La Vita d’un Passerotto raccontata da lui medesimo
di
La Zia Stefania
tempo di lettura: 21 minuti
Eravamo in due sempre piccoli e bastantemente bruttini. Mio fratello aveva un collo lungo sterminato, coperto di pelle grinzosa e sotto a questa gli si vedevano le vene, i muscoli, gli ossi; aveva un testone tutto spelacchiato, due occhi grandi che gli schizzavano fuori ed un beccaccio giallo giallo, che spalancato, diventava un forno, il corpo pieno di cacchioni neri, tutto vene ed ossetti anche quello, con qualche pennuccia sul dorso.
Mi rammento benissimo che se qualche volta ci spenzolavamo ambedue dal nido, per contrastarci una mosca o un bacherozzolo che portasse a noi la mamma, mi si rovesciava quasi lo stomaco vedendogli battere quelle sue miserissime ali ed allungare quelle gambacce sgraziate e secche.
Gli vedevo un bozzetto nero nero. — Un gozzaccio scoperto… prominente… era proprio schifoso.
La stessa bella figura, la facevo dicerto anch’io. Ma è sempre così: si veggono i difetti degli altri e ci danno noia, e ai nostri non ci si pensa nemmeno.
La mamma ci adorava e poverina voleva bene a lui e a me ugualmente. Ma il prepotentone non appena la scorgeva col cibo nel becco mi metteva quelle sue zampacce sulla schiena e montandovi poi sopra con tutto il buzzo mi soffocava, mi sbalordiva col suo ghio… ghio stridulo, incessante ed otteneva sempre la precedenza. La mamma anche più sollecita verso di me perché più gracilino e timido trovava sempre modo di farmi avere la mia parte di nutrimento levandola magari al goloso, che voleva tutto per sé…
Un giorno in cui era rimasta assente più del solito, mio fratello si spenzolò troppo per l’avidità di una mosca che essa ci portava, cadde dal nido e non lo rividi più.
Dopo quel che ho detto si crederebbe che avessi dovuto non rimanerne molto contristato. Al contrario, non facevo che piangere e fui lì lì per cascare dal nido io pure, spenzolandomi come facevo di continuo per vedere dove fosse caduto.
È inutile, tra fratelli e sorelle, ci si può contendere il possesso di una mosca… ci beccheremo un po’ — metteremo a repentaglio le nostre forze per un nulla; — ma non è possibile non volersi bene dimolto, finché viviamo almeno nello stesso nido e sotto le ali de’ genitori. La mamma cercò di consolarmi raddoppiando di cure verso di me e mostrando d’essere molto tranquilla rispetto al figlio perduto. Non può essergli andata che bene — diceva — una mano pietosa lo avrà raccolto… lo colmerà di attenzioni… e gli darà la via appena sia grande.
O che mi avesse convinto, o che da piccoli ci si consoli presto di tutto, tornai ad essere allegro allegro.
Il sole che sorgeva, l’aria purissima della primavera, l’effluvio dei fiori e quello dei frutti; l’azzurro del cielo e la melodia dei diversi canti che si udivano nel bosco, mi mettevano addosso, ogni mattina, un gaudio infinito che non sapevo esternare se non che facendo ghio… ghio… fino a buio.
Quando mi trovavo solo nel nido e un poco assonnato, sognavo le grandi volate per lo spazio e mentre essendo del tutto sveglio, volgevo attorno lo sguardo, presentivo le gioie dei nascondigli ombrosi, di un terreno seminato di grano, dello stagno ricco di bacherozzoli… E tutta la poesia di un filo d’acqua che corra fra i sassi, d’un canto flebile ed amoroso, d’un arboscello leggermente scosso dal vento, d’un ajuola fiorita, d’una siepe olezzante.
Presentivo insomma quell’amore infinito, quell’entusiasmo, direi, del creato e del creatore, che fa cinguettare noi passerotti durante il giorno, come cantare durante la notte e senza riposo, il melodico usignolo.
Ma che certi ragazzi, dei quali udiva sovente le voci, dovessero essermi fatali, non lo avevo presentito punto; quantunque avessi notato, più di una volta, che quando essi tiravano dei sassi sull’albero, nel tronco del quale la mamma aveva costruito il nido, essa drizzava il collo per la paura e se seguitavano a gettar sassi o a scuoter l’albero scappava via. Dei nidi lì vicini a me ce n’erano parecchi e come la mia facevano le altre mamme. Se ne fuggivano per un nulla. E noi, sebbene ignari del pericolo che ci sovrastava, ad affaticarci richiamandole invano col nostro pigolìo.
Per dire il vero, una mamma che vuol bene ai suoi piccini fa molto male se li abbandona in certi momenti… Pare però che noi passeri, non ci siamo ancora giunti, a quella potenza di affetto illimitato, che sa concepire, ci dicono, l’animale così detto uomo.
— Eccolo lassù il nido… — fece un giorno uno dei ragazzi.
— Dove? dove? — chiesero tutti gli altri ad un tempo.
Sentire una scossa tremenda e una mano addosso fu un istante.
Che paura! che sensazione ingrata sentirsi rinchiusi dentro una mano!
Ma anche noi ci difendemmo con le beccate, e il ragazzo per un momento ebbe così paura che fece una gran boccaccia.
Il cuore mi batteva con violenza; credevo di morire.
— Lo vedete se c’è riuscito di trovarlo, il nido, — esclamò un ragazzo.
— Sfido — replicò l’altro — se c’era un passerotto morto qui in terra, più qua o più là doveva esserci anche un nido.
Povero mio fratello! il morto era lui senza dubbio, sebbene la mamma avesse asserito…
Quando i ragazzi m’ebbero strapazzato ben bene, leticando tra loro, perché tutti mi volevano in mano, tutti volevano imboccarmi; mi chiusero in una gabbia e mi lasciarono in pace, — per modo di dire.
Giacché portavano di qua e di là la gabbia, la lasciavano e la riprendevano mille volte al quarto d’ora.
⁂
Mi sentivo come trasportato in un altro mondo. Non era più quell’aria balsamica e fresca di prima, che respiravo, non erano più i rumoretti soliti, quelli che udivo. Ero capitato in una casa di contadini, nell’ora in cui andavano a cena. Le donne ciarlavano, gli uomini brontolavano perché non pioveva da un pezzo e i bambini piccini erano fastidiosi e cattivi lottando tra il sonno e la fame. Pensavo al mio nidino, ove ero stato tanto meglio che in quella gabbia… e piangevo piangevo. Ma allorché non udii più rumori per la casa mi addormentai. Il giorno dopo fui venduto per dieci centesimi ad un signorino che si chiamava Goretto.
Anche lui mi prese in mano. Ma che differenza! Mi prese con cautela, leggermente, senza darmi mai delle strizzate. E che manina morbida era la sua!… Pareva un velluto.
Poverino — mi diceva — t’hanno levato dal nido… alla tua mamma… Se lo sapessi dov’è, ti ci riporterei, sai…
Goretto mi faceva tante carezze e mi teneva così bene, che se non fosse stato per lei, povera mammina, mi sarei rassegnato presto a quella vita di reclusione. Mangiavo da me ed ogni giorno che passava, mi vedevo spuntare nuove penne.
— Ora bisogna tagliargli le ali, signorino… disse una mattina, la cameriera di casa.
— No davvero… guarda un po’… sarebbe una crudeltà poverino… — rispose egli, baciandomi la testa. — E non voglio veh! — aggiunse vedendo che la cameriera teneva in mano le forbici.
— O se le scappa? Per me si figuri… — fece essa posandole con dispetto.
— Non scapperai mica? — mi chiese allora il bambino, accarezzandomi e baciandomi di nuovo. Ti do lo zucchero io… il savoiardo… il granino buono… le moschine… la canapina…
Se gli avessi potuto rispondere nella sua lingua gli avrei detto: ma la mamma non me la rendi né i compagni… non mi dai il cielo… il fresco degli alberi… e quelle tante cosette delle quali ha bisogno la mia natura di essere alato, alle quali sognai essendo nel nido e delle quali mi privi tenendomi teco.
Un giorno Goretto mi faceva andare dall’indice della sua mano destra a quello della sinistra, e intanto si guardava in uno specchio.
Prima con un occhio, eppoi con quell’altro io pure mi ci guardai. Come ero bello! Una coda lunga… certe belle penne alle ali… tutto il capo e tutto il corpo coperto di piuma…
Se la mamma mi vedesse ora… — dissi tra me, ripensando a quanto era mai brutto il povero fratello e riflettendo che da piccino non dovevo essere meno brutto io, perché secco e spelacchiato quanto lui