di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia del giovine re delle indie nere
tempo di lettura: 11 minuti
— Dovete sapere signore – continuò quegli, – che mio padre, per nome Mahamud, era Re di questo stato. Mio padre morì all’età di sessant’anni. Io presi il suo posto, mi ammogliai, e la donna ch’io scelsi per divider meco la dignità reale, mi era cugina.
Un giorno ch’essa era al bagno, ebbi desiderio di dormire e mi gettai sopra un sofà. Due delle sue donne che si trovavano allora nella mia stanza, vennero a sedersi una a capo e l’altra ai piedi del mio letto con in mano un ventaglio. Credendomi esse addormentato, s’intrattenevano a voce bassa tra loro: ma io non perdei una parola della loro conversazione.
Una di queste donne disse all’altra:
— Non è vero che la Regina ha gran torto di non amare un Principe sì amabile com’è il nostro?
— Sì, certo – rispose la seconda – per me non ne comprendo nulla, e non so perché ella esce tutte le notti e lo lascia solo, ed egli non se ne accorge.
— Eh! come vuoi che se ne accorga? essa gli mesce ogni sera nella bevanda un certo succo d’erbe il quale lo fa dormire profondamente, ch’ella ha il tempo di andare ove meglio le piace, per tornare a riposarsi vicino a lui allo spuntar del giorno; allora lo sveglia facendogli passare un certo odore sotto il naso.
Immaginate, o signore, quali sentimenti m’inspirò simile discorso. Nulladimeno, ebbi impero abbastanza sopra di me, per dissimulare: finsi di svegliarmi e di non avere inteso nulla.
La Regina tornò dal bagno, e prima d’andare a letto mi presentò essa medesima la tazza piena d’acqua ch’io era uso di bere: ma invece di portarla alla bocca mi avvicinai alla finestra aperta e gettai l’acqua sì destramente, ch’ella non se ne accorse. E per non darle sospetto alcuno rimisi la tazza nelle sue mani.
Coricatici e credendo ch’io fossi addormentato, levossi e disse ad alta voce:
— Dormi, e possa non isvegliarti mai più!
Si vestì prontamente, e uscì dalla stanza.
Appena la Regina fu uscita, balzai subito dal letto; mi vestii sollecitamente, presi la mia sciabola e la seguitai sì da vicino, che la intesi subito camminare avanti di me. Ella passò molte porte che si aprivano per virtù di certe parole magiche che profferiva, e l’ultima fu quella del giardino ov’entrò. Io mi arrestai alla porta affinché ella non potesse scoprirmi.
Porsi attentamente l’orecchio a’ loro discorsi ed ecco quello che intesi:
— Io non merito – diceva la Regina al compagno – il rimprovero che mi fate di non essere diligente. Voi sapete la cagione che me lo impedisce.
Terminate queste parole, l’uno e l’altra trovandosi al termine di un viale, si volsero per entrare in un altro e mi passarono dinanzi. Io aveva già cavato dal fodero la sciabola, ferii nel collo l’amante e lo rovesciai a terra; credetti di averlo ucciso, e mi ritirai prontamente senza farmi conoscere dalla Regina, che volli risparmiare, perché mia parente.
Il colpo dato al suo amante era mortale: ma essa gli salvò la vita mercé incantesimi, in modo per altro che può dirsi di lui non esser né vivo né morto. Com’io attraversava il giardino per ritornare al Palazzo, intesi che la Regina mandava altissime grida, e giudicando da ciò il suo dolore, fui contento di averle lasciata la vita.
Entrato nel mio appartamento tornai a coricarmi, e pago di aver punito il temerario che m’aveva offeso, mi addormentai.
Svegliandomi il mattino, trovai la Regina adagiata vicino a me; mi alzai senza fare alcun rumore, e passai nel mio gabinetto per finir di vestirmi, poi andai a tener consiglio, ed al ritorno la Regina, vestita a lutto, co’ capelli sparsi e in parte strappati, venne a presentarmisi dinanzi.
— Sire – mi disse – vengo a supplicar Vostra Maestà di non meravigliarsi se mi trova nello stato in cui sono. Tre dolorose notizie ricevute ad un tempo ne sono la giusta causa.
— E quali sono queste novelle, signora? – le dissi.
— La morte della Regina mia madre, quella del Re mio padre ucciso in battaglia, e quella d’uno de’ miei fratelli caduto in un precipizio.
— Signora – le dissi – anziché biasimare il vostro dolore vi assicuro d’esserne anch’io a parte.
Ella ritirossi nel suo appartamento, passò un intero anno a piangere ed a lamentarsi. Terminato questo tempo, mi domandò il permesso di far fabbricare il luogo della sua sepoltura nel recinto del palazzo, ove diceva voler dimorare fino all’ultimo suo giorno. Io glielo permisi.
Quando fu terminato vi fece portare il suo amante. Ella aveva impedito ch’ei morisse insino allora con bevande che gli facea prendere. Peraltro con tutti questi incantesimi ella non poté guarire quello sciagurato, il quale, non solo è impotente a camminare e a sostenersi, ma ha eziandio perduto l’uso della parola.
La Regina non lasciava di fargli due lunghe visite al giorno.
Un giorno andai per curiosità al Palazzo delle Lacrime, per sapere qual fosse l’occupazione di quella Principessa, e da un luogo donde non potevo esser veduto, la intesi parlare in questi termini al suo amante:
— Son tre anni che non mi avete detto una sola parola, e non rispondete nulla alle prove d’amore ch’io vi do coi miei discorsi e coi gemiti. È per poco sentire o per disprezzo? Oh tomba, avrai tu distrutto quell’eccesso di tenerezza ch’egli aveva per me? Avrai tu chiusi quegli occhi che mi mostravano tanto amore e formavano tutta la mia gioia? No, no, io non lo credo. Dimmi piuttosto per qual miracolo sei divenuta la depositaria del più raro tesoro della terra?
Vi confesso o signore, che di tali parole, perché infine questo adorato, non era che un moro indiano, originario di questo paese, io fui talmente indignato, che mi scoprii bruscamente, e apostrofando a mia volta la medesima tomba, esclamai:
— O tomba, perché non inghiottì tu questo mostro che fa orrore alla Natura? O piuttosto perché non consumi tu l’amante e la druda?
Non appena ebbi terminate queste parole, che la Regina, la quale era seduta vicino al moro, si alzò come una furia.
— Ah! crudele – mi disse – sei tu la cagione del mio dolore! Non pensar che io l’ignori. Io ho abbastanza dissimulato; fu la tua barbara mano che pose in questo stato dolente l’oggetto dell’amor mio, e tu hai la crudeltà di venire ad insultar un’amante disperata!
— Sì, son io – la interruppi, trasportato dalla collera – son io, che castigai questo mostro come ben lo meritava, ed avrei dovuta trattar te nello stesso modo; mi pento di non averlo fatto, ed è assai tempo che tu abusi della mia bontà.
Dicendo ciò, snudai la sciabola ed alzai il braccio per punirla: ma ella, guardando tranquillamente la mia mossa:
— Per la virtù de’ miei incantesimi ti comando di diventar subito metà marmo e metà uomo. All’istante o signore, io divenni come mi vedete, vivo tra i morti e morto tra i vivi…
Dopo che la cruda maga m’ebbe così trasformato e fatto passare in questa sala, per un altro incantesimo distrusse la mia capitale che era molto popolata e florida; annientò le case, le piazze pubbliche ed i mercati, e ne fece lo stagno e le campagne deserte che avete veduto. I pesci dei quattro colori che sono nello stagno sono le quattro specie di abitanti di differenti religioni che la componevano; i bianchi erano i Musulmani: i rossi i Persiani adoratori del fuoco: i turchini i Cristiani, e i gialli gli Ebrei; le quattro colline erano le quattro isole che davano il nome a questo Regno.
Appresi ciò dalla maga, che per colmo di afflizione mi annunziò ella medesima, questi effetti della sua rabbia. Né ciò è tutto: essa non arrestò il suo furore alla mia metamorfosi; viene ancora ogni giorno a darmi sulle spalle nude cento colpi di nerbo di bue.
Terminato tale supplizio mi copre con una grossa stoffa di pelo di capra e mi mette addosso questa veste di broccato, non per farmi onore, ma per ischernirmi di me.
A questo punto il Re delle Isole Nere proruppe in un dirotto pianto.
Infatti il Sultano intrattenendosi col giovine Principe, dopo avergli manifestato, chi era e perché era entrato nel castello, di svelò di aver immaginato uno spediente per vendicarlo. Convennero sulle pratiche da farsi, e l’esecuzione fu differita al giorno appresso.
La notte intanto essendo molto inoltrata il Sultano si ritirò.
L’indomani il Sultano si levò, e per cominciare la esecuzione del suo disegno, nascose in un luogo l’abito esteriore che l’avrebbe impacciato, e andò al palazzo delle Lacrime. Lo trovò illuminato da una infinità di torcie di cera bianca, ed intese un odore delizioso. Come vide il letto ov’era nascosto il moro, impugnò la sua sciabola e tolse senza resistenza la vita a quel miserabile: ne trascinò il corpo nella corte del Castello e lo gettò in un pozzo.
Dopo questa operazione andò a coricarsi nel letto del moro, pose vicino a sé la sciabola sotto le coltri, ed aspettò.
La maga giunse subito.
Prima sua cura fu di andare nella camera ov’era il Re delle Isole Nere suo marito. Lo spogliò, e cominciò a dargli sulle spalle cento colpi di nerbo di bue con una barbarie senza esempio.
Dopo che la maga ebbe dato i cento colpi di nerbo al Re suo marito, andò al Palazzo delle Lacrime, ed entrandovi rinnovò i suoi pianti, i gridi e i lamenti; si appressò al letto ove credea che fosse tuttavia l’amante, ed esclamò:
— Ah! mio sole, mia vita, tuttavia serbate il silenzio? Siete voi risoluto di lasciarmi morire senza darmi neppure la consolazione di dirmi che mi amate? Anima mia ditemi almeno una parola, ve ne scongiuro!
Allora, il Sultano fingendo di uscire da un profondo sonno, e contraffacendo il linguaggio moresco, rispose d’un tono grave:
— Non vi è forza, né potere che in Dio solo, ch’è onnipotente!
A queste parole che non si aspettava, la maga esclamò:
— Mio caro signore, non m’inganno io? È vero che voi parlate e ch’io vi ascolto?
— Sciagurata – disse il Sultano – sei tu degna ch’io risponda ai tuoi discorsi?
— E perché mi fate voi questi rimproveri? – replicò la Regina.
— I gridi – rispose egli – i lamenti e i gemiti di tuo marito, che tu tratti sempre con tanta indegnità, m’impediscono di dormir notte e giorno. Da gran tempo sarei guarito ed avrei ricuperata la parola, se tu gli avessi tolto l’incantesimo; ecco la cagione del mio silenzio di cui tu ti lamenti.
— Ebbene – disse la maga – per calmarvi ed appagarvi son pronta a far quanto comanderete; volete che io lo restituisca alle fattezze primiere?
— Sì – rispose il Sultano – sollecita di metterlo in libertà affinché io non sia più disturbato da’ suoi gridi.
La maga uscì subito dal Palazzo delle Lacrime, prese una tazza di acqua e pronunciovvi sopra delle parole. Andò alla sala dove era il giovine Principe suo marito, e su lui gittò quell’acqua.
Appena ebbe terminato, il Principe si alzò liberamente con tutta la gioia che può immaginarsi, e ne rese grazia a Dio.
Intanto la maga tornò al Palazzo delle Lacrime, ed entrando, siccome ella credeva di parlar tuttavia al moro, gli disse:
— Caro amante, ho fatto quanto m’avete ordinato; nulla or v’impedisce di levarvi su, e darmi la soddisfazione di cui son priva da sì lungo tempo.
Il Sultano, continuando a contraffare il linguaggio del moro, le rispose di un tuono severo:
— Ciò che hai fatto non basta per guarirmi; hai tolto solo una parte del male; bisogna svellerlo dalla radice. Va’ subito a ristabilire le cose nel loro stato primiero, ed al tuo ritorno ti darò la mano, e tu mi aiuterai a levarmi.
La maga, piena di speranza, partì sul momento, e come fu sulle rive dello stagno, presa un po’ d’acqua in mano fece un’aspersione e dopo aver profferite alcune parole sui pesci e sullo stagno, la città riapparve all’istante, i pesci tornarono uomini, femmine e fanciulli, e Maomettani, Cristiani, Persiani, Ebrei, liberi o schiavi, ciascuno prese la forma sua naturale.
Quanto alla maga, andò immediatamente al Palazzo delle Lacrime per coglierne il frutto.
— Mio caro Signore – gridò essa entrando – vengo a rallegrarmi con voi del ritorno della vostra salute. Ho fatto quanto richiedeste da me; levatevi dunque e datemi la mano.
— Appressati – disse il Sultano contraffacendo sempre il linguaggio dei mori.
Essa obbedì.
Allora, levatosi, la prese per il braccio sì rapidamente, ch’ella non ebbe il tempo di ricomporsi, e con un colpo di sciabola fendé il corpo di lei in due parti, che caddero ne’ lati opposti. Fatto ciò, lasciò quel cadavere sul pavimento, e uscendo dal Palazzo delle Lacrime andò a trovare il giovine Re delle Isole Nere, che lo aspettava con impazienza.
— Principe – gli disse abbracciandolo – gioite: non avete più nulla a temere; la vostra crudele nemica non è più!
Il giovine Principe ringraziò il Sultano compreso di riconoscenza.
— Voi potete d’ora innanzi – gli disse il Sultano – restar pacifico nella vostra capitale, salvo che non vogliate venir nella mia che è vicina: io vi riceverò con piacere e sarete onorato e rispettato come in casa vostra.
— Potente monarca, a cui son tanto obbligato – rispose il Re – voi credete dunque d’esser molto vicino alla vostra capitale?
— Sì, lo credo – rispose il Sultano – non vi sono che quattro o cinque ore di cammino.
— Vi è un anno intero di viaggio – riprese il giovane Principe. – Voglio credere che voi siate venuto qui dalla capitale nel breve tempo che voi dite, ma ora le cose sono tutte mutate. Ciò non impedirà a me di seguirvi, foss’anche in capo al mondo. Voi siete il mio liberatore, e per darvi durante tutta la mia vita delle prove di riconoscenza, intendo accompagnarvi.
Continua…
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TITOLO: Storia del giovine re delle indie nere
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale