di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia del marito e del pappagallo
tempo di lettura: 15 minuti
Un buon uomo aveva una bella moglie da lui amata con tanta passione. Un giorno che affari pressanti l’obbligavano ad allontanarsi da lei, andò in un luogo ove vendevansi degli uccelli e comprò un pappagallo il quale non solo parlava benissimo, ma aveva la virtù di narrare tutto ciò che succedeva in sua presenza. Lo portò a casa in una gabbia e poi partì.
Al suo ritorno non mancò d’interrogare il pappagallo su ciò che era avvenuto durante la sua assenza. L’uccello gli manifestò cose che lo indussero a far dei grandi rimproveri a sua moglie.
Essa credette che alcuna delle schiave l’avesse tradita, ma quelle giurarono tutte di essere state fedeli, e convennero non altro aver potuto fare quei cattivi rapporti se non il pappagallo.
Prevenuta di questa opinione, la donna cercò nella sua mente un mezzo di distruggere i sospetti del marito e vendicarsi in pari tempo del pappagallo. Essendo andato il marito a fare un viaggio, essa comandò ad una schiava di volgere durante la notte sotto la gabbia dell’uccello un mulino a braccio, e un’altra di gittare acqua a mo’ di pioggia sopra la gabbia, ed una terza di prendere uno specchio e di volgerlo a dritta, e a manca, al lume d’una candela, innanzi agli occhi del pappagallo. L’indomani il marito essendo di ritorno fece di nuovo domanda al pappagallo intorno a quello che era avvenuto; e l’uccello gli rispose:
— Mio buon padrone, i lampi, i tuoni e la pioggia mi hanno talmente incomodato ch’io non posso dirvi quanto ho sofferto!
Il marito ben sapendo non aver piovuto quella notte restò persuaso che il pappagallo, non dicendo la verità in ciò, non l’aveva neppur detta in riguardo di sua moglie. Onde per dispetto, trattolo dalla sua gabbia, lo gittò fortemente a terra, e l’uccise.
Quando il Re ebbe terminata la storia del pappagallo, aggiunse:
— E voi, Visir, per l’invidia che avete concepita contro il medico Douban, il quale non vi ha fatto alcun male, volete che io lo faccia morire?
Il pernicioso Visir aveva tanto interesse di perdere il medico Douban, che non si arrestò a quel primo tentativo.
— Sire – replicò – la morte del pappagallo era poco importante e io non credo che il suo padrone lo abbia compianto lungo tempo. Ma, Sire, questa non è una cosa incerta: il medico Douban vi vuole assassinare. Non è l’invidia che mi arma contro di lui, è solo la sollecitudine che ho della conservazione di Vostra Maestà. Se non istate attento la confidenza che in lui avete riposta vi sarà funesta; io so per notizia sicura che costui è uno spione inviato dai nostri nemici per attentare alla vita di Vostra Maestà. Voi dite che egli vi ha guarito? E chi può assicurarvene? Chi sa se questo rimedio non produrrà un effetto pernicioso?
Il Re greco, che aveva di natura sortito poco ingegno, non ebbe abbastanza penetrazione per accorgersi della cattiva intenzione del Visir, né fermezza abbastanza onde persistere nel primo sentimento. Questo discorso lo scosse, e disse:
— Visir, tu hai ragione; egli può essere venuto espressamente per togliermi la vita; bisogna vedere cosa debbo fare in tale occorrenza.
Quando il Visir vide il Re disposto a secondarlo, gli disse:
— Sire, il mezzo più certo e più pronto per assicurare il vostro riposo e mettere in salvo la vostra persona, si è di mandare a chiamar subito il medico Douban, e fargli tagliare la testa appena giunto.
— È vero – disse il Re – così prevengo ogni suo disegno.
E chiamato uno dei suoi uffiziali, gli ordinò di andare per il medico, il quale senza sapere ciò che volesse il Re, corse subito al palazzo.
— Sai tu perché t’ho chiamato a venir qui? – disse il Re.
— No, Sire – egli rispose.
— Io ti ho chiamato per liberarmi di te, togliendoti la vita!
— Sire – disse – qual ragione trova Vostra Maestà per farmi morire? qual delitto ho commesso?
