di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Storia del cieco Baba-Abdalla

tempo di lettura: 9 minuti


— Commendatore dei credenti – rispose Baba-Abdalla – io son nato a Bagdad ereditando alcuni beni da mio padre e da mia madre, i quali morirono ambedue a pochi giorni di differenza. Quantunque io fossi in età poco avanzata, non lasciai nulla d’intentato onde aumentarli colla mia industria e colle mie cure, finalmente divenni talmente ricco per possedere da me solo ottanta cammelli, che noleggiava a’ mercanti delle carovane e che mi fruttavano grosse somme in ciascun viaggio che io faceva, in differenti luoghi dell’Impero della Maestà Vostra.

Un giorno ch’io ritornava da Bassora co’ miei cammelli un Dervis a piedi che andava a Bassora mi venne incontro, e si sedette vicino a me per riposarsi. Io gli chiesi donde venisse e dove andasse, ed egli mi fece le stesse domande: poi, dopo aver soddisfatta la nostra curiosità, mettemmo in comune le nostre provvisioni e mangiammo insieme.

Facendo il nostro pasto, dopo aver parlato di cose indifferenti, il Dervis mi disse che in un luogo poco lontano a quello in cui stavamo, aveva cognizione di un tesoro di immense ricchezze. La gioia che provavo internamente faceva sì ch’io non potessi più contenermi. Io non credeva il Dervis capace di dirmi una menzogna, e però me gli gettai al collo, dicendogli:

— Buon Dervis, vedo bene che voi vi curate poco dei beni del mondo: laonde a che può servirvi la cognizione di questo tesoro? Voi siete solo e non potete trasportarne che poco; insegnatemi ov’esso è, io ne caricherò i miei ottanta cammelli, e ve ne farò dono di uno, in riconoscenza del bene e del piacere che mi avrete fatto.

— Fratel mio – mi disse senza muoversi – voi dite che avete ottanta cammelli; io son pronto a condurvi ov’è il tesoro: li caricheremo voi ed io di altrettanto oro e gioie per quanto ne potranno portare, a condizione che quando li avremo caricati, me ne cederete la metà del loro carico, ritenendo per voi l’altra metà, dopo di che ci separeremo e li condurremo ove meglio ci parrà, voi dal vostro lato ed io dal mio. Vedete che la divisione non ha nulla che non sia nell’equità, e che se mi date quaranta cammelli, avete eziandio per mio mezzo come comprarne un migliaio.

Nel momento stesso radunai i miei cammelli e partimmo insieme! Dopo aver camminato per qualche tempo, arrivammo in un vallone assai spazioso, ma il cui ingresso era assai stretto. Le due montagne che formavano questo vallone, terminandosi in un semicerchio all’estremità, erano sì elevate, sì ripide e impraticabili, che non vi era a temere che nessun mortale ci potesse mai scorgere.

Quando infine fummo giunti tra quelle due montagne, il Dervis mi disse:

— Non andiamo più lungi, fermate i vostri cammelli e fateli coricare sul ventre nello spazio che vedete, affinché non duriamo fatica a caricarli, e quando avrete ciò fatto, procederò all’apertura del tesoro.

Io, dopo aver eseguito quanto il Dervis m’aveva detto, andai a raggiungerlo immantinente, e lo trovai con un acciarino in mano che raccoglieva alquante legna secche per fare del fuoco. Appena ne ebbe fatto, vi gettò del profumo, pronunziando alcune parole di cui non compresi bene il senso, ed immantinente un denso fumo s’innalzò nell’aria. Egli dissipò quel fumo e nel momento, quantunque la roccia che stava tra le due montagne, e che s’innalzava altissima in linea perpendicolare, sembrasse non avere nessuna specie di apertura, se ne fece nondimeno una a guisa di porta a due battenti, con un artificio assai ammirabile.

Quest’apertura espose a’ nostri occhi, in un gran fosso scavato in quella roccia, un palazzo magnifico praticato piuttosto per lavoro di Genî che per quello degli uomini.

Io non ammirai nemmeno le infinite ricchezze che vedevo da tutti i lati e senza arrestarmi ad osservare l’ordine che si era tenuto nella disposizione di tanti tesori, come l’aquila piomba sulla sua preda, mi gettai sul primo mucchio di monete d’oro che mi si presentò innanzi, e cominciai a metterne nei sacchi.

Il Dervis fece lo stesso: ma io m’accorsi che egli preferiva le gioie, e quando me ne ebbe fatta comprendere la ragione, io seguii il suo esempio, e togliemmo assai più specie di pietre preziose che oro monetato. Noi terminammo finalmente di riempire tutti i nostri sacchi, e ne caricammo i cammelli.

Prima di partire il Dervis rientrò nel tesoro, e siccome vi erano parecchi grandi vasi d’oreficeria d’ogni maniera, e di altre materie preziose, osservai che prese in uno di quei vasi una piccola cassetta di un legno che mi era sconosciuto, e se la mise sul suo seno, dopo avermi fatto vedere che non vi era se non una specie di pomata.

Allora noi dividemmo i nostri cammelli che facemmo alzare coi loro carichi. Io mi posi a capo dei quaranta che mi era riserbati e il Dervis a capo degli altri che gli avevo ceduti.

Noi ci abbracciammo ambedue con molta gioia, e dopo esserci detto addio, ci allontanammo ciascuno dal nostro lato.

Non appena ebbi fatto alcuni passi per raggiungere i miei cammelli, che camminavano sempre per la strada in cui li avevo messi, che il tarlo dell’ingratitudine e dell’invidia si impadronì del mio cuore, e risolsi tutto ad un tratto di rapirgli i suoi cammelli col loro carico.

Per eseguire il mio disegno cominciai dal far arrestare i miei cammelli. Poscia corsi dietro al Dervis, che chiamai con tutta forza per fargli comprendere che avevo ancora qualche cosa a dirgli, e gli feci segno di far arrestare altresì i suoi e d’aspettarmi. Egli intese la mia voce e s’arrestò. Quando l’ebbi raggiunto gli dissi:

— Fratel mio, non appena vi ho abbandonato ho considerato una cosa cui non aveva prima pensato, a cui forse non avevate pensato nemmeno voi. Voi siete un buon Dervis accostumato a vivere tranquillamente, scevro delle cure delle cose del mondo, e senza altro pensiero che quello di servir Dio. Voi non sapete forse quale fatica v’imponete caricandovi della direzione di sì gran numero di cammelli.

Il mio discorso fece l’effetto che desiderava: e il Dervis mi cedette senza resistenza i cammelli che io gli domandava.

— Fatene un buon uso – soggiuns’egli – e rammentatevi che Dio può toglierci le ricchezze come ce le dà, se non ce ne serviamo a soccorrere i poveri.

Il mio acciecamento era sì grande che non era in istato di profittare d’un consiglio sì salutare. Io non mi contentai di vedermi possessore de’ miei ottanta cammelli e di sapere che eran carichi d’un tesoro inestimabile che doveva rendermi il più fortunato degli uomini. Mi venne nell’animo che il picciol vaso di pomata, di cui il Dervis s’era impossessato, poteva essere qualche cosa di più prezioso di tutte le ricchezze di cui gli era debitore.

Questo mi determinò a fare in modo di ottenerlo. Io stava abbracciandolo e dicendogli addio, quando gli dissi:

— A proposito, che volete farne di quel vasetto di pomata?

— Tenete, fratel mio – mi disse – eccolo; non avvenga che per ciò non siate contento. Se posso fare qualche altra cosa per voi, non avete che a domandare ed io son pronto a soddisfarvi.

Quand’ebbi il vasetto tra le mani l’aprii, e considerando la pomata, dissi:

— Poiché avete sì buona volontà, e che non lasciate di usarmi cortesie, vi prego di volermi dire qual è l’uso particolare di questa pomata.

— L’uso ne è sorprendente e maraviglioso – soggiunse il Dervis. – Se voi applicate un poco di questa pomata intorno all’occhio sinistro e sulla pupilla, farà apparire innanzi a’ vostri occhi tutti i tesori che son nascosti nelle viscere della terra, ma se ne applicate anche all’occhio destro vi renderà cieco.

— Prendete il vasetto – dissi al Dervis presentandoglielo – ed applicatemi voi stesso un poco di questa pomata all’occhio sinistro.

Il Dervis di buon grado acconsentì, e fattomi chiuder l’occhio sinistro, mi applicò la pomata: quando ebbe fatto, aprii l’occhio, e vidi che mi aveva detto il vero. Io difatti scorsi ricchezze sì prodigiose e sì svariate, che non mi sarebbe possibile di farne un giusto ragguaglio. Nell’acciecamento in cui stavo, m’immaginai che se quella pomata aveva la virtù di farmi vedere tutti i tesori della terra applicata sull’occhio sinistro, essa aveva forse la virtù di metterla a mia disposizione applicandola ancora al destro. In questo pensiero mi ostinai a sollecitare ancora il Dervis ad applicarmene egli stesso intorno all’occhio destro: ma egli ricusò costantemente di farlo, dicendomi:

— Dopo avervi procurato un sì gran bene, o fratel mio, non posso risolvermi a farvi un sì gran male.

Ma io spinsi la mia ostinazione fino all’estremo, dicendogli fermamente:

— Fratel mio, vi prego a non badare a tante difficoltà. Voi m’avete concesso quanto v’ho domandato fino ad ora, volete che mi separi da voi mal soddisfatto per una cosa di sì poca conseguenza?

Il Dervis fece tutta la resistenza possibile, ma come vide ch’io era in istato di forzarvelo, mi disse:

— Poiché lo volete assolutamente, vi contenterò!

E preso un poco di quella fatale pomata, me l’applicò sull’occhio destro che io teneva chiuso; ma ohimè! Quando feci per aprirlo non vidi che fitte tenebre co’ miei due occhi e restai cieco come mi vedete.

— Ah! sciagurato Dervis – esclamai io immediatamente – ciò che m’avete predetto non è che troppo vero!

— Infelice – mi rispose allora il Dervis – tu non hai se non quello che meriti: l’acciecamento del cuore t’ha cagionato quello del corpo. Egli è vero che io ho dei segreti, come hai potuto conoscere nel poco tempo in cui sono stato con te, ma non ne ho nessuno per renderti la vista. Rivolgiti a Dio, se credi che ve ne sia uno, non essendovi che lui il quale possa rendertela. Egli t’aveva dato delle ricchezze di cui tu eri indegno, ed egli te le ha tolte e le darà per le mie mani a uomini che siano più riconoscenti di te.

Il Dervis non soggiunse altro, ed io non avevo nulla a replicare. Mi lasciò solo, oppresso dalla confusione ed immerso in un dolore sì grande da non potersi esprimere: e dopo aver radunato i miei ottanta cammelli, li condusse seco.

Così privo della vista e di quanto possedevo al mondo, sarei morto di afflizione e di fame, se il dì successivo una carovana che ritornava da Bassora non mi avesse voluto ricevere caritatevolmente e ricondurmi fino a Bagdad.

Mi fu mestieri dunque risolvermi a domandar l’elemosina, ed è ciò che ho fatto finora. Ma per espiare il mio delitto verso Dio, m’imposi nello stesso tempo la pena di uno schiaffo per parte di ciascuna persona caritatevole che avrebbe compassione della mia miseria.

Quando il cieco ebbe terminata la sua storia, il Califfo gli disse:

— Baba-Abdalla, il tuo peccato è grande, ma Dio sia lodato d’avertene fatto conoscere l’enormità, e della pubblica penitenza che ne hai fatta fino ad ora. Ritirati in disparte ed aspetta i miei ordini.

Il Califfo Haroun-al-Rascid, contento della storia di Baba-Abdalla e del Dervis, si rivolse al giovane, dal quale aveva veduto maltrattare la giumenta, e gli chiese il suo nome.

Il giovane gli disse chiamarsi Sidi-Nouman.

— Sidi-Nouman – gli disse allora il Califfo – io ho veduto allevare cavalli, e ne ho allevati io stesso: ma non ne ho veduto trattare nessuno in modo così barbaro come tu trattavi la tua giumenta in piena piazza, a grande scandalo degli spettatori che ne mormoravano altamente. Come so non esser la prima volta che fai tale cattivo trattamento alla tua giumenta, io voglio sapere quale n’è la cagione.

Sidi-Nouman, incominciò a parlare così:

Continua…


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TITOLO: Storia del cieco Baba-Abdalla

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale