di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia di Cogia Hassan Alhabbal
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— Commendatore de’ credenti – diss’egli – per meglio far comprendere alla Maestà Vostra per quali mezzi son pervenuto alla grande prosperità di cui godo, debbo prima d’ogni altra cosa cominciare dal parlare di due amici intimi.
Questi due amici si chiamano l’uno Saadi e l’altro Saad. Saadi che è immensamente ricco, è sempre stato del sentimento che un uomo non può esser felice in questo mondo se non quanto ha più beni e maggiori ricchezze per vivere indipendentemente da chicchessia. Saad è d’un altro sentimento: conviene che fa mestieri d’aver ricchezze, ma sostiene che la virtù deve formare la felicità degli uomini.
Saad è di questo numero, e vive contentissimo e felicissimo nello stato in cui si trova. Quantunque Saadi, per così dire, sia infinitamente più ricco di lui, la loro amicizia nondimeno è strettissima, ed il più ricco non si stima tale più dell’altro. Essi non hanno mai avuto contrasti che su questo solo punto: in ogni altra cosa la loro unione è stata sempre uniforme.
Un giorno in una discussione di questo argomento Saadi sosteneva che i poveri non erano tali se non perché nati nella povertà, o che nati con ricchezze, le avevano perdute o per dissolutezza, o per qualche impreveduta fatalità.
— La mia opinione – diceva egli – è che questi poveri non sono tali se non perché non possono venire ad ammassare una somma di danaro, sufficiente per trarsi dalla miseria, adoperando la industria per farla valere: ed il mio sentimento è che se venissero a questo punto, e che facessero un uso conveniente di questa somma, non solo diverrebbero ricchi, ma ancora opulentissimi col tempo.
Saad non era dello stesso parere di Saadi.
— Il mezzo che voi proponete – rispose egli – per fare che un povero divenga ricco, non mi sembra tanto certo quanto voi lo credete. Ciò che ne pensate è molto equivoco, e potrei sostenere il mio sentimento contro il vostro con diverse buone ragioni che ci menerebbero troppo lungi.
— Saad – rispose Saadi – vedo bene che non guadagnerei nulla con voi persistendo a sostenere la mia opinione contro la vostra. Io voglio farne l’esperienza per convincervene, dando per esempio, in puro dono, una buona somma ad uno di questi artigiani poveri di padre in figlio, che vivono alla giornata e che muoiono mendici come son nati.
Un giorno passarono pel quartiere in cui facevo il mio mestiere di cordaio che avevo imparato da mio padre. A vedere i miei arnesi ed il mio vestimento non durarono fatica a giudicare della mia povertà.
I due amici vennero a me, e come vidi che volevan parlarmi, cessai di lavorare.
Essi mi dettero il saluto dell’augurio e di pace; e Saadi prendendo la parola mi domandò come mi chiamassi.
Io resi loro lo stesso saluto e risposi chiamarmi Hassan.
— Hassan – soggiunse Saadi – siccome non v’ha mestiere che non nutrisca chi lo professa, così non dubito che il vostro non vi faccia guadagnare di che vivere a vostro agio, e son anzi meravigliato che dal tempo dacché voi l’esercitate, non abbiate fatto qualche risparmio.
— Signore – gli risposi – voi cesserete dal maravigliarvi che io non faccia risparmi e non prenda la via da diventar ricco, quando saprete che con tutto il mio lavoro duro fatica a guadagnare di che nutrire me e la mia famiglia.
— Hassan – mi disse Saadi – io non sono più meravigliato come prima e comprendo tutte le ragioni che vi obbligano a contentarvi dello stato in cui vi trovate. Ma se io vi facessi dono d’una borsa di dugento monete d’oro, non ne fareste voi un buon uso, e non credete che con simile somma non diverreste ben presto ricco, quanto i primi di coloro che esercitano la vostra professione?
— Signore – risposi – voi mi sembrate un onesto uomo; e son persuaso che non volete beffarvi di me, e che l’offerta da voi fattami è seria. Oso dunque dirvi senza troppo presumere di me, che una somma assai minore mi basterebbe, non solo per divenire ricco quanto i primi della mia professione, ma benanche per divenirlo in minor tempo di loro tutti.
Il generoso Saadi trasse la borsa dal seno e dandomela in mano, mi disse:
— Prendete, ecco la borsa; voi vi troverete le duecento monete d’oro. Prego Dio che vi dia la sua benedizione e vi conceda di farne il buon uso che io desidero!
Rimettendomi al lavoro, dopo che essi si furono allontanati, il primo pensiero che mi venne fu di mettere la mia borsa in sicuro, ma io non avevo nella mia piccola e povera casa né forzieri, né armadio per far ciò. In questa perplessità, siccome io aveva l’abitudine come la povera gente della mia classe di celare la poca moneta che aveva nelle pieghe del mio turbante, lasciai il mio lavoro ed entrai in casa sotto pretesto di accomodarlo. Io presi sì bene le mie precauzioni, che senza farmi accorgere né da mia moglie né dai figliuoli, trassi dieci monete d’oro dalla borsa per le spese più pressanti, ed avviluppai il rimanente nelle pieghe della tela del mio turbante.
La principale spesa che feci fin dallo stesso giorno fu di comperare una buona provvigione di canapa. Indi siccome era lungo tempo che non si era veduto carne nella mia casa, andai alla beccheria e ne comperai per la cena.
Ritornandomene, teneva la mia carne in mano, quando un nibbio affamato, senza che io potessi difendermi, vi piombò sopra, e me l’avrebbe strappata se non avessi tenuto fermo contro di lui. Ma ohimè! avrei fatto assai meglio a lasciargliela per non perdere la mia borsa. Più trovava resistenza in me, più s’ostinava a volerla avere. Trascinandomi da una parte e dall’altra, mentre si sosteneva nell’aria senza lasciar la presa, avvenne sciaguratamente che il mio turbante cadde per terra. Immantinente il nibbio lasciò la carne e si gettò sul turbante, prima che avessi il tempo di raccoglierlo, e lo rapì.
Io tornai in casa mia molto attristato della perdita del mio turbante e del mio danaro. Intanto fu d’uopo comprarne un altro, il che fece una nuova diminuzione alle dieci monete d’oro che aveva tratte dalla borsa.
— Dio – diceva tra me – ha voluto provarmi dandomi del bene in quella che meno me lo aspettava, e me l’ha tolto quasi nello stesso tempo, perché così gli è piaciuto, non pertanto egli ne sia lodato!
Eran circa sei mesi dacché il nibbio m’aveva cagionato la sciagura che ho raccontato alla Maestà Vostra, quando i due amici passarono poco lungi dal quartiere in cui io dimorava.
Saadi, dopo avermi fatto il saluto ordinario mi disse:
— Ebbene Hassan, noi non vi domandiamo già come vanno i vostri piccoli affari dacché non vi abbiamo veduto, avendo essi preso senza dubbio un miglior cammino, mercé le duecento monete d’oro che debbono avervi molto contribuito.
Allora io raccontai loro la mia avventura coi medesimi particolari con cui ho avuto l’onore di raccontarla alla Maestà Vostra.
Saadi non credé per nulla al mio discorso.
— Hassan – diss’egli – voi vi burlate di me e volete ingannarmi: ciò che mi dite è una cosa incredibile; i nibbii non s’appigliano già ai turbanti, ma cercano carne per accontentare la loro avidità. Voi avete imitata la gente della vostra condizione; se fanno qualche guadagno straordinario, o arriva loro qualche fortuna che non aspettavano, abbandonano il lavoro, si divertono facendo buona tavola finché il danaro dura e quando hanno tutto mangiato, si trovano nella stessa necessità e negli stessi bisogni di prima.
— Signore – risposi io – soffro tutti questi rimproveri e son disposto a soffrirne anche altri assai più atroci se lo bramate, ma li soffro con tanta maggior pazienza in quanto che non credo averne meritato alcuno. La cosa, è tanto pubblica nel quartiere, che non vi è persona la quale non possa rendervene testimonianza.
Saad prese il mio partito e raccontò a Saadi altre storie di nibbii non meno sorprendenti, che alla fine Saadi trasse la sua borsa dal seno, da cui mi contò duecento altre monete d’oro nella mano.
— Hassan – mi diss’egli – di buon grado voglio farvi ancora un regalo di quest’altre dugento monete d’oro: ma badate di metterle in un luogo sicuro.
Rientrato in casa senza nulla dire dell’accaduto a mia moglie avviluppai cento novanta monete in un pannolino che collocai in fondo ad un gran vaso di terra pieno di crusca ed uscii per comprare colle altre dieci della canapa di cui era sprovvisto.
Mentre ero fuori di casa, un venditore di terra da sgrassare, della quale le donne si servono al bagno, passò per la strada e si fece sentire col suo grido.
Mia moglie, che non ne aveva più di quella terra, chiamò il venditore, e non avendo denaro, gli chiese se voleva darle della terra, in cambio della sua crusca.
Il mercante accettò il baratto: essa ricevé la terra da sgrassare, ed il venditore portò seco il vaso colla crusca.
Io ritornai carico di canapa per quanto ne potevo portare, seguito da cinque facchini carichi come me della stessa mercanzia, di cui empii un soppalco che avevo praticato nella mia casa. Soddisfeci i facchini della loro fatica e dopo che furono partiti mi riposai alquanto per rimettermi dalla mia stanchezza. Allora guardai nel posto in cui avevo lasciato il vaso di crusca e non lo vidi più.
Domandai con ansietà a mia moglie ciò che ne fosse divenuto, ed ella mi raccontò l’uso che ne aveva fatto.
— Ah, sciagurata donna! – esclamai io – voi ignorate il male che avete cagionato a me, a voi stessa ed ai nostri figliuoli, facendo un mercato che ci perde senza risorsa. Voi avete creduto non vendere che crusca, e con questa avete arricchito il vostro venditore di terra da sgrassare di centonovanta monete d’oro di cui Saadi, accompagnato dal suo amico mi aveva fatto dono per la seconda volta.
Poco mancò che mia moglie non si disperasse quando seppe il gran fallo commesso colla sua ignoranza.
— Sciagurata che io sono! – esclamò essa. – Sono indegna di vivere dopo un inganno sì crudele! Ove cercherò io questo venditore di terra? Io non lo conosco punto, non essendo passato per la nostra strada che questa sola volta, e forse non lo rivedrò mai più!
Dopo un lungo volger di tempo vidi un giorno i due amici miei comparire da lungi; ne fui tanto commosso, da esser sul punto di lasciar la mia opera e andarmi a nascondere per non dovermi trovare al loro cospetto.
Intento al mio lavoro, io finsi di non averli scorti, e non alzai gli occhi per guardarli se non quando mi furono vicini e che avendomi dato il saluto di pace, non potei, senza ricever la taccia di villania, dispensarmi dal renderlo loro.
Immantinente raccontai loro la mia ultima disgrazia con tutti i suoi particolari, facendo conoscer loro il perché mi trovassi povero come la prima volta che mi avevano veduto.
Quando ebbi terminato Saadi mi disse:
— Hassan, io non mi dolgo già delle quattrocento monete d’oro di cui mi sono privato per tentare di trarvi dalla povertà; poiché io l’ho fatto per amor di Dio, e non mi aspettava da parte vostra che il piacere di avervi fatto del bene. Se qualche cosa fosse capace a farmene pentire, ciò sarebbe l’essermi rivolto a voi, piuttosto che ad un altro, che forse ne avrebbe meglio approfittato.
E rivolgendosi al suo amico continuò:
— Saad, voi potete conoscere da quanto finora ho detto, che non mi tengo ancora per vinto. Pur nondimeno vi lascio la libertà di fare la fortuna d’un uomo povero, nel modo in cui io non l’intendo e voi l’intendete, e non cercate altra persona che Hassan. Checché possiate dargli, non posso persuadermi che divenga più ricco di quello che non ho potuto fare con quattrocento monete d’oro.
Saad teneva un pezzo di piombo nella mano che mostrava a Saadi.
— Voi m’avete veduto – disse egli – raccogliere ai miei piedi questo pezzo di piombo: io lo do ad Hassan, e vedrete ciò che egli farà.
Io credetti che Saad non parlasse seriamente, e che ciò facesse soltanto per divertirsi. Nonpertanto non lasciai di ricevere il pezzo di piombo ringraziandolo, e per contentarlo lo posi nella mia veste come per una maniera di compiacenza. I due amici mi abbandonarono per terminare la loro passeggiata ed io continuai il mio lavoro.
La sera come mi spogliai per coricarmi e dopo che ebbi tolta la mia cintura, il pezzo di piombo che Saad mi aveva dato, e da cui non aveva più pensato dappoi, cadde per terra: io lo raccolsi e lo posi sul primo luogo che mi presentò.
La stessa notte accadde che un pescatore mio vicino, accomodando le sue reti trovò che vi mancava un pezzo di piombo. Egli non ne aveva altro da sostituire, e non era l’ora di mandarne a comprare, poiché le botteghe eran chiuse. Manifestato il suo cordoglio alla consorte la mandò a domandarne nel vicinato per supplirvi. La moglie del pescatore uscì mormorando e venne a picchiare alla mia porta. Era già qualche tempo che io dormiva; pure mi svegliai domandando ciò che si volesse.
— Hassan Alhabbal – disse la donna alzando la voce – mio marito ha bisogno di un poco di piombo per accomodar le sue reti. Se per avventura ne avete, vi prego di dargliene.
Io risposi alla vicina che ne aveva, e che aspettasse un momento che mia moglie gliene avrebbe dato un pezzo.
Mia moglie, che pure s’era svegliata dal rumore, si alzò, trovò a tastoni il piombo ove le insegnai che stava, aprì un poco la porta, e quindi lo dette alla vicina.
La moglie del pescatore, lieta di non esser venuta invano, disse alla mia consorte:
— Il piacere che fate a mio marito ed a me è sì grande, che vi prometto tutto il pesce che mio marito prenderà alla prima menata delle reti, e vi assicuro che non mi disdirà.
Il pescatore, contento di avere trovato contro la sua speranza il piombo che gli mancava, approvò la promessa.
Terminato che ebbe d’accomodar le sue reti, andò alla pesca.
Egli non prese che un sol pesce la prima volta che menò le reti, ma lungo più di un cubito, e grosso in proporzione. Poscia immerse le reti parecchie altre volte e fu sempre felice ma tra tutto il pesce che prese dopo, non ve ne era un solo che si assomigliasse al primo.
Quando il pescatore ebbe terminata la pesca, la prima cura che ebbe fu di pensare a me, e fui estremamente sorpreso mentre lavorava, di vedermelo presentare innanzi con quel pesce.
— Vicino – mi diss’egli – mia moglie vi ha promesso questa notte il pesce che avrei preso alla prima menata delle reti in riconoscenza del piacere fattoci ed io ho approvata la sua promessa. Dio non mi ha conceduto per voi se non questo, che vi prego di aggradire: se ne avesse mandato piene le mie reti, sarebbero eziandio tutti stati per voi.
— Vicino – risposi io – il pezzo di piombo che vi ho mandato è sì poca cosa che non credeva lo metteste a sì alto prezzo.
Qui ponemmo termine alle nostre cortesie, ed io portai il pesce a mia moglie.
— Prendete – le dissi – questo pesce che il pescatore nostro vicino mi ha portato in riconoscenza del pezzo di piombo che ci mandò a chiedere la scorsa notte.
Accomodato il pesce, mia moglie trasse dagl’intestini un grosso diamante, che ella prese per vetro, dopo che l’ebbe nettato.
Ella aveva inteso parlar di diamanti, e se ne aveva veduti o maneggiati, non ne aveva molta cognizione per farne la distinzione. Però lo dette al più piccolo de’ nostri figliuoli onde se ne divertisse unitamente ai suoi fratelli.
La sera quando la candela fu accesa, i nostri figliuoli, che continuavano il loro giuoco, cedendosi il diamante per considerarlo l’un dopo l’altro, s’accorsero che tramandava luce quando mia moglie nascondeva loro quella della candela, movendosi per terminar di preparare la cena, e ciò impegnò i fanciulli a trapassarselo per farne l’esperienza.
Dopo cena i fanciulli si radunarono e ricominciarono lo stesso giuoco.
Allora volli sapere quale fosse la cagione della loro disputa: e chiamato il primogenito gli domandai perché facessero tanto rumore.
Egli mi disse:
— Padre mio, è un pezzo di vetro che tramanda luce quando lo guardiamo colle spalle rivolte alla candela.
Io me lo feci portare e ne feci l’esperienza.
Il fatto mi parve sì straordinario, che chiesi a mia moglie in qual maniera avesse trovato quel pezzo di vetro.
— Io non so – diss’ella – è un pezzo di vetro che ho tratto dal ventre del pesce.
Io non pensai più di lei che potesse essere altra cosa che un pezzo di vetro. Nondimeno spinsi l’esperienza più lontano; dissi a mia moglie di chiuder la lampada nel camino: il che avendo ella fatto, vidi che il preteso pezzo di vetro faceva una luce così grande, che potevamo fare a meno della lampada per coricarci.
Fattala spegnere posi io stesso il pezzo di vetro sulla sponda del camino per rischiararci.
— Ecco – diss’io – un altro vantaggio che il pezzo di piombo datoci dall’amico di Saadi ci procura facendoci risparmiare di comprar l’olio.
Quando i miei figliuoli videro che aveva fatta spegnere la lampada e che il pezzo di vetro la suppliva, dietro questa meraviglia, misero grida d’ammirazione sì alte, e con tanto rumore, che rimbombarono ben lungi nel vicinato.
Io farò in questo luogo notare alla Maestà Vostra che tra la mia casa e quella del più prossimo vicino non vi era che un sottilissimo muro di separazione. Quella casa apparteneva ad un ricchissimo ebreo gioielliere di professione e la camera in cui egli e la moglie si coricavano confinava colla mia.
Essi erano di già coricati e addormentati, quando i miei figliuoli avevan fatto quel gran rumore, il quale li aveva destati, ed erano stati lungo tempo a riaddormentarsi.
Il giorno appresso la moglie dell’ebreo, tanto dalla parte di suo marito quanto in suo proprio nome, venne a lamentarsi colla mia della interruzione del loro sonno, quando ne stavano al più forte.
— Mia buona Rachele – così si chiama la moglie dell’ebreo, le disse mia moglie – io sono addolorata di ciò che vi è accaduto e ve ne faccio le mie scuse. Voi sapete che cosa sono i fanciulli, un niente li fa ridere, come un niente li fa piangere. Entrate, vi mostrerò la cagione dei loro lamenti.
L’ebrea entrò, e mia moglie prese il diamante, poiché tale era appunto, e presentandoglielo le disse:
— Vedete, questo pezzo di vetro fu la cagione di tutto quel rumore che avete voi inteso ieri sera.
Mentre l’ebrea, che aveva cognizione d’ogni specie di pietre preziose, esaminava quel diamante con ammirazione, ella le raccontò come l’aveva trovato nel ventre del pesce e tutto ciò che le era accaduto.
Quando la moglie ebbe terminato, l’ebrea le disse, rimettendole il diamante fra le mani:
— Aischad, io credo come voi che non sia se non un vetro, ma siccome è più bello del vetro ordinario, ed io ho un pezzo di vetro presso a poco simile di cui mi adorno qualche volta, e che avrebbe uopo d’un accompagnamento, lo comprerei se voleste vendermelo.
I miei figliuoli che sentirono parlare di vendere il loro balocco, interruppero la conversazione gridando e pregando la loro madre di non venderlo.
L’ebrea obbligata a ritirarsi, uscì, e prima di lasciar mia moglie che l’aveva accompagnata fino alla porta, la pregò parlando a bassa voce, se aveva l’intenzione di vendere il pezzo di vetro, di non farlo vedere a nessuno, se prima non l’avesse avvertita.
L’ebreo era andato alla sua bottega di buon mattino nella contrada dei gioiellieri: l’ebrea andò a trovarlo ed avvisarlo della scoperta che aveva fatta.
L’ebreo rimandò sua moglie con ordine di trattare colla mia.
L’ebrea, secondo l’ordine di suo marito, parlò a mia moglie in particolare senza aspettare ch’ella si fosse determinata a vendere il diamante, e le chiese se voleva prendersi venti monete d’oro per quel pezzo di vetro, com’essa si pensava.
Mia moglie trovò quella somma considerevole: ma nondimeno non volle rispondere né sì né no, e disse solamente all’ebrea che non poteva dirle nulla, se prima non parlava con me.
Frattanto io, avendo terminato il mio lavoro, mi ritirava a casa a pranzare, e trovai che esse parlavano alla porta.
Mia moglie mi fermò, e mi domandò s’io acconsentiva a vendere il pezzo di vetro che avevo trovato nel ventre del pesce, per venti monete d’oro, che l’ebrea nostra vicina ne offriva.
Io non risposi sul momento, considerando la certezza con cui Saad m’aveva promesso, dandomi il pezzo di piombo, che avrebbe fatta la mia fortuna; l’ebrea credé che io lo facessi per disprezzo della somma che mi aveva offerta.
— Vicino – soggiuns’ella – pigliatevi cento monete d’oro il che è molto, e non so nemmen’io se mio marito me l’approverà.
A questo aumento io le dissi che ne volevo centomila monete d’oro, che io vedeva bene il diamante valer di più, ma che per far piacere a lei ed a suo marito come vicini, mi limitava a questa somma che io voleva assolutamente, e se lo ricusavano a questo prezzo, gli altri gioiellieri me ne avrebbero dato una somma maggiore.
L’ebrea mi fermò essa medesima nella mia risoluzione per la premura che mostrò di concludere il mercato, offrendomi a più riprese fino a cinquantamila monete d’oro che io ricusai.
— Io non posso – diss’ella – offrirne di più, senza il consenso di mio marito. Egli ritornerà stasera. La grazia che vi chiedo è d’aver la pazienza che vi parli e veda il diamante.
Io glielo promisi.
La sera, quando l’ebreo fu ritornato, venne tosto incontro a me, dicendomi:
— Vicino Hassan, vi prego di mostrarmi il diamante che vostra consorte ha mostrato alla mia.
Io lo feci entrare e glielo mostrai.
Preselo, e dopo averlo esaminato lungo tempo e non cessando di ammirarlo mercanteggiò lungo tempo nella speranza che io glielo avessi dato a qualche cosa di meno: ma non avendo potuto ottener nulla, per timore che io non lo facessi vedere ad altri gioiellieri, come avrei fatto, non mi lasciò senza aver concluso il mercato che io domandava.
Il giorno appresso, non so se l’ebreo tolse in prestito o se fece società con altri gioiellieri, checché ne sia, mi radunò la somma di centomila monete d’oro, che mi portò all’ora prefissa, ed io gli consegnai il diamante.
Il giorno appresso adoperai la giornata ad andar presso una parte di gente del mio mestiere che non istavano meglio di quello che io fossi stato fino allora, e dando loro del denaro anticipato, gl’impegnai a lavorare per me a diverse specie d’opere di corderia, ciascuno secondo la sua attitudine e potere, con raccomandazione di non farsi attendere che dal canto mio sarei stato esatto a pagare il loro lavoro a misura che me lo portavano.
Il giorno appresso terminai d’impegnare anche gli altri cordai di quel grado a lavorare per me, e da quel tempo in poi quanti ve ne sono in Bagdad continuano questo lavoro, contentissimi della mia esattezza.
Siccome questo gran numero di operai doveva produrre lavoro a proporzione, così io presi in affitto de’ magazzini in differenti luoghi, ed a ciascuno stabilii un commesso, tanto per ricevere lavoro quanto per la vendita in grosso ed al minuto e ben presto in questo modo mi feci un guadagno ed una rendita considerevole.
Poscia per riunire in un sol luogo tanti magazzini dispersi, comprai una gran casa che occupava un grande spazio, ma che cadeva in rovina; la feci riedificare, ed è quella che Vostra Maestà vide ieri.
Era già qualche tempo che avevo abbandonata la mia antica e piccola casa per venirmi a stabilire in questa nuova, quando Saadi e Saad si ricordarono di me.
I due amici mi furono annunciati, ed io li riconobbi appena li vidi apparire.
Alzatomi dal mio posto, corsi incontro ad essi volendo prender loro il lembo della veste per baciarla, ma però me lo impedirono, e fu mestieri che mio malgrado soffrissi che mi baciassero. Io li invitai a sedere sopra un sofà e dissi loro:
— Signore, permettetemi di domandarvi una grazia che vi prego di non ricusarmi: la grazia è di soffrire che io abbia l’onore di darvi una cena frugale, e poscia a ciascuno un letto affine di condurvi domani per acqua ad una piccola casa di campagna che ho comperata per andarvi a prendere aria di tempo in tempo, donde vi condurrò per terra nello stesso giorno ciascuno sopra un cavallo della mia scuderia.
— Se Saad non ha affari che lo chiamino altrove, io vi consento di buon grado – rispose Saadi.
— Io non ne ho punto – disse Saad – allorché si tratta di godere in vostra compagnia: ma bisogna andare a casa vostra come a casa mia ad avvertire che non ci attendano.
Io feci venire uno schiavo, e mentre essi lo incaricavano di questa commissione, andai ad ordinar la cena.
Aspettando l’ora della cena feci vedere la mia casa ai miei benefattori.
Finalmente si venne ad avvertirmi che la cena era pronta, e siccome la tavola era posta in un’altra sala, ve li feci passare.
Molto ammirarono l’illuminazione che vi era, la proprietà del luogo e le vivande che trovarono tutte di loro gusto.
Io li regalai eziandio d’un concerto vocale ed istrumentale durante il loro pasto, e quando fu sparecchiato, d’una schiera di ballerini e di ballerine e di altri divertimenti, studiando di far loro conoscere, per quanto m’era possibile, come io era penetrato di riconoscenza a loro riguardo.
L’indomani, avendo fatto convenire Saadi e Saad di partire di buon mattino, affine di godere della freschezza, andammo sulla sponda del fiume prima che il sole fosse alzato. C’imbarcammo sopra un battello grazioso ed ornato, e col favore dei sei buoni rematori e della corrente delle acque, arrivammo alla mia casa di campagna in un’ora e mezza circa.
Due de’ miei figliuoli, che noi avevamo trovati nella casa, e che io aveva inviati da qualche tempo col loro precettore per prendervi l’aria, ci avevano lasciati per entrare nel bosco, e siccome cercavano dei nidi di uccelli, ne venne loro veduto uno tra i rami di un grand’albero.
Essi tentarono al bel principio di salirvi: ma non avendo né la forza né la destrezza di farlo, lo mostrarono ad uno schiavo ordinandogli di andarlo a prendere.
Lo schiavo salì sull’albero, e quando fu giunto fino al nido, fu meravigliato di vedere che era formato in un turbante.
Rapito ciò nonostante il nido tale quale era, discese dall’albero, lo consegnò ai miei figliuoli, i quali tosto corsero a farmelo vedere.
— Padre mio, un nido in questo turbante – mi disse il primogenito.
Saadi e Saad non furono meno di me sorpresi della novità: ma io lo fui più di essi, riconoscendo quello essere il turbante statomi rapito dal nibbio.
Nel mio stupore, dopo averlo esaminato e rivolto da tutti i lati, domandai ai due amici:
— Signori, avete voi la memoria tanto buona per ricordarvi esser questo il turbante che portavo il giorno in cui mi parlaste la prima volta?
— Io non penso – rispose Saad – che Saadi vi abbia fatto attenzione più di me: ma né egli né io potremo dubitarne se le centonovanta monete d’oro vi si trovano dentro.
— Signore – soggiunsi io – non mettete in dubbio che non sia lo stesso turbante, perciocché oltre al riconoscerlo assai bene, mi accorgo eziandio al peso che non può essere un altro, e lo vedrete da voi medesimo se vi prendete la pena di maneggiarlo.
E glielo presentai dopo averne tolto gli uccelli, che diedi ai miei figli.
Dopo che Saad l’ebbe esaminato, io tolsi la tela che avviluppava in più giri la berretta che faceva parte del turbante, e ne trassi la borsa datami da Saadi, la vuotai sul tappeto innanzi ad essi, e loro dissi:
— Signori, ecco le monete d’oro, contatele voi medesimi, e vedrete che son giuste.
Saadi le dispose per diecine fino al numero centonovanta, ed allora, siccome non poteva negare una verità sì manifesta, prese la parola e rivolgendomela disse:
— Cogia Hassan, convengo che queste centonovanta monete d’oro non hanno potuto servire ad arricchirvi, ma le centonovanta altre che avete nascoste nel vaso di crusca?
— Signore – rispos’io – vi ho detto la verità, tanto per quest’ultima somma come per la prima. Voi non vorreste già che io mi ritirassi con una menzogna.
— Cogia Hassan – mi disse Saad – lasciate Saadi nella sua opinione: io consento di buon cuore ch’egli creda che voi gli siate debitore della metà della vostra fortuna mediante l’ultima somma; basta che sia d’accordo aver io contribuito per l’altra metà mediante il pezzo di piombo che vi ho dato, e che non revochi in dubbio il prezioso diamante trovato nel ventre del pesce.
— Saad – rispose Saadi – voglio ciò che voi volete, a condizione peraltro che mi lasciate la libertà di credere che non si ammassa denaro senza denaro.
— Come! – interruppe Saad – se il caso volesse che io trovassi un diamante di cinquantamila monete d’oro, e che mi si desse tal somma avrei io acquistato questa somma con denaro?
La disputa non andò più oltre. Noi ci alzammo, e rientrando nella casa, siccome il pranzo era servito, ci mettemmo a tavola.
Dopo il pranzo lasciai i miei ospiti a riposarsi durante il maggior calore del sole, mentre io andai a dare i miei ordini al portinaio ed al mio giardiniere.
Dopo ciò li raggiunsi e ci trattenemmo a conversare di cose allegre: e quando il gran calore fu passato, ritornammo nel giardino, ove restammo alla frescura quasi fino al tramonto del sole.
Allora i due amici ed io salimmo a cavallo seguiti da uno schiavo, e giungemmo a Bagdad.
Io non so per qual negligenza dei miei famigli accadde che mancasse l’orzo in casa mia per i cavalli. I magazzini erano chiusi e stavamo troppo lontani per andare a far provvisione sì tardi.
Cercando nel vicinato, uno de’ miei schiavi trovò un vaso di crusca in una bottega; comprò la crusca e la portò con tutto il vaso a condizione di riportare e di rendere il vaso il dì successivo.
Lo schiavo vuotò la crusca nella mangiatoria, e nello stenderla affinché i cavalli ne avessero la loro parte ciascuno, sentì sotto la sua mano un panno legato che era pesante.
Egli mi portò il panno senza toccarlo e nello stato in cui l’aveva trovato, me lo presentò, dicendomi che era forse quello il panno di cui mi aveva inteso parlare spesso raccontando la mia storia a’ miei amici.
Pieno di gioia, io dissi a’ miei benefattori:
— Signori, Dio non vuole che vi separiate da me se non prima siate pienamente convinti della verità di cui non ho cessato di assicurarvi. Ecco – continuai io rivolgendomi a Saadi – le altre centonovanta monete d’oro che ho ricevute dalle vostre mani.
Slegato il panno contai la somma innanzi ad essi. Mi feci eziandio portare il vaso, che riconobbi e che mandai a mia moglie per domandargli se lo conosceva con ordine di nulla dire di quanto era accaduto. Essa lo riconobbe immantinente, e mi mandò a dire essere lo stesso vaso che aveva cambiato pieno di crusca per terra da disgrassare.
Saadi, arresosi finalmente dalla sua pertinace incredulità, disse a Saad:
— Io mi dichiaro vinto e riconosco con voi che il denaro non è sempre il mezzo sicuro per ammassarne dell’altro e divenir ricco.
Quando Saadi ebbe terminato, gli dissi:
— Signore, non oserò proporvi di riprendere le trecentottanta monete che è piaciuto a Dio di far ricomparire oggi per disingannarvi dell’opinione della mia cattiva fede. Son persuaso dall’altra parte che non me ne avete fatto dono nell’intenzione che ve le rendessi. Dal lato mio non pretendo di profittarne, contento come sono di ciò che ho ricevuto diversamente. Spero però che approverete che le distribuisca domani ai poveri, affinché Dio ne dia la ricompensa a voi ed a me.
Il Califfo Haroun-al-Rascid prestava a Cogia Hassan un’attenzione sì grande che non si accorse del fine della sua storia se non dal suo silenzio. Ei gli disse:
— Cogia Hassan, è da lungo tempo che non ho inteso nulla di tanto interessante come il racconto delle vie meravigliose per le quali, è piaciuto a Dio di renderti felice a questo mondo. Spetta a te di continuare a rendergli grazie col buon uso che farai de’ suoi benefici. Io sono assai contento di annunziarti che il diamante che ha fatto la tua fortuna, è nel mio tesoro, e dal canto mio son lieto di sapere per qual mezzo vi è entrato. Ma siccome può essere che resti ancora qualche dubbio nell’animo di Saadi sulla singolarità di quel diamante, che io stimo come la cosa più preziosa e più degna d’essere ammirata di quanto posseggo, così voglio che tu lo conduca con Saadi affinché il custode del mio tesoro glielo mostri.
Terminate queste parole, avendo il Califfo con una inclinazione di capo a Cogia Hassan, a Sidi-Nouman ed a Baba Abdallah manifestato che era contento di essi, tolsero congedo prostrandosi innanzi al suo trono, dopo di che si ritirarono.
Continua…
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TITOLO: Storia di Cogia Hassan Alhabbal
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale