre dietro, e coi remi ricurvi a guisa di falce stavano pronti per tenerla in mezzo e difenderla ed equilibrarla tra le rocce sporgenti e le cretaglie del ripido alveo. È liberata; vola come strale dall’arco giù per le acque rapidissime; vola, e i giovani han tutta abbandonata la persona sull’agile remo, e vedi le loro svelte figure delinearsi or sul verde dell’opposta riva, or sul bianco delle ghiaie. Giungono al ponte; a corpo morto si gettano boccone, passano, saltano in piedi e son di nuovo all’opra. Svoltavano uno degli angoli più pericolosi; per isfuggire un vortice che menava dritto in alcuni massi, le cui schiene acuminate sporgevano come punte di scure, tennero un po’ troppo a mancina, e non videro una donna che lì proprio sotto la ripa stava lavando alcuni cenci. Era domenica, non immaginavano che fosse, ed ella, fidata nel dì festivo, non temeva le zattere. Quando se ne accorsero, non erano più in tempo di schivarla, e la pigliarono sotto colla gerla, col vassoio e con tutte le sue pezze. Quell’intoppo li portò di netto ad un’altra punta, il mezzo della zattera si sollevò, croccarono le travi, la furia della corrente terminò di squarciarla, e fatta in pezzi andò per lungo tratto battendo d’una riva nell’altra, finchè affatto disciolta correvano e travi e tavole come tante paglie per l’acqua. Giacomo fu il primo a salvarsi; spiccò un salto su d’un masso, e di là coll’aiuto del remo si lanciò sulle ghiaie. Due de’ suoi compagni furono rotolati lunga pezza, finchè finalmente, arrampicandosi alle sponde, poterono anch’essi uscire; un altro diede colla fronte in un macigno, e disparve tingendo di sangue l’onda che lo travolse. Fu tratta viva a terra la donna, benchè mal concia da molte percosse; e l’ultimo, nel mezzo del fiume aggrappato ad un sasso, metteva tutta la sua forza per non cedere alle ondate, che gli si rompevano sul dorso. Gridavano: si tenesse fermo finchè potessero venirgli in aiuto; ma, o che le mani aggranchite più non reggessero allo sforzo, o che gli entrasse lusinga di poter solo salvarsi nuotando, si lasciò andare, e in un attimo fu gettato nello scoglio, e sfracellato. Al caso orribile alzarono un urlo i compagni, e Massimina spaventata, come se il suo accorrere avesse potuto aiutarli, scendeva in gran fretta, senza più ricordarsi della sua debile salute. Dall’altra parte, colle mani nei capegli e piangendo e gridando tornava di tutta corsa alla fontana anche la contadina che lì avea lasciato la gerla. Essa era in tale stato d’angoscia, che non s’accorse della signora, e inginocchiata sul fonte, mentre procacciava d’empiere i fiaschi, cogli occhi pieni di lagrime non vedeva che si facesse, e rompeva di continuo in questo singhiozzo:
— Oh Dio mio! Oh Dio mio!
— Quegl’infelici vi appartenevano? chiese Massimina.
— Oh no! diss’ella, cioè, sì signora…. Ah ch’egli s’è accoppato! L’han tratto fuori che non aveva più figura d’uomo. Vergine santissima! — e nascondeva il volto nelle mani.
Massimina piangeva con lei.
— Era festa quest’oggi! Dovevano rispettare la festa! Ah! che il cuore mel disse ieri sera quando venne a darmi l’ultimo addio. Ora: un d’essi accoppato…. quella donna rovinata…. ed egli? egli…. tutto perduto! — e tornava a chinar la fronte nelle palme.
— Or via poverina, non vi disperate così! e faceva di rialzarla, e quando l’ebbe seduta sulla panca, le s’assise dappresso, la teneva abbracciata, e piangevano insieme. Poi l’aiutò ad attignere e a collocare nella gerla le bottiglie, indi a caricarsene le spalle. Tornavano ad Arta, e strada facendo la fanciulla narrò alla pietosa signora tutti i particolari della disgrazia. Per dare un ultimo addio a Giacomo, alzatasi prima dell’alba, ella aveva pregato un’altra ragazza facesse per lei in quella mattina il servigio della casa, e in cambio era venuta ad attignere quei fiaschi per alcuni ammalati di Tolmezzo, e così vederlo partire. Poveretta! Fu spettatrice invece dell’orribile disastro che toglieva a lui due de’ suoi compagni, tutto il suo avere, ed ogni speranza per sempre ad entrambi.