— Ho saputo da fonte sicura – replicò il Re – che tu sei una spia venuto alla mia Corte per togliermi la vita. Colpisci – aggiunse al carnefice ch’era presente – e liberami da un perfido che s’è introdotto da me per assassinarmi.
Il medico ricorse alle preghiere, ed esclamo:
— Ah! Sire, prolungatemi la vita, che Dio prolungherà la vostra; non mi fate morire perché Dio potrebbe trattarvi nello stesso modo!…
Il pescatore a questo punto interruppe il discorso per dirigere la parola al Genio.
— Ebbene, Genio, vedi che quanto successe tra il medico Douban e il Re greco, avviene tra noi.
— Il Re greco – egli continuò – invece di ascoltare la preghiera che gli aveva fatta il medico scongiurandolo in nome di Dio, gli disse:
— No, no, è una necessità assoluta che io ti faccia perire: altrimenti tu potresti togliermi la vita più ingegnosamente che non mi hai guarito.
Il carnefice gli bendò gli occhi, e legatogli le mani, si pose in attitudine per cavare la sciabola.
Il medico in ginocchio, con gli occhi bendati e vicino a ricevere il colpo fatale si diresse per l’ultima volta al Re dicendogli:
— Sire, poiché Vostra Maestà non vuol rivocare la sentenza della mia morte, la supplico almeno di accordarmi la libertà di andarmene in casa per dar gli ordini della mia sepoltura, e l’ultimo addio alla mia famiglia, fare delle elemosine e disporre de’ miei libri. Ne ho uno fra gli altri, che voglio regalare a Vostra Maestà. È un libro preziosissimo e degno di essere accuratamente conservato nel vostro tesoro. Contiene un’infinità di cose curiose, la principale delle quali è, che quando mi sarà tagliata la testa, se vostra Maestà si vorrà dar la pena di aprirlo al sesto foglio, e leggere la terza riga della pagina a mano sinistra, la mia testa risponderà a tutte le domande che vorrete farle.
Il Re curioso di vedere una cosa tanto meravigliosa, differì la morte fino al domani, e lo inviò a casa sotto buona scorta.
Il medico, durante questo tempo, mise in ordine i suoi affari, e siccome si era sparsa la voce che doveva succedere un prodigio inaudito dopo la sua morte, i visir, gli emiri, gli ufficiali della guardia e tutta la Corte andarono nella sala di udienza per essere testimoni.
Tosto si vide apparire il medico Douban, che si avanzò fino ai piedi del real trono con un grosso libro in mano.
Ivi fece portare un bacino, sul quale stese la coperta onde era inviluppato il libro, e presentandolo al Re, disse:
— Piacciavi prendere questo libro, e appena mi sarà tagliata la testa, comandate che la ponga nel bacino sulla coperta del libro; allora aprite il libro, e la mia testa risponderà a tutte le vostre domande. Ma permettete, Sire, ch’io implori la clemenza di Vostra Maestà. In nome di Dio lasciatevi piegare; vi protesto che sono innocente!
— Sono inutili le tue preghiere – rispose il Re.
La testa fu tagliata sì destramente che cadde nel bacino, e appena fu messa sulla coperta il sangue si arrestò. Allora con gran sorpresa del Re e di tutti gli aspettatori, essa aprì gli occhi e disse:
— Sire aprite il libro.
Il Re l’aprì, e vedendo che il primo foglio era attaccato al secondo, per isvolgerlo con più facilità portò il dito alla bocca e l’infuse di saliva. Fece lo stesso fino al sesto foglio, e non vedendo scrittura alla pagina indicata, disse:
— Medico, qui non è scritto nulla.
— Volgete ancora qualche altro foglio, – disse la testa.
Il Re continuò a volgere, portando sempre il dito alla bocca, finché il veleno ond’era imbevuto ogni foglio, producendo il suo effetto, il Principe cadde ai piedi del trono con forti convulsioni…
Quando la testa del medico Douban s’accorse che il veleno produsse il suo effetto, gridò:
— Tiranno! ecco in qual modo si trattano i principi, che abusando della loro autorità fanno morire gl’innocenti!
Tornando pertanto alla storia del pescatore e del Genio, quegli, che teneva sempre le mani sovrapposte al vaso, gli disse:
— Se il Re greco avesse voluto lasciar vivere il medico, Dio avrebbe lasciato viver lui: ma egli rigettò le sue umili preghiere e Dio lo punì. Lo stesso è di te, o Genio; se io avessi potuto ottener da te la grazia domandata, avrei ora pietà del tuo stato, ma poiché ad onta dell’immensa obbligazione che mi avevi persisti a volermi uccidere, io debbo a mia volta non essere pietoso.
— Amico pescatore – rispose il Genio – ti scongiuro un’altra volta di non farmi sì crudele azione; pensa che non è giusto vendicarsi, ed al contrario è lodevole render bene per male. Non mi trattare come Imma trattò altra volta Ateca.
— E che fece Imma ad Ateca? – disse il pescatore.
— Oh! se desideri saperlo, aprimi questo vaso. Credi tu che io voglia far racconti in una prigione sì stretta? Te ne farò quanti vorrai, quando mi avrai tolto di qui. Ti prometto di non farti più male, anzi ti insegnerò il mezzo di divenire potentemente ricco.
La speranza di uscir di povertà disarmò il pescatore.
— Io potrei – egli disse – ascoltarti, se potessi affidarmi alla tua parola. Giurami nel gran nome di Dio, che farai di buona fede quanto dici, ed io ti aprirò il vaso.
Il Genio lo fece, ed il pescatore tolse subito il coperchio del vaso. Il Genio riprese la sua prima forma, e la prima cosa che fece fu di gettare con un colpo di piede il vaso nel mare.
Questa cosa spaventò il pescatore.
— Che vuol dir ciò, Genio? – Non volete serbare il giuramento?
— Il timore del pescatore fece ridere il Genio che gli disse:
— No, pescatore, rassicurati; io ho gettato il vaso per divertirmi a vederti conturbato: e per farti vedere che io ti voglio mantenere la parola, prendi le tue reti e seguimi.
Passarono inanzi la città, e salirono sulla cima di una montagna, donde discesero in una vasta pianura che li menò ad un grande stagno, situato fra quattro colline.
— Quando furono arrivati alla sponda dello stagno il Genio disse al pescatore:
— Getta le reti e prendi del pesce.
Il pescatore non dubitò di prenderne, perché ne vide una gran quantità nello stagno: ma ciò che lo sorprese estremamente, fu l’averne osservati di quattro colori differenti; cioè bianchi, rossi, turchini e gialli. Gettate le reti riuscì a prenderne appunto quattro, ognuno de’ quali di diverso colore.
Il Genio gli disse:
— Porta questi pesci al tuo Sultano. Potrai venire ogni giorno a pescare in questo stagno: ma ti avverto di non gettar le tue reti se non una volta al giorno, altrimenti te ne verrà male; guardati, questo è l’avviso che ti do: se lo segui esattamente, te ne troverai bene.
Dopo queste parole il Genio scomparve.
Il pescatore, preso il cammino della città, se n’andò diffilato al palazzo del Sultano per presentargli i suoi pesci.
Non poca fu la sorpresa del Sultano, quando vide que’ bei quattro pesci presentatigli dal pescatore. Presili l’un dopo l’altro per considerarli attentamente, dopo averli per più tempo ammirati, disse al suo primo Visir:
— Prendete questi pesci e portateli all’abile cuoca che m’inviò l’Imperatore de’ Greci. Io credo che saranno buoni, quanto belli.
Il Visir li portò egli stesso alla cuoca, e dopo essersi sbrigato della sua commissione, tornò al Sultano suo padrone, che lo incaricò di dare al pescatore quattrocento piastre d’oro.
Occorre adesso dire come la cuoca del Sultano si trovasse in un imbarazzo, imperocché non sì tosto essa ebbe puliti i pesci in questione, li pose a friggere in una padella. Quando li vide abbastanza cotti da un lato, li voltò dall’altro: ma, oh prodigio inaudito!
Appena volti, il muro della cucina si aprì, e ne uscì una giovane di ammirabile bellezza, e teneva in mano una bacchetta di mirto.
Costei si approssimò alla padella e toccando uno dei pesci colla bacchetta, disse:
— Pesce, pesce sei tu al tuo dovere?
Non avendo il pesce risposto nulla, essa ripeté le stesse parole, e allora i quattro pesci, alzando la testa tutti in un punto, le dissero distintamente:
— Sì, sì, se voi contate, noi contiamo; se voi fuggite, noi vinciamo e siamo contenti.
Quand’ebbero terminate queste parole, la giovane signora rovesciò la padella e rientrò nell’apertura del muro, che tosto si chiuse tornando nello stato primiero.
La cuoca, spaventata da tutte queste meraviglie, andò a rialzare i pesci che erano caduti sulla brace, ma li trovò più neri del carbone e nella impossibilità di esser presentati al Sultano.
— Ah! che sarà di me! Quando racconterò al mio augusto padrone ciò che ho veduto! Qual collera lo assalirà contro di me!
Mentre così si addolorava, entrò il gran Visir e le domandò se i pesci erano pronti.
Essa gli raccontò ciò che le era avvenuto, e questo racconto, come può pensarsi, lo stupì molto. Il gran Visir disse:
— Questo è così straordinario da non farne un mistero al Sultano: vado subito ad informarlo.
Infatti andò a trovarlo, e gliene fece un fedele rapporto.
Il Sultano, assai sorpreso, fece venire il pescatore e gli disse:
— Amico, potresti portarmi altri quattro pesci di differenti colori?
Il pescatore rispose che se Sua Maestà voleva accordargli tre giorni per far ciò, prometteva di contentarlo.
Avendolo ottenuto, andò allo stagno per la seconda volta, e non fu meno felice della prima, poiché al primo gittar delle reti, tirò su i quattro pesci colorati.
Subito portolli al Sultano, che fu tanto più lieto inquantoché non li aspettava sì presto, onde feceli dare altri quattrocento pezzi d’oro.
Come il Sultano ebbe i pesci li portò nel suo gabinetto col necessario per cuocerli. Chiusisi col suo gran Visir, questo ministro li preparò, li pose al fuoco in una padella, e quando furono cotti da un lato, voltolli dall’altro. Allora si aprì il muro del gabinetto, ma in luogo della giovane signora ne uscì un moro.
Costui aveva un abito da schiavo, ed era di una statura gigantesca, ed aveva in mano un grosso bastone verde. Si avanzò fino alla padella, e toccando uno dei pesci col bastone, con voce terribile gli disse:
— Pesce, pesce, sei tu al tuo dovere?
A queste parole i pesci alzarono la testa e risposero:
— Sì, sì, ci siamo: se voi contate, noi contiamo; se voi pagate i vostri debiti noi paghiamo i nostri; se voi fuggite, noi vinciamo e siamo contenti!
I pesci ebbero appena terminate queste parole, che il moro rovesciò la padella in mezzo al gabinetto, e ridusse i pesci in carbone. Fatto ciò, ritirossi fieramente per dove era uscito, e l’apertura del muro si chiuse.
— Dopo ciò che ho veduto – disse il Sultano al gran Visir – non mi sarà possibile d’aver lo spirito in calma. Questi pesci senza dubbio significano qualche cosa di straordinario, di cui voglio essere chiarito.
Mandò a cercare il pescatore e gli disse:
— Pescatore, i pesci che ci hai portati dove li hai pescati?
— Sire – quegli rispose – li ho pescati in uno stagno situato fra quattro colline, al di là della montagna che si vede di qui.
Il Sultano domandò al pescatore a qual distanza dal suo Palazzo trovavasi lo stagno.
Il pescatore assicurò che non vi erano più di tre ore di cammino. Il Sultano ordinò a tutta la sua Corte di porsi a cavallo, ed il pescatore servì loro di guida.
Tutti salirono la montagna, e alla discesa videro una vasta pianura. Infine arrivarono allo stagno. L’acqua era sì trasparente, che poterono scorgere essere tutti i pesci simili a quelli che il pescatore aveva portati a Palazzo.
Il Sultano disse:
— Io sono meravigliato di questa novità, e son risoluto di non rientrare a Palazzo se prima non so per qual ragione questo stagno si trova qui, e perché dentro non vi si trovano che pesci di quattro colori.
Al venir della notte, ritiratosi sotto il suo padiglione, ei parlò in particolare al suo gran Visir dicendogli:
— Visir, io ho lo spirito in una strana inquietudine; questo stagno trasportato in questi luoghi, quel moro che ci apparve nel mio gabinetto, quei pesci che abbiamo udito parlare, tutto muove talmente la mia curiosità, ch’io non posso resistere all’impazienza di soddisfarla. Perciò medito un disegno che voglio assolutamente eseguire. Io mi allontanerò tutto solo da questo campo, pregandovi di tener secreta la mia assenza; restate nel mio padiglione e domani mattina, quando i miei emiri e cortigiani si presenteranno all’entrata, rinviateli, dicendo loro che io ho una leggera indisposizione, e che voglio star solo. Gli altri giorni continuate a dir loro lo stesso, finché io sia di ritorno.
Il Sultano prese un abito comodo per viaggiare a piedi, si munì di una sciabola, e quando vide che nel suo campo era tutto tranquillo, partì.
Ei volse i suoi passi verso una delle colline, che ascese senza non molta fatica. Trovò la china più facile, e quando fu nel piano, camminò fino a che sorse il sole.
Allora, scoprendo da lontano un grande edificio, gioì nella speranza di poter apprendere ciò che voleva sapere. Quando fu vicino si arrestò dinanzi la facciata del castello e la considerò con molta attenzione. Avanzossi fino alla porta, diede un colpo assai leggermente, e aspettò qualche tempo: ma non vedendo venir nessuno, s’immaginò che non avessero inteso. Batté più forte la seconda volta, ma non vide né sentì venir nessuno.
— Se non è abitato, non ho nulla a temere – disse fra sé – e se vi è alcuno, ho di che difendermi.
Infatti il Sultano entrò: ed avanzandosi sotto il vestibolo:
— Chi è qui – gridò – per ricevere uno straniero, che avrebbe bisogno di ristorarsi?
Ripeté le stesse parole due o tre volte, ma non ebbe risposta alcuna.
Passò in un cortile molto spazioso, e osservando da tutti i lati se vi scoprisse alcuno, si accorse che non eravi anima vivente. Non vedendo alcuno nella corte, passò dentro grandi sale. Indi entrò in un salone meraviglioso, in mezzo al quale eravi una gran fontana con un leone d’oro massiccio in ogni angolo.
Il Castello da tre lati era circondato da un giardino: ma ciò che maggiormente rendeva quel luogo ammirabile, era un’infinità di uccelli i quali riempivano l’aria dei loro canti armoniosi, e che reti d’oro tese al di sopra degli alberi e del Palazzo impedivan loro di uscire.
Il Sultano camminò lungo tempo quando ad un tratto una voce dolente, accompagnata da lamentevoli grida, colpì il suo orecchio.
Egli ascoltò attentamente ed intese queste tristi parole:
— Fortuna, che non hai voluto lasciarmi lungo tempo godere d’una sorte felice, e che mi hai reso il più sventurato degli uomini, cessa di perseguitarmi, e da’ fine a’ miei dolori con una pronta morte.
Il Sultano, mosso da questi pietosi lamenti, si alzò per andare dalla parte ove venivano. Quando fu alla porta di una grande sala, aprì una portiera, e vide un giovane ben fatto e riccamente vestito, seduto sur un trono. Appressatosi lo salutò.
Il giovine ricambiò il saluto facendo un inchino colla testa.
— Signore – disse al Sultano – conosco bene che voi meritereste ch’io mi alzassi per ricevervi, ma cagione sì forte me lo impedisce che non potete a meno di tenermi per iscusato.
— Signore – gli rispose il Sultano – vi son molto obbligato del buon concetto che avete di me. Attirato dai vostri lamenti, penetrato dalle vostre pene, io vengo ad offrirvi i miei servigi. Mi lusingo che non vi sarà discaro di raccontarmi la storia delle vostre sventure.
— Ah! signore – rispose il giovane – come non essere afflitto, come fare che gli occhi miei non siano fonti inesauste di lagrime?
A queste parole avendo alzato l’abito, mostrò al Sultano non esser uomo che dalla testa alla cintura, e che l’altra metà del corpo era di marmo nero…
Non è facile immaginare quale strana meraviglia prendesse il Sultano, quando vide lo stato deplorevole del giovane.
— Ciò che mi avete mostrato – gli disse – nel tempo stesso che mi arreca orrore, eccita la mia curiosità. Io ardo dal desiderio di conoscere la vostra storia, la quale dev’essere senza dubbio stranissima, e son persuaso che lo stagno ed i pesci avranno la loro parte; perciò vi scongiuro di raccontarmela.
— Io non voglio negarvi questa soddisfazione – rispose il giovine.
Continua…
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TITOLO: Storia del marito e del pappagallo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale