di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Introduzione

tempo di lettura: 14 minuti


Le cronache de’ Sassaiani, antichi Re di Persia, riferiscono esservi stato un Re il quale era amato dai sudditi per la sua saviezza e temuto dai vicini per la fama del suo valore. Aveva due figli: il primogenito chiamavasi Schahriar, e l’altro aveva nome Schahzenan. Dopo un regno lungo e glorioso morì questo Re, e Schahriar salì sul trono. Schahzenan fu obbligato di vivere come un semplice privato; ben lontano di mirare con invidia la buona sorte del fratello maggiore, pose invece tutto il suo studio a piacergli.

Schahriar fu contentissimo della sua compiacenza e, per dargliene una prova, volle dividere con lui i suoi Stati, cedendogli il regno della Tartaria, del quale Schahzenan andò subito a prender possesso, stabilendo il suo soggiorno in Samarcanda, che ne era la capitale.

Erano scorsi due anni dacché questi Principi vivevano separati, quando Schahriar bramando sommamente rivedere suo fratello, risolvette spedirgli un ambasciatore per invitarlo a venirlo a trovare.

A questo fine deputò il suo primo Visir, il quale partì con un seguito conveniente alla sua dignità. Giunto il Visir a Samarcanda, il Re di Tartaria lo accolse con grandi dimostrazioni di allegrezza, e gli domandò subito notizie del Sultano suo fratello. Il visir appagò la sua curiosità, e poscia gli espose la cagione della sua ambasciata.

— Savio Visir – gli disse – il Sultano mio fratello non poteva propormi cosa che tornar mi potesse maggiormente gradita. S’egli brama rivedermi sono egualmente stimolato dallo stesso desiderio. Il mio Regno è tranquillo, e non domando che dieci soli giorni per mettermi in istato di partire con voi; pregovi fermarvi in questo luogo, e farvi alzar le vostre tende.

Mentre Schahzenan disponevasi a partire, stabilì un consiglio per governare il suo regno durante la sua lontananza, eleggendo a capo del medesimo un ministro, nel quale aveva una intera fiducia. Sulla fine de’ dieci giorni, dicendo un addio alla Regina sua moglie, uscì verso sera da Samarcanda, ed accompagnato dagli uffiziali che lo dovevano seguir nel viaggio, andò al padiglione reale, che aveva fatto innalzare vicino alle tende del Visir. Si trattenne con quell’ambasciatore fino a mezzanotte, e volendo ancora una volta abbracciare la Regina, ritornò nel suo Palazzo, incamminandosi direttamente all’appartamento di quella Principessa, la quale, non aspettandosi di rivederlo, aveva ammesso nella sua camera uno dei servitori più intimi di sua casa.

Il Re entrò senza strepito, ma qual non fu la sua meraviglia quando allo splendore dei lumi, vide un uomo nella stanza di lei? Restò immobile per qualche momento, non sapendo se dovesse credere ai suoi occhi, ma non potendo dubitare esclamò fra sé:

Come! non appena uscito dal mio palazzo si ardisce di oltraggiarmi? Ah! perfidi, il vostro delitto non rimarrà impunito!

Sguainata la sciabola, si avvicinò ai due colpevoli, e in un attimo li fece passare dal sonno alla morte, e, prendendoli poscia l’uno dopo l’altro li gettò da una finestra in un fosso.

In tal maniera vendicatosi, uscì dalla città, ritirandosi sotto il suo padiglione. Non appena vi fu giunto, comandò che fossero levate le tende. Fu subito posto in ordine ogni cosa, e non era ancora giorno quando tutti si posero in cammino.

Giunto ch’ei fu col Visir ed il loro seguito vicino alla capitale delle Indie, vide venirgli incontro il sultano Schahriar con tutta la sua Corte. Può figurarsi il giubilo di questi Principi nel rivedersi!

Il Sultano condusse il Re suo fratello al Palazzo, che aveva fatto apprestare, il quale per mezzo di un giardino comunicava col suo.