Ad Arta, Rosa immersa nell’angoscia continuò la lunga sua via, e Massimina commossa, conturbata entrò nell’albergo, salì le scale, si chiuse nella sua camera, e rifiutò di lasciarsi vedere per tutto il restante del giorno.
IX.
Oramai la maggior parte dei forastieri, che erano in Carnia per le acque, pensavano a partire, e la madre di Massimina riceveva ogni giorno visite, or dall’uno or dall’altro, che prima d’andarsene venivano a salutarla. Contenti quasi tutti di quell’aria balsamica e di quelle fonti veramente prodigiose, coll’aspetto della salute e colla loro allegria crescevano a lei il rammarico del poco o quasi nessuno profitto della sua povera figlietta. Fra gli altri, chi più le destava invidia, era un giovine di sedici anni venuto lì in Arta dopo di lei, e in sì miserabile stato, che il dottore credette prudenza consigliarlo a non voler neanche tentar quelle acque, che per la loro troppa efficacia potevano riescirgli fatali. Ma egli, a cui tutti i rimedi erano fino allora tornati vani, si ostinò alla prova di quest’ultimo, e contro ogni aspettazione cominciò a migliorare. Aveva racquistato il sonno e l’appetito, i suoi occhi impietriti s’erano svegliati, e quando prima di ripatriare venne a riverire la signora, le sue guance rifiorite promettevano in breve perfetta la guarigione. Quanta gioia per i suoi genitori nel rivederlo così mutato! Lo avevano mandato tra quei monti esile, moribondo, forse senza neanche speranza di riabbracciarlo, e tornava come una bella rosa rinfrescata dalla rugiada. Ella invece tra pochi giorni avrebbe ricondotta al padre la sua Massimina più pallida di prima, col dolore di non aver più nulla a tentare, e nella sola aspettazione di vederla soccombere. Infatti la fanciulla da alcuni giorni era tornata a tutti i suoi soliti patimenti. Stava quasi sempre chiusa in camera, e nel suo malinconico silenzio pareva dimandasse di partire per rivedere ancora una volta il suo paese, e morire tra le braccia de’ suoi. L’aria della montagna aveva cominciato a farsi rigida e la mattina e la sera non permetteva più di uscire, senza molto riparo di vesti. Anche le acque diventate fredde piombavano sullo stomaco come una massa di pietra, e Massimina da due giorni ricusava di beverne. Allora la madre a malincuore, come chi si vede costretto a rinunziare a speranza lungamente vagheggiata, risolse di ritornarsene a casa. La sera, in presenza della fanciulla, ordinò al padrone dell’albergo una carrozza per portarsi in un villaggio vicino a far visita di congedo a una buona signora del paese, sua antica conoscenza, che, durante la loro dimora in Arta, era stata più volte a farle cortese compagnia. Parve che Massimina accogliesse con piacere questa gita; ma nel dimani mattina ella stava così male, aveva tanto tossito tutta la notte, era sì pallida ed abbattuta, che la madre non osò neppur proporle di accompagnarla. Col cuore raggruppato baciò in fronte la sua povera creatura, e si mise in carrozza quasi piangendo. Rimasta sola Massimina, si chiuse nella sua camera, aprì l’armadio e cominciò a cavarne vestiti, biancheria, libri e a tutto disporre per la partenza. Ma era così svogliata! Ogni qual tratto si sedeva, affisava languida languida il pavimento, e colle mani abbandonate in grembo stava lunga pezza come assorta in tristi pensieri. Poi di nuovo tornava in traccia or di quest’oggetto, or di quello, e li apparecchiava in fila sul letto, perchè la Marietta trovasse più facile l’allestire i bauli. Aprì la sua cassettina da lavoro, riordinava gomitoli, forbici, ditale, metteva a suo luogo quei mille nonnulla indispensabili alla donna, quando le venne tra le mani la busta delle sue gioie: sorrise d’averla portata lì in Carnia, indi pensierosa tornò ad assidersi, e guardava la sua bella collana, gli orecchini, le smaniglie. Era ancora in semplice sottanino, e sulle spalle per ripararsi dal freddo aveva gettato una mantiglia color grigio perla che in altri tempi le avea servito per uscire dal ballo, e che ora disusata strapazzava per camera. Tornò col pensiero a quando per la prima volta, adorna di quelle gioie, ella lasciava la festa coperta da quella stessa mantiglia allora elegante. Col gomito posato sul tavolo velava colle dita bianchissime gli occhi semichiusi, e le sue labbra abbandonate ad un lieve sorriso, e la sua mesta fronte inchinata, da cui scendevano in vago disordine i lunghi capelli non ancora pettinati, le davano sembianza d’una delle Malinconie di Natale Schiavoni. Rifaceva colla memoria tutti i pensieri di quella sera. Sul primo fiore degli anni, elegantemente abbigliata, ella aveva danzato e sorriso: mille sguardi di ammirazione l’avevano dolcemente applaudita, s’era sentita bella, e il suo cuore di fanciulla aveva balzato di emozioni ignote in allora, ma così vive e soavi, che col solo ricordarsene ne sentiva ancora l’oscillazione. Quando assisa nel suo cocchio ella tornava a casa per la notte stellata, la sua anima piena di vita si slanciava nell’avvenire con più impeto di quello con cui i suoi giovani cavalli divoravano la via. Erano passati tre anni. Quante illusioni svanite in sì breve spazio di tempo! Oramai una alla volta l’erano morte in cuore tutte le speranze della giovanezza. A que’ bei sogni dorati era successo il disinganno; pochi passi lontana dal sepolcro, ella quasi vi si gettava contenta per riposare dall’aspra via a cui la sorte l’avea condannata. Surse, e meccanicamente si cinse al collo i diamanti e poi serrò sui polsi i manigli: le andavano larghi. Alzò il braccio, e si guardava quella mano pallida e quasi trasparente che pareva di cera. Si affacciò allo specchio. Oh come cangiata! Le sembrava d’esser appena l’ombra di sè stessa. Si posò la destra sul cuore, e mentre ne contava i palpiti pensò: tra poco dormiremo! E s’immaginava d’esser distesa sul suo letto di morte, attorniata da’ suoi cari, e di ordinare che le mettessero intorno quelle gioie a cui stavano legate tante memorie della sua vita passata, e pensava l’ultimo addio, e le lagrime della sua povera madre…. Ma già in questo mondo ella pativa troppo! e dinanzi al trono di Dio avrebbe tanto pregato per lei, che la si sarebbe finalmente racconsolata. E continuava colla mesta fantasia a figurarsi la pompa funebre, il canto freddo e posato dei sacerdoti, tanti volti sconosciuti, che sarebbero venuti a vederla, tanti di persone amate, e allora indifferenti…. e le passavano dinanzi tutte le fisonomie di cui si ricordava, e per caso anche quella della giovane contadina al cui dolore pochi giorni prima ella aveva tanto compatito. Pensò: Anch’essa così giovane e così infelice! Come lampo improvviso le si affacciò allora un’idea. Non avrebb’ella potuto rimediare alla disgrazia da cui era stata colpita? fare la felicità di due poveri sfortunati?…. assumere per essi le veci della Provvidenza?… per quei pochi giorni che ancora le restavano, privarsi d’una memoria anche cara, e donare ad altri quel bene ch’ella non potea più godere? Ah sì! Consolare quelle due afflitte creature, aprir loro i tesori dell’amore, vivere benedetta nella loro memoria, le parve in quel momento gioia tale da compensare le molte sue lacrime! Prese un foglio di carta, e scrisse rapidissima una letterina al dottore che diceva così:
«Mi preme di parlar con voi. Fatemi la cortesia di venir subito. – Massimina.»
Poi chiamò la Marietta, le diede il foglio, e le disse di tornar a vestirla e pettinarla. Il dottore appena l’ebbe in mano che ravvisò i caratteri, e l’aprì involontariamente agitato. Che mai poteva volere?… Prese il cappello, e fantasticando si mise sulla via di Arta. Arrivò all’albergo.
— La signorina vi aspetta nella sua camera, — gli disse Marietta tosto che lo vide, e gli fece balzare il cuore con un tremito di cui non sapeva rendersi conto. Trovò Massimina seduta sul sofà. Vestiva un semplice accappatoio a fondo bianco, chiuso con nodi rosati. Era assai sparuta, e in mezzo al suo visibile soffrire lo salutò con un lieto sorriso, e nella sua gratitudine gli rivolse uno sguardo pieno d’affetto, ma così puro e così giovanile, ch’ei non potè a meno di non paragonarla a un di que’ freschi germogli, che sul finire d’ottobre mette talvolta il rosaio, la cui fragile e dilicata tessitura e il verde malaticcio ci richiamano con un mesto desiderio alla stagione che passa.
— Perdonate, dottore, diss’ella, se ho ardito disturbarvi. Ma voi mi sembrate così buono…. e mi avete inspirato tanta confidenza….
— Se fosse vero!… Se io potessi in qualche maniera esservi utile….
— Anzi voi solo…. E continuava con una specie di timidezza, che suo malgrado le colorava le guance.
— Ho approfittato di questo momento che la mamma è fuori….
Il dottore, che pieno delle sue idee era già assai innanzi, e credeva di capir la cose a mezz’aria, appressò la sedia, e fisandola con rispettoso affetto:
— Gli è un pezzo, disse, che io vi osservo…. Le mie cognizioni sono scarse, Madamigella, ma l’interesse che voi mi destate!… Se voi voleste accettarmi per vostro amico, e come a tale aprirmi il vostro cuore…. dirmi tutti i vostri patimenti…. Credete: il morale ha grande influenza sul fisico…. e io non sono di quelli che prescrivono di dimenticare. Vi sono dei dolori che l’anima non può dimenticare! e l’ostinarsi a chiuderli dentro di noi, lungi dall’esser rimedio, è rovina: giova invece confidarli all’amicizia, trovar chi sappia piangere con noi….
La povera fanciulla s’era fatta bianca bianca, teneva chinati gli occhi, e avrebbe voluto poter troncare un discorso ch’ella aveva bene involontariamente provocato, e che a guisa di ferro in piaga ancora aperta le rincrudiva il patire. Quando credette di poter parlare, senza che le sgorgassero le lacrime:
— Non si tratta di me, disse con un suono di voce che aveva del mesto e del rassegnato insieme. In quanto a me, credo già fissa la mia sorte, nè se anche il potessi, vorrei cangiarla…. Oh no, no! Io ho già compíta la mia carriera. L’arte vostra potrebbe forse restituirmi la vita…. ma, a che mi varrebbe senza le dolci illusioni che la fanno bella?
Scosse la testa, come se volesse scacciarne qualche pensiero, poi ricomponendosi:
— Vedete dottore, io vi ho chiamato qui, soggiunse, perchè mi aiutiate a procurarmi un piacere…. Un piacere che mi compensa dei mali che soffro…. — e titubando girava tra le mani la busta delle gioie. — Voi avete salvato la vita a una bella ragazza di questo paese, che io ho poi veduta l’altro giorno assai misera….
— La fidanzata, interruppe il dottore, di quel disgraziato che ha perduto domenica?…
— Sì, la Rosa. In quel giorno abbiamo fatto amicizia insieme. Queste gioie io non le porterò più…. Avevo pensato che me ne adornassero quando sarò morta, ma è meglio che servano alla felicità di quei due poveri giovani…. Pregheranno per me!….
— E vorreste?…
— Ch’essi godano quel bene che io non posso.
— Oh signora! sclamò il dottore, e nell’impeto della sua ammirazione allungava la mano per prendere una delle sue e baciargliela.
— Tenetemi il segreto, gli disse la fanciulla mettendogli in pugno la busta, e ricordatevi che vi siete profferto d’essermi amico!
E alzatasi si ritirava nella cameretta contigua.
L’indomani il dottore colla Rosa e con Giacomo tornava ad Arta per presentarli alla loro benefattrice. I due giovani erano fuori di sè per la gioia, e non vedevano l’ora di gettarsi a’ piedi dell’angelo celeste, che senza conoscerli aveva loro fatto tanto bene. Giunsero all’albergo, chiesero di lei…. Era partita da due ore. Rivolti verso il Friuli piangevano e pregavano, e il Signore li avrà certamente ascoltati.
Fine.
nota 1 – Acque Pudie si chiamarono fin dal tempo dei Romani, non è ben chiaro perchè.
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TITOLO: Lis cidulis, Scene carniche
AUTORE: Caterina Percoto
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti / di Caterina Percoto - Firenze : F. Le Monnier, 1858 - 553 p. ; 19 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)