L’autrice, moglie di Giacomo Matteotti, proveniva da una famiglia di artisti, il fratello fu un celebre baritono. Non stupisce quindi che Velia Titta, già moglie e madre, dedicasse il suo tempo libero alla letteratura, pubblicando nel 1920 questo romanzo, con uno pseudonimo maschile, Andrea Rota.

Il romanzo è ambientato a Firenze tra gente borghese. Dani torna nella casa dove trascorse i suoi anni giovanili, dieci anni dopo averla lasciata per intraprendere una brillante carriera di medico. Landino invece c’è rimasto, sempre nella stessa bottega da restauratore; con lui vive il socio Corradino, che nel frattempo ha sposato Raffaella, detta Lela. Dalla partenza di Dani non sembra cambiato nulla, in fondo, ma dieci anni fa, prima di partire, tra loro vi fu un grande amore. Un amore fortissimo eppure fatto di silenzi, con lei che lo considera il suo idolo (e ammette di essere idolatra nei suoi confronti), e che Dani ha seppellito nel suo cuore con la lontananza, senza neppure scriverle un rigo. Testimone muto di quell’amore fu Don Geri, ormai vecchio e distaccato dalla casa, che dopo le nozze di Lela non si è più fatto vivo.

Così Dani commenta il suo ritorno:

Si crede che in tutto quel tempo siano avvenute molte cose importanti; e invece? Non c’è di buono che la memoria di quelle vecchie. (cap. I)

Cosa succede con il ritorno di Dani tra queste mura lo scopriamo pagina dopo pagina, e più che gli avvenimenti visibili, interessano i pensieri dei due personaggi, Dani e Lela, tra flashback e ricordi, mentre il matrimonio di Corradino e Lela si sfalda e lei commenta:

ma la donna che ama, vive del suo idolo, e non si accorge di essere disonesta verso li altri. (cap. XVIII)

Particolarmente riuscita la descrizione di una donna innamorata, ed altrettanto credibile quella dell’uomo che per avere una rivincita contro la sorte, annulla nel lavoro la sua esistenza personale ed affettiva, e se ne accorge solo quando è troppo tardi per rimediare. Sicuramente lascia nei lettori un senso di rimpianto per il talento dell’autrice, che morì ancora giovane senza poter concludere un secondo romanzo a cui lavorava.

Sinossi a cura di Gabriella Dodero

Dall’incipit del libro:

La prima cosa che rivide, appena messo piede ne la stanza che serviva da vestibolo, fu l’angioletto liutista del Rosso Fiorentino, in quella stessa luce che veniva da i tetti a sollevargli da le corde la testina scapigliata. Fuori, le stesse fragranze di caffè e di basilico, lo stesso rumore leggero di stoviglie e di cristalli, che veniva dal giardino de l’albergo ogni sera prima di cena; e lì su la terrazza piena di canne e di colombi il tramonto di una di quelle giornate d’inverno terse e vibranti che empivano la città di luci rosse e di fluidi.
Entrando per la porta socchiusa, nessuno si era accorto di lui. Attaccò il soprabito al solito braccio spezzato che sporgeva dal muro e si accostò ai vetri a guardare l’interno de la casa, in quello stesso brivido d’aria che precedeva le stelle nei passati crepuscoli di tramontana. Tutto era simile ad allora. Presso una finestra, al di là di un tetto, una donna cullava un bambino con le spalle rivolte al davanzale. Si vedeva ne l’interno de la stanza la culla sopra due assi, e in fondo un lume acceso tra un’urna e una pianta. La cantilena interrotta da lo scampanare di una chiesa arrivava a quando a quando fin lassù, tremante e fatta suono da la improvvisa devozione di un’eco.

Scarica gratis: L’idolatra di Velia Titta Matteotti.