Vecchi e giovani

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 8 minuti


Il cortile era in comune; se cortile poteva dirsi lo spiazzo triangolare che divideva e univa le tre casupole ai suoi angoli, una più malandata dell’altra; tutte e tre abitate da gente laboriosa e tranquilla, rassegnata al suo umile destino. Un muro a secco, di grosse pietre, chiudeva il recinto; vi si vedevano, al di sopra, i monti neri e turchini, di schisto, che al sole parevano di metallo; e anche le rocce che affioravano qua e là sul terreno erboso dello spiazzo, – levigate dai piedi duri e scalzi di molte generazioni di ragazzi che vi avevano pestato sopra, – erano della stessa natura: alla luna sembravano bestie accovacciate, mansuete; di giorno servivano da sedili alle donne, e agli uomini a sollevarvi e a posarvi il piede quando si allacciavano lo sprone e poi saltavano sui cavalli pazienti, per recarsi ai campi.

Adesso, però, non c’erano più ragazzi, le tre famiglie essendone sprovviste; anzi, si può dire, mancavano pure gli uomini, poiché uno di essi era al servizio del Re cioè a fare il soldato, e degli altri due, padre e figlio, il vecchio giaceva mezzo paralitico in fondo ad un androne, e l’altro già abbastanza anziano anche lui, pastore di vacche brade, era sempre fuori di casa, nel suo lontano ovile.

Nelle due casette davanti, verso la solitaria straducola che conduce al cimitero sotto i monti neri, abitavano poi solo due donne: la vedova selvatica di un contadino, che dopo la morte del marito viveva rintanata nella sua stamberga, sempre a filare, rigida e taciturna come una Parca. Non l’aveva richiamata alla sua antica gaiezza neppure il recente matrimonio della figlia giovanissima, anche perché era stato un po’ melanconico, cioè celebrato prima che lo sposo, diffidente e geloso, partisse per il servizio militare. E anche la sposina, che la madre lasciava viver sola nell’altra casetta, non sembrava allegra: andava a cogliere le olive nel piccolo predio del marito, lavorava in casa, e spesso si accovacciava sullo scalino della porta guardando lontano e sospirando: ma a volte, come presa da mattìa o spinta da una violenza interna, balzava su, snodandosi le lunghe trecce nere e lucenti “come ala di corvo”, e si protendeva sul muro del recinto, come quando aspettava i convegni col suo fidanzato: così usava fare la bella della fiaba, lanciando dal balcone le trecce perché l’amante le afferrasse per salire fino a lei.

La moglie vecchiotta e bisbetica del pastore di vacche trovava molto da criticare nella bruna irrequieta sposa, ed anche nella madre che non la sorvegliava: e a lungo parlava male di loro col suocero, chiamandole pazze e peggio ancora; fino a stancare l’infermo che pensava solo all’eternità. Anche col marito, quando al sabato sera tornava per cambiarsi la camicia, non parlava d’altro, con insinuazioni maligne: tanto che egli si infastidiva e difendeva la piccola sposa solitaria, che, dopo tutto, aveva sangue vivo in corpo, e che corpo, maledetto sia Giuda, non muffito come quello di certe donne. La moglie si offendeva, replicava, lo caricava d’ingiurie, tanto che egli se ne andava all’osteria e non tornava che a mezzanotte; poi, dopo aver ascoltato la messa dell’alba, riprendeva la via dell’ovile, rigido in sella, con la barba brizzolata, sì, ma gli occhi vivi, verdi e azzurri di tutta la fresca luce del mattino.

La moglie, non avendo di meglio, andava a lamentarsi di lui con la vedova; proprio con lei. Ma la vedova, dura e fredda come uno spiedo, si limitava a dirle che gli uomini sono fatti così, tutti a uno stampo: e se si vuole passare la notte del sabato con loro non bisogna infastidirli.

Poi il soldato tornò, fatto uomo, con un formidabile appetito e una rinnovata voglia di fare all’amore con la sposa. Tutto andava bene; ma un fatto, del resto non insolito negli usi del paese, turbò di nuovo, pochi giorni dopo il ritorno di lui, l’apparente pace del cortile. Una mattina, nell’aprire la porta, mentre il marito era nel suo predio a seminarvi il grano, la giovine moglie trovò sullo scalino dove aveva passato tante ore di attesa una bambina avvolta bene in uno scialle, col visetto peloso come una mela cotogna, nascosto dalla lunga frangia della cuffia di lana.

Dormiva come nella sua culla, calda, sebbene il tempo fosse quasi invernale; ma lo strano fu che, accorse, alle grida della sposa, la vedova e la scorbutica vicina, fu accertato che la creatura, ben nutrita e curata, doveva avere per lo meno un mese di vita. E, di solito, i fatti come questo avvengono quando i bimbi sono appena nati. Ad ogni modo fu accolta bene, e portata a vedere, dentro un canestro, anche al vecchio paralitico, che la guardò dal suo giaciglio con gli occhi vuoti di statua da arca funeraria; e non parlò, ma ebbe nel viso giallo un fugace chiarore di vita.