Schahriar lasciò tosto il Re di Tartaria, per dargli agio di entrare nel bagno e di mutarsi di abito: ma tosto che seppe esserne uscito venne a ritrovarlo. Essi si adagiarono sopra un sofà, ed essendosi i cortigiani allontanati, i due Principi cominciarono a intrattenersi sopra tutto ciò che due fratelli, uniti più dall’amore che dal sangue, hanno a dirsi dopo una lunga assenza. Venuta l’ora di cena, mangiarono insieme, poscia ripigliarono la loro conversazione, la quale durò fino a tanto che Schahriar si ritirò per lasciar riposare suo fratello.

L’infelice Schahzenan si pose a letto: ma l’infedeltà della Regina si presentò così vivamente alla sua immaginazione, che, non potendo addormentarsi, si alzò e dandosi interamente in balìa ai suoi dolorosi pensieri, comparve sopra il suo sembiante una profonda impressione di tristezza, che il Sultano non poté non osservare.

— Che ha mai il Re di Tartaria? Forse si vede egli contro sua voglia lontano dai suoi Stati, o dalla Regina sua moglie? Ah! se è questo che l’affligge, gli farò tosto i regali che gli ho destinati, affinché a suo piacimento possa partire alla volta di Samarcanda.

Infatti la mattina seguente gli mandò quanto le Indie producono di più raro, di più ricco e di più singolare, non tralasciando di far tutto il possibile onde divertirlo: ma le feste più deliziose invece di rallegrarlo, non facevano che aumentare i suoi dispiaceri.

Un giorno avendo Schahriar ordinata una caccia, in un paese ove particolarmente abbondavano i cervi, Schahzenan lo pregò di dispensarlo di accompagnarlo, allegando per scusa che lo stato della sua malferma salute non gli permetteva godere di un tal piacere. Il Sultano, non volendolo contrariare, lo lasciò in libertà, e partì con tutta la sua Corte. Dopo la sua partenza, il Re della gran Tartaria, vedendosi solo, si rinchiuse nel suo appartamento, e si pose ad una finestra che dava sul giardino. Un oggetto venne ad attirare la sua attenzione: una porta segreta del Palazzo del Sultano si aprì all’improvviso e ne uscirono venti donne, nel mezzo delle quali camminava la Sultana. Questa, credendo che il Re della gran Tartaria fosse anch’egli alla caccia, si avanzò colle sue donne fin sotto le finestre del di lui appartamento. Schahzenan s’accorse che le persone le quali accompagnavano la Sultana, per liberarsi da ogni soggezione, si scoprirono e deposero le lunghe vesti che portavano: ma quello che più d’ogni altra cosa lo meravigliò, si fu che scoprendo esservi in quella compagnia, da lui creduta composta tutta di donne, dieci mori, ognuno dei quali si accompagnò con la sua innamorata. La Sultana dal canto suo non stette lungamente senza compagno; ella batté le mani gridando: «Massoud! Massoud!» e tosto un altro moro discese dalla sommità di un albero, e corse a lei.

Schahzenan vide troppo per giudicare che suo fratello non era meno infelice di lui. I trattenimenti di quella compagnia durarono fino a mezzanotte dopo di che, avendo ripigliate le loro vesti rientrarono per la porta segreta del Palazzo del Sultano.

Queste cose, passate sotto gli occhi del Re della gran Tartaria, gli diedero agio di fare moltissime riflessioni.

— Quanta poca ragione avevo – egli diceva – di credere che la mia disgrazia fosse tanto singolare. Questa, senza dubbio, è l’inevitabile sorte di tutti i mariti. Così stando le cose perché dovrei lasciarmi consumar dall’affanno? Non se ne parli più; la memoria di una disgrazia tanto comune non disturberà d’ora innanzi il riposo della mia vita. Infatti, da quel momento egli tralasciò di affliggersi; si fece servire da cena, e tornò allegro.

Quando seppe che il Sultano era di ritorno, gli andò incontro con aria giuliva. Il Sultano, che si credeva di trovarlo nello stato in cui lo aveva lasciato, restò meravigliato di vederlo tanto allegro.

— Fratel mio, – gli disse – ringrazio il cielo del cangiamento felice operatosi in voi, ne provo una vera allegrezza; solo vi prego di volermene far conoscere la cagione.

— Ebbene, fratel mio, giacché me lo comandate voglio soddisfarvi.

Allora gli narrò l’infedeltà della regina di Samarcanda, e quando n’ebbe terminato il racconto:

— Questo, – proseguì egli – era il motivo della mia tristezza; giudicate voi se avevo torto di abbandonarmivi.

— Mio fratello, – esclamò il Sultano – che orrenda istoria mi avete narrata? Vi lodo di aver castigati i traditori che vi hanno fatto un oltraggio tanto sensibile. Non vi si potrebbe rimproverare quest’azione: essa è giusta, e per me vi confesso che in luogo vostro non avrei avuta forse la vostra moderazione. Io non mi sarei contentato di togliere la vita ad una sola donna; credo che ne avrei sacrificate più di mille alla mia rabbia. Oh cielo, io credo che un fatto simile non sia giammai accaduto ad altri fuorché a voi! Ma finalmente dovete lodare il Cielo della consolazione largitavi: e siccome non dubito punto che questa non sia ben fondata, compiacetevi d’istruirmene, e fatemene una intera confidenza.

— Voglio adunque obbedirvi giacché assolutamente lo volete. Temo peraltro che la mia obbedienza non vi abbia a cagionar maggior rammarico di quel che ne ho avuto io.

— Ciò che mi dite – soggiunse Schahriar – non fa che stimolare la mia curiosità.

Il Re di Tartaria, non potendo più oltre esimersi, fece allora una esatta relazione di quanto avea veduto.

— Come! – egli disse – la Sultana dell’Indie è capace di prostituirsi in una maniera cotanto indegna? No, o mio fratello, non posso credere ciò che mi dite, se non lo vedo coi propri miei occhi. Forse i vostri vi hanno ingannato.

— Fratello mio – rispose Schahzenan – non avete che ad ordinar una nuova partita di caccia, e quando saremo fuori di città ci fermeremo sotto ai nostri padiglioni, e la notte ritorneremo soli nel mio appartamento. Sono sicuro che nel giorno seguente voi vedrete quello che io pure ho veduto.

Il Sultano approvò lo stratagemma, e subito ordinò una nuova caccia.

Nel giorno seguente i due Principi partirono con tutto il loro seguito. Giunsero al luogo stabilito e vi si fermarono sino a notte. Subito il Re della gran Tartaria ed il Sultano salirono a cavallo, passarono incogniti pel campo, rientrarono in città, e andarono al Palazzo che abitava Schahzenan. Non appena giunti, si appostarono alla finestra lanciando spesso sguardi verso la porta segreta.

Quella finalmente s’aprì: e, per dir tutto in poche parole, la Sultana comparve colle sue donne, e dieci mori mascherati. Ella chiamò Massoud, ed il Sultano vide anche troppo per restare pienamente convinto della sua vergogna e disgrazia.

— Ohimè! – esclamò egli – che orrore! La moglie di un sovrano quale son io esser capace di questa infamia? Dopo di ciò qual Principe si glorierà di esser perfettamente felice? Ah mio fratello – proseguì egli abbracciando il Re di Tartaria, – rinunciamo ambedue al mondo! La buona fede ne è bandita; se essa da una parte lusinga, dall’altra tradisce. Abbandoniamo i nostri Stati e tutta la magnificenza che ne circonda. Andiamo in terre straniere a menare una vita semplice e privata, occultando il nostro infortunio!

— Fratel mio, il mio volere dipende dal vostro. Sono pronto a seguirvi ovunque vi piacerà: ma promettetemi che noi ritorneremo, se troveremo qualcheduno più infelice di noi.

— Ve lo prometto – rispose il Sultano.

Uscirono segretamente dal palazzo e s’incamminarono per una strada diversa da quella per la quale erano venuti. Camminarono tutto il giorno finché giunsero ad una vaga prateria situata in vicinanza del mare, nella quale eranvi qua e là grandi alberi fronzuti. Si sedettero sotto uno di quegli alberi per riposarsi e rinfrescarsi.

Non era molto tempo che si riposavano, quando udirono molto vicino ad essi un terribile strepito che veniva dalla parte del mare, ed uno spaventevole grido che li riempì di terrore. Allora si aprì il mare e ne uscì come una nera e grossa colonna, che pareva andasse a nascondersi nelle nuvole.

Quest’oggetto raddoppiò il loro spavento; prestamente si rialzarono, e salirono sulla cima di un albero, per meglio vedere di che si trattava. Non appena vi furono, osservarono che la nera colonna si accostava alla sponda rompendo le onde.

Era questo uno di que’ Genii che sono maligni, nocevoli e mortali nemici degli uomini. Era egli nero ed orrido, aveva la forma di un gigante, e portava sopra il suo capo una gran cassa di vetro, chiusa con quattro serrature di fino acciaio. Egli entrò nella prateria con quel carico, che andò a posare proprio a piè dell’albero ove erano quei due Principi, i quali conoscendo l’estremo pericolo su cui trovavansi si credettero perduti.

Intanto il Genio si assise vicino alla cassa, ed apertala ne uscì tosto una donna ricchissimamente vestita, di un portamento maestoso e di una perfetta bellezza.

Il mostro la fece sedere a’ suoi fianchi, ed amorosamente mirandola:

— Donna – le disse – la più perfetta di quante se ne sono ammirate per la loro bellezza; vezzosa creatura che ho rapita il giorno delle vostre nozze, e che di poi ho sempre amata costantemente, vorreste concedermi di riposarmi qualche momento vicino a voi!

Ciò detto lasciò cadere il suo gran capo sopra le ginocchia della donna; poscia, avendo allungati i suoi piedi, che si stendevano fino al mare, non tardò molto ad addormentarsi.

La donna allora, alzò gli occhi, e vedendo alla sommità dell’albero i Principi, fece lor cenno di scendere. Il loro spavento fu grande allorché si videro scoperti. Supplicarono la donna con cenni, onde dispensar li volesse dall’obbedirla: ma essa, dopo aver pian piano levato il capo del Genio di sopra le sue ginocchia, adagiollo leggermente a terra: ed alzatasi, disse loro con voce bassa, ma minaccevole:

— Scendete, bisogna assolutamente che veniate da me.

Essi scesero. Come furono a terra la donna li prese per mano, ed allontanatasi con loro alquanto sotto gli alberi, feceli liberamente una proposta che quelli obbligò ad accettare. Ottenuto che ebbe quanto bramava, avendo osservato che ciascuno portava al dito un anello, glieli domandò. Appena avuti, andò a prendere un vasetto da un involto ove teneva la sua toeletta, e ne cavò un filo di altri anelli, e mostrandoli loro:

— Sapete – disse – ciò che queste gioie significano? Questi sono gli anelli di tutti coloro ai quali ho conceduto il mio affetto: sono novantotto. Io vi ho chiesto i vostri per la stessa ragione, ed affine di compiere il centinaio preciso. Ecco adunque, cento amanti che ho avuto finora a dispetto della precauzione e della sorveglianza di questo indiscreto Genio, che non mi abbandona mai. Egli ha un bel fare col rinchiudermi in questa cassa di vetro, e tenermi nascosta nel fondo del mare: io deludo sempre la sua vigilanza. Quando una donna ha stabilito un progetto, non vi è né marito, né amante che possa impedirne l’esecuzione. Molto meglio farebbero gli uomini a non contraddirle punto, poiché questo sarebbe il vero mezzo di renderle savie.

Ciò detto, infilzò i loro anelli cogli altri, e poscia sedutasi come prima, e sollevato i capo al Genio, che non si risvegliò, lo ripose sopra le sue ginocchia, accennando ai Principi di ritirarsi.

Essi ripigliarono il loro cammino per dove erano venuti, e Schahriar disse a Schahzenan:

— Ebbene, che ne pensate di quello che è accaduto? Il Genio non ha una innamorata molto fedele. E non convenite meco che nulla eguaglia la malizia delle donne?

— Sì; – rispose il Re della gran Tartaria: – e voi pure dovete convenirne che il Genio è degno di maggior compatimento, è più infelice di noi. E poiché trovammo quel che ne faceva d’uopo ritorniamo nei nostri Stati.

In quanto a me, so qual mezzo adoperare perché mi sia inviolabilmente serbata la fede che mi è dovuta. Un giorno saprete il mio segreto e sono sicuro che seguirete il mio esempio.

Continuando a camminare, giunsero al campo sul finire della notte del terzo giorno della loro partenza.

L’avviso del ritorno del Sultano essendosi divulgato, i cortigiani andarono di buon mattino al suo padiglione. Egli comandò loro di salire a cavallo, e ritornò subito al suo Palazzo.

Come vi fu giunto corse nell’appartamento della Sultana, la fece legare alla sua presenza, e la diede in potere del suo gran Visir con ordine di farla strangolare.

Lo sdegnato Principe non si contentò di questo, ché di sua propria mano recise il capo a tutte le donne della Sultana.

Dopo questo rigoroso castigo, persuaso che non vi era una donna savia, per prevenire l’infedeltà di quelle che nell’avvenire piglierebbe, risolvette di sposarne una per notte e di farla poi strangolare il giorno seguente.

Promulgata questa legge crudele, giurò di osservarla immediatamente dopo la partenza del Re di Tartaria, il quale, subito dopo congedatosi da lui, si pose in viaggio, carico di magnifici regali ricevuti.

Partito Schahzenan, Schahriar non mancò di ordinare al suo gran visir di condurgli la figliuola di uno de’ suoi generali dell’esercito. Il Visir obbedì. Il Sultano la ebbe seco, e nel seguente giorno rimettendogliela per farla morire, gli comandò che ne dovesse ricercare un’altra per la seguente notte. Il Visir gli condusse la figliuola di un cittadino della capitale: ed ogni giorno eravi una fanciulla maritata ed una donna morta.

La fama di una tale inumanità cagionò una generale costernazione nella città, cosicché invece delle lodi e benedizioni, che sino allora eransi tributate al Sultano, tutti i suoi sudditi non facevano che imprecare contro di lui.

Il gran Visir, il quale era contro sua voglia ministro di sì crudele ingiustizia, aveva due figliuole: la maggiore delle quali si chiamava Scheherazade, e Dinarzade la più giovane. Quest’ultima non era senza meriti, ma l’altra aveva un coraggio superiore al suo sesso, uno spirito singolare ed una meravigliosa perspicacia.

Essa aveva molto letto, ed era di una memoria prodigiosa. Aveva studiata la filosofia, la medicina, l’istoria, le belle arti, e componeva versi, meglio che i più celebri poeti del suo tempo. Oltre di ciò era ornata di una perfetta bellezza, ed una vera virtù coronava le sue belle qualità. Il Visir amava appassionatamente questa figliuola, veramente degna del suo amore. Un giorno in cui si tratteneva insieme, ella gli disse:

— Padre mio, devo chiedervi una grazia.

— Io non ve la negherò – quegli rispose – purché sia ragionevole.

— Ho in mente di fermare il corso di barbarie che il Sultano esercita sopra le famiglie di questa città.

— La vostra intenzione è molto lodevole – disse il Visir – ma il male al quale volete porre rimedio mi pare irreparabile.

— Padre mio – ripigliò Scheherazade – giacché per vostro mezzo il Sultano celebra ogni giorno un nuovo matrimonio, io vi scongiuro di procurarmi l’onore di essergli moglie.

— Ohimè! avete voi perduta la ragione, o mia figliuola? Potete voi farmi una preghiera tanto pericolosa? Sapete a che vi esporrebbe il vostro zelo indiscreto?

— Sì, o mio padre – rispose la figliuola – conosco tutto il pericolo al quale mi espongo. Se io perisco la mia morte sarà gloriosa: e se riesco nella mia impresa, renderò alla mia patria un importante servigio.

— No, no – disse il Visir – qualunque ragione possiate produrre non pensate mai che io possa acconsentire alla vostra domanda.

— Per questa sola volta, o padre mio – disse Scheherazade – concedetemi la grazia che vi chiedo.

— La vostra ostinazione, – replicò il Visir – risveglia il mio sdegno. Perché mai volete correre alla vostra perdita? Chi non prevede il fine di una pericolosa impresa non ne può uscire con onore. Temo che non accada a voi ciò che successe all’asino che stava bene e non seppe contentarsene.

— Qual disgrazia accadde mai a quell’asino? – ripigliò Scheherazade.

— Son pronto a narrarvela, ascoltatemi.

Continua…


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TITOLO: Introduzione

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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale