Con l’ormai consueto piacere, pubblichiamo una recensione di Alessandro Cartoni.
Un’umanità brulicante, sofferente, perduta o marginale si muove, vive e respira nella raccolta di racconti di Luca Pakarov, «Terminal» (edizioni clandestine, 2007). Miseri antieroi, solitari etilisti, aspiranti suicidi, malinconici parcheggiatori, marchettari nostalgici, ex detenuti vestiti da Babbo Natale, bellissime impiegate in linee telefoniche «hot» con handicap innominabili, tutta una massa di individui cerca di farcela, di sopravvivere, di superare il gradino dell’esistenza nel massimo dello sforzo, munita di una buona dose d’ironia. Le situazioni improbabili di questi racconti sono però perfettamente credibili: i loro protagonisti scelgono sempre la parte sbagliata del mondo che è anche quella dell’autore. Alla fine il lettore non può fare a meno di schierarsi, di prendere partito per questi piccoli che, per dirla con Verga, la «fiumana del progresso» ha sbattuto ai margini. Infatti lo spessore morale e politico delle storie di Pakarov è evidente, ed è proprio questo, crediamo, il suo fascino. Certo, si tratta di uno spessore di fatto inassimilabile ai contemporanei, edulcorati schieramenti politici, perché gli eroi di Pakarov sono oltre: in quella zona della società postindustriale dove la pubblicità diviene suono vuoto e dissonante, mania e coazione a ripetere, dove la precarietà mostra davvero il suo lato peggiore, dove la coppia crea spesso un carcere asfittico e penoso, dove la solitudine, se vissuta in piena coscienza, è sintomo di lucidità e resistenza. Ecco, forse «resistenti» potremmo definire questi individui che non si fanno più illusioni ma continuano a vivere; perché anche se la vita per sua essenza non conclude, certo non può essere sprecata. E lo spreco di cui ci parla Pakarov non è quello cui fa riferimento la società utile, la società del benessere o del successo, ma quello terribile cui si condanna l’uomo-massa quando diventa zombie, morto vivente, consumatore. Come nella storia del custode del grande centro commerciale: «Di fronte a me una distesa brillante di auto. Di continuo arrivano vuote se ne vanno piene, stracariche di roba, d’offerte speciali, di fornelletti da cucina, di casse di vino, di girelli per bambini, di videoregistratori scontati, di giubboni in goretex, e pantaloni firmati, di libri di cucina, di ombrelloni da mare, di tavolini pieghevoli, di zappe da giardino, di «hai visto quella?», di «alla prossima paga torneremo», di «che bella giornata è stata oggi»».
Il dominio della merce, il lusso, la spettacolarizzazione dell’esistenza – nella povertà sempre più certa dell’animo e delle anime – sono questi gli effetti della catastrofica spinta alla produzione-consumazione nel girone infernale che l’Occidente ha creato.
E non si può far a meno di evocare il migliore Bukowski, Céline, Carver, Selby junior, tutta quella schiera di scrittori che hanno demistificato e destrutturato le ipocrisie, il perbenismo e tutta la gamma delle alienazioni della società contemporanea. Ma Pakarov non ama le etichette, per lui le parole sono sfogo, perché «non ci accompagnano mai fino alla fine, restano dei vaghi riferimenti ai sentimenti che bruciano e stanno ammassati nella trachea, le parole sono lana di vetro che attutiscono il trambusto che ci portiamo fra lo stomaco e il cuore».
In un tempo (e in un Paese) come il nostro, in cui gli appelli alla concordia e alla collaborazione letteralmente si sprecano e l’unica preoccupazione è tenere lontano il conflitto, di qualunque natura esso sia, uno dei bersagli preferiti di Pakarov sembra essere il «buonismo» o, nella versione più sociologica, quella che viene chiamata ansia da «recupero sociale», come se l’individualità debba finire inscatolata dentro uno stampino pieno di ricette e buoni sentimenti. ««Mi rifaccia la domanda» «perché si è ridotto così?» «perché ne avevo voglia. E lei perché si è ridotto così?» «Così come?» «Non le hanno mai detto che non si risponde con una domanda?» «lavoro per i servizi sociali, volevo aiutarla» «Le piace fare la carità?» «Caro signore aiutare non è fare la carità» «già, lei mette in carreggiata i disgraziati» «Penso che in questa società ci sia bisogno anche di questo» Era uno stronzo con il vademecum del buon progressista, evitai di guardarlo in faccia, perché era troppo nauseante […]».
Alla fine, dopo la lettura, ci si trova come rinfrancati, non certo per aver attraversato il deserto del mondo contemporaneo, sforzo che pure va fatto, ma soprattutto perché dalle parti dell’inferno – o di quello che chiamano tale – c’è ancora aria fresca e un insopprimibile senso di vita.
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http://www.webster.it/libri-terminal_pakarov_luca_edizioni_clandestine-9788889383896.htm?a=337441
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- Il sito delle Edizioni Clandestine: http://www.edizioniclandestine.com
- Un’intervista allo scrittore: http://www.sands-zine.com/ilresto.php?id=2391