di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia di Sidi-Nouman
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— Commendatore de’ credenti: la prima volta che vidi la mia consorte con viso scoperto, dopo che l’ebbero condotta in casa mia colle cerimonie ordinarie, fui lieto di non essere stato ingannato circa la sua bellezza: io la ritrovai a mio grado ed ella mi piacque.
Il giorno dopo le nostre nozze ci venne servito un pranzo di più vivande. Io mi posi a tavola, e come non vidi la mia consorte, la feci chiamare. Dopo avermi fatto aspettare lungo tempo, ella giunse finalmente. Io dissimulai la mia impazienza, e ci mettemmo a tavola, cominciando dal riso che presi con un cucchiaio, siccome è costume.
Mia moglie al contrario, invece di servirsi col cucchiaio come tutti fanno, trasse da un astuccio una specie di stuzzica-orecchie, col quale cominciò a prendere il riso ed a portarlo alla bocca grano per grano. Sorpreso da simile maniera di mangiare, le dissi:
— Amina, poiché questo era il suo nome, avete imparato nella vostra famiglia a mangiare il riso in tal maniera?
Il tono affabile con cui le faceva tali rimostranze sembrava dovere attirarmi qualche obbligante risposta: ma senza dirmi una sola parola, continuò sempre a mangiare nello stesso modo, e affine di farmi più dispetto, non mangiò più riso che di tanto in tanto, ed invece di mangiare degli altri cibi con me, si contentò di portare alla sua bocca di quando in quando dei briccioli di pane.
La sera a cena fu la stessa cosa. L’indomani, e tutte le altre volte che mangiammo insieme, ella si comportò nella stessa guisa.
Ciò mi fece prendere il partito di dissimulare, e fingere di non badare alle sue azioni, nella speranza che col tempo ella s’avvezzasse a vivere com’io desiderava: ma la mia speranza era vana, ed io non stetti lungo tempo ad esserne convinto.
Una notte che Amina mi credeva addormentato, si alzò piano piano, ed io notai che si vestiva con grandi precauzioni per non far rumore, temendo di svegliarmi.
Terminato che ebbe di vestirsi, un momento dopo uscì dalla camera senza fare il menomo rumore.
Appena fu uscita, io m’alzai gettando la mia veste sulle spalle, ed ebbi tempo di scorgere, per una finestra che sporgeva nel cortile, ch’essa apriva la porta di strada ed usciva.
Corsi immantinente alla porta da essa lasciata semiaperta, e col favore del chiaro della luna la seguii finché la vidi entrare in un cimitero vicino alla nostra casa. Allora, protetto dall’ombra d’un muro, vidi Amina con una gula.
La Maestà vostra non ignora che le gule dell’uno e dell’altro sesso sono demoni erranti nella campagna. Essi abitano ordinariamente gli edifizî ruinati, donde si gettano all’improvviso sui passeggieri, che uccidono e di cui mangiano la carne.
In difetto dei passeggieri vanno la notte nei cimiteri a pascersi della carne de’ morti che disotterrano.
Io fui spaventevolmente sorpreso quando vidi mia moglie con quella gula. Esse dissotterrarono un morto stato seppellito nello stesso giorno, e la gula tagliò de’ pezzi di carne a più riprese, che poi mangiarono insieme sedute sulla sponda della fossa.
Quand’esse ebbero terminato quell’orribile pasto, gettarono il rimanente del cadavere nella fossa, che colmarono della terra da loro stata tolta. Io le lasciai fare e ritornai sollecitamente a casa. Entrando lasciai la porta semiaperta come l’avevo trovata, e dopo esser rientrato nella mia camera, mi coricai di nuovo fingendo di dormire.
Amina rientrò poco tempo dopo senza far rumore, e spogliatasi si coricò anch’ella.
Collo spirito invaso dall’idea d’una azione tanto barbara e tanto abbominevole quanto quella di cui ero stato testimone, colla ripugnanza che avevo di vedermi coricato presso colei che l’aveva commessa, stetti lungo tempo svegliato prima di riaddormentarmi. Nondimeno dormii, ma d’un sonno così leggiero, che la prima voce che si fece udire per chiamare alla preghiera pubblica dello spuntar del giorno, mi destò, ed alzatomi, andai alla moschea.
Dopo la preghiera uscii dalla città, e passai la mattina a passeggiare nei giardini ed a pensare al partito che prenderei per obbligare la mia donna a cangiar vita. Immerso in questi pensieri, giunsi a casa mia ove rientrai all’ora del pranzo.
Appena Amina mi vide fece servire e ci mettemmo a tavola. Siccome io scorsi che ella persisteva sempre a non mangiare il riso se non grano per grano, così le dissi con tutta la moderazione possibile:
— Amina, ditemi, ve ne scongiuro, se le vivande che ci sono servite non valgono meglio della carne dei morti?
Ebbi appena pronunciato queste ultime parole, che Amina prese un vaso d’acqua che si trovò a lei vicino, v’immerse le sue dita mormorando tra i suoi denti alcune parole che non compresi, e gettandomi dell’acqua in viso, mi disse in tono furioso:
— Sciagurato, ricevi la punizione della tua curiosità e divieni cane!