Tutti della contrada vennero a vedere la bambina piovuta dal cielo con la rugiada della notte autunnale: e commenti, induzioni, sospetti e malizie non ebbero fine.

Chi non parlò troppo fu il marito, ritornato dal predio con la sacca della semente finalmente vuota. Sporse il viso, ricoperto di una improvvisa maschera leonina, e digrignò i denti: pareva volesse divorarsi la creatura; ma subito si dominò; l’osservò bene, piegandosi, quasi annusandola, poi guardò il viso della moglie, sollevato supplice verso di lui, gli parve che nessuna rassomiglianza rivelatrice legasse la donna e la bambina: e, con ordine militaresco, disse:

— Portatela al Municipio.

Ma la suocera sollevò il canestro, dove ancora, in mancanza di culla, tenevano la trovatella; e dichiarò energicamente che se la teneva lei.

L’altro non replicò, ma dal viso non gli cadde più l’ombra del sospetto: che la creatura potesse essere il fiore del tradimento della scervellata sposa.

La suocera, e anche gli altri, vedevano la cupa sebbene ondeggiante passione di lui: e tentavano, col tempo e la tolleranza, di placarlo.

La bambina fu nascosta, allevata con latte di capra come una bestiolina abbandonata: la sposa, in silenzio accorato e paziente, lavorava giorno e notte, e quando era sola piangeva. Il marito non parlava, anzi stava fuori settimane intere, nel suo predio, dove scavava con ferocia le pietre e le radici più profonde, come cercando qualche cosa che gli rivelasse il mistero della sua infelicità. Così passò il tempo: ai due sposi, poiché le leggi della natura non si possono frodare, nacquero bambini; e i sassi del cortile furono, come cani e cavalli di pietra, frustati, cavalcati, abbracciati e morsi dai piccoli guerrieri felici.

A loro si univa la “figlia di ignoti” che cresceva dentro la tana della vedova come una viola nel crepaccio di una roccia: aveva nove anni, due lunghe trecce corvine, e gli occhi profondi, liquidi e glauchi, color di crepuscolo già stellato; ma tristi: gli occhi delle creature nate dall’amore trepido come quello delle cerbiatte che il pericolo minaccia; ed era timida, silenziosa, come se appunto nel sangue le scorresse la trepidazione di una colpa atavica; quando qualcuno dei grandi si avvicinava al gruppo dei bambini, ella correva a nascondere il viso in grembo alla sua madre adottiva.

Un giorno il padre degli altri bambini la poté sorprendere e osservare bene in viso come quando l’aveva veduta nel canestro. E il sospetto tornò a coprirgli il viso con un velo mortale: si pentì di non avere, a suo tempo, approfondito il mistero, di non aver inchiodato la moglie al muro per farle confessare il suo peccato. Poiché la bambina era lei tale e quale.

Adesso era troppo tardi per la vendetta; anche per le ricerche, che sarebbero state inutili e ridicole. La ghirlanda dei figli legittimi circondava la piccola reietta con una muraglia più solida di quella di una fortezza. Ma ella sentì lo sguardo di odio che la saettava, e corse a nascondersi nel grembo della vedova. Questa però non era, per un’eccezione straordinaria, a respirare col respiro del suo fuso: la vicina di casa essendo gravemente malata, l’assisteva lei; e la bambina corse laggiù, in cima al triangolo roccioso, a cercare la sua protettrice. Ma per sbaglio entrò nella caverna del paralitico, ed egli le sorrise, come può sorridere la morte alla visione della sua ultima aurora.

— Vieni, — le disse, senza voce, — ho una cosa da darti: è da tanto che ce l’ho. Ma devi chiamarmi nonno.

Ella guardava di lontano, spaurita e attratta nello stesso tempo. Con la mano che ancora si moveva, egli le fece vedere nella penombra una medaglietta d’oro attaccata a una coroncina di madreperla. Affascinata, la bambina si avanzò: ma, poiché egli capiva ch’ella aveva paura ad accostarsi al giaciglio, le lanciò il sottile rosario che cadde e si spense come una stella filante; e disse:

— Era della tua nonna: prendila e nascondila.

Così, col tempo, si schiarì il mistero. La moglie bisbetica del pastore di vacche morì, e la vedova pietosa continuò ad assistere il vecchio paralitico. E un giorno il santone chiamò a sé il marito ombroso e gli disse:

— Non hai nulla in contrario se mio figlio sposa tua suocera?

Da tanti anni l’ex-combattente non rideva più, come a questa proposta.

— Tutto il paese suonerà il tamburo delle latte e dei paiuoli davanti al nostro cortile, la sera delle nozze di quei bacucchi.

— Lasciali suonare — disse il vecchio: — e tu suonerai la tromba dell’angelo della resurrezione.

— Ma perché?

— Perché la creatura che vive con tua suocera è sua figlia e figlia di quel finto tonto di mio figlio.


Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Vecchi e giovani
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)