Appena Amina ebbe pronunziate queste diaboliche parole, mi vidi cangiato in cane.
La maraviglia e la sorpresa cagionatami da un cangiamento sì subitaneo e sì poco aspettato, m’impedirono fin dal bel principio a salvarmi, il che le dette tempo di prendere un bastone per maltrattarmi. Difatti ella mi applicò sì forti colpi, che non so come non restassi morto sul luogo.
Stanca finalmente di battermi e di perseguitarmi, e disperata di non avermi accoppato, come essa desiderava, pensò un nuovo mezzo di farlo.
Ella aprì a metà la porta di strada affine di schiacciarmivi quando l’avrei passata per fuggire; ma il pericolo dà spesso animo per conservare la vita; osservai i suoi movimenti, ingannai la sua vigilanza, e passai sollecitamente per salvarmi la vita eludendo la sua malvagità, andando a rifugiarmi nella bottega di un fornaio.
Egli faceva allora colazione, e quantunque non avessi dato alcun segno d’aver bisogno di mangiare mi gittò un pezzo di pane.
Prima di slanciarmivi sopra con avidità come fanno gli altri cani, lo guardai facendogli segno col capo e movendo la coda per dimostrargli la mia riconoscenza.
Egli mi seppe buon grado di quella specie di cortesia e sorrise.
Io non avevo bisogno di mangiare; pur nondimeno per fargli piacere presi il pezzo di pane e lo ingoiai lietissimamente.
Egli notò tutto, ed ebbe la bontà di soffrirmi vicino alla sua bottega. Io vi restai seduto e rivolto dalla parte della strada per fargli osservare che da quel momento non gli domandavo se non la sua protezione.
Io vi fui sempre ben trattato, ed egli non faceva colazione, non pranzava, non cenava senza ch’io non avessi la mia parte.
Io ero tanto maggiormente esatto, in quanto che mi era accorto che la mia attenzione gli piaceva e che spesso, quando aveva disegno di uscire, e che io non era attento, mi chiamava col nome di Rossastro, che mi aveva imposto egli stesso.
Era già molto tempo che stavo in quella casa quando un giorno una donna venne a comprar del pane e nel pagarlo al mio ospite gli diede una moneta d’argento falsa con altre buone.
Il fornaio, che si accorse della moneta falsa, la rese alla donna, domandandogliene un’altra in cambio.
La donna ricusò di riprenderla e pretese che non fosse falsa. Il mio ospite però sostenne il contrario, e nella sua disputa:
— La moneta – diss’egli a quella donna – è sì visibilmente falsa che son sicuro che il mio cane non si ingannerebbe.
— Vieni qua Rossastro – disse egli poscia chiamandomi.
Alla sua voce io saltai leggermente sul banco, ed il fornaio gettandomi le monete d’argento mi disse:
— Vedi, non è egli vero che fra queste v’è una moneta falsa?
Io guardai tutte quelle monete, e mettendo la zampa sulla falsa, la separai dalle altre, guardando il padrone come per dimostrarglielo.
Il fornaio, il quale non si era portato al mio giudizio se non per una specie di scherzo per divertirsi, fu estremamente sorpreso nel vedere che io aveva sì bene saputo trovarla senza esitare.
La donna, convinta della falsità della sua moneta, non ebbe che ridire, e fu obbligata a darne un’altra buona invece di quella.
Appena essa fu partita, il mio padrone chiamò i suoi vicini cui narrò la mia capacità.
La fama adunque della mia abilità a distinguere la falsa moneta si diffuse in poco tempo non solo nelle vicinanze, ma anche in tutto il quartiere e per tutta la città.
Io non mancai d’occupazione per tutta la giornata. Bisognava contentare tutti quelli che venivano a comprar del pane e dar loro prova della mia abilità.
Ciò durò lungo tempo, ed il mio padrone non poté fare a meno di confessare ai suoi amici che io gli valeva un tesoro.
Questa mia abilità non mancò di attirargli degli invidiosi. Mi si tesero degli agguati per rapirmi, ed egli fu costretto di custodirmi con molta cura.
Un giorno una donna, attirata da questa novità, venne a comprar del pane come gli altri. Il mio luogo ordinario era allora sul banco; ella vi gettò sei monete d’argento innanzi a me, tra le quali ve ne era una falsa.
Io la scelsi dalle altre, e mettendovi la zampa sopra la guardai come per domandarle se era quella.
— Sì – mi disse quella donna guardandomi del pari – questa è la falsa, non ti sei ingannato!
Ella pagò il pane che era venuta a comperare, e quando andò per ritirarsi, mi fece segno di seguirla senza saputa del fornaio.
Allora, vedendo che il fornaio era occupato a pulire il forno per cuocere del pane, e che non badava a me, saltai abbasso dal banco e seguii quella donna.
Dopo aver fatto un buon tratto di cammino, essa giunse alla sua casa, ne aprì la porta, e quando fu entrata, tenendo la porta aperta:
— Entra, entra – mi disse – non ti pentirai di avermi seguita!
Quand’io fui entrato e che ella ebbe chiusa la porta, vidi una damigella d’una grande bellezza intenta a ricamare.
Era la figliuola della donna caritatevole che mi aveva condotto, abile ed esperta nell’arte magica, come ben presto conobbi.
— Figliuola mia – le disse la madre – io vi conduco il famoso cane del fornaio, che sa così bene distinguere la falsa moneta dalla buona. Voi sapete che ve ne ho detto il mio pensiero dal primo momento che se ne è sparsa la voce, manifestandovi che poteva ben essere un uomo cangiato in cane per qualche malvagità. Mi sono ingannata nella mia congettura.
— Voi non vi siete ingannata, madre mia – rispose la giovinetta – e ve lo faccio vedere subito.
La damigella si alzò, prese un vaso pieno di acqua in cui immerse la mano, e gettandomi dell’acqua sopra, mi disse:
— Se tu sei nato cane, cane resta; ma se sei nato uomo, riprendi la forma d’uomo in virtù di quest’acqua.
Tosto fu rotto l’incantesimo ed io perduta la figura di cane, mi vidi uomo come prima.
Penetrato dalla grandezza del beneficio, mi gettai ai piedi della damigella, e dopo averle baciato il lembo della veste:
— Mia cara liberatrice – le dissi – io sento sì vivamente l’eccesso della vostra bontà senza pari verso uno sconosciuto qual io mi sono, che vi supplico di dirmi ciò che posso fare per compensarvene degnamente.
E dopo averle raccontato chi io era, le feci la narrazione del mio matrimonio con Amina.
— Sidi-Nouman – mi disse la figliuola – non parliamo dell’obbligazione che dite d’avermi. Il solo sapere di aver reso servigio ad un onest’uomo qual voi siete mi tien luogo di qualunque riconoscenza. Quanto ho fatto per voi non basta, ma voglio terminare ciò che ho cominciato. Trattenetevi un momento con mia madre che or ora ritorno.
Poco dopo essa rientrò con una piccola bottiglia, dicendomi:
— Sidi-Nouman, i miei libri che ho consultati dicono che Amina presentemente non è in casa vostra, ma che deve subito ritornarvi. Mi dicono altresì che la dissimulatrice finge, innanzi a’ vostri domestici, d’essere in una grande inquietudine per la vostra assenza, dando loro a credere che mentre pranzavate, vi siete ricordato di un affare che v’ha obbligato ad uscire senza por tempo in mezzo: che uscendo voi avete lasciata la porta aperta, e che un cane essendo entrato e venuto fino nella sala da pranzo, essa l’aveva cacciato. Ritornate dunque in casa vostra senza perder tempo, con la piccola bottiglia che vedete e che affido alle vostre mani. Quando vi sarà aperto, aspettate nella vostra camera che Amina rientri; essa non vi farà aspettar lungo tempo. Appena sarà rientrata, discendete nel cortile e presentatevi faccia a faccia a lei. Nella sorpresa in cui sarà di vedervi, contro la sua aspettativa, vi volgerà le spalle per prendere la fuga. Allora gettatele sopra dell’acqua di questa bottiglia, pronunziando arditamente queste parole: «Ricevi il castigo della tua malvagità!» E ne vedrete l’effetto.
Le cose accaddero come la giovine Maga m’aveva detto.
Amina non istette lungo tempo a ritornare, e siccom’ella s’avanzava, io mi presentai a lei con l’acqua in mano pronto a gettargliela sopra. Ella diede in un gran grido, ed essendosi rivolta per uscir fuori della porta, le gettai addosso l’acqua, pronunziando le parole che la giovine Maga m’aveva insegnato; immantinente essa fu cangiata in una cavalla, che è quella che la Maestà Vostra vide ieri.
Quando il Califfo vide che Sidi-Nouman non aveva più nulla a dire, gli disse:
— La tua storia è singolare, e la malvagità di tua moglie non è punto scusabile. Però non condanno assolutamente il castigo che le hai fatto provare fino ad ora, ma voglio che tu consideri quanto il supplizio è grande nel vedersi ridotta al grado delle bestie, e spero che tu ti contenterai di lasciarle far penitenza in questo stato.
Il Califfo, dopo aver dichiarata la sua volontà a Sidi-Nouman, si rivolse al terzo, che il gran Visir Giafar aveva fatto venire.
— Cogia Hassan – gli disse – passando ieri innanzi alla tua casa, mi parve sì magnifica che ebbi la curiosità di sapere a chi apparteneva: e seppi che tu l’avevi fatta fabbricare dopo aver professato un mestiere che ti dava appena da vivere. Tutto ciò m’ha fatto piacere e son persuasissimo che le vie per cui è piaciuto alla Provvidenza di rimunerarti de’ suoi doni debbono essere straordinarie. Io son curioso di saperle da te medesimo, ed è per avere questa soddisfazione che t’ho fatto venire. Parlami adunque con sincerità.
Continua…
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TITOLO: Storia di Sidi-Nouman
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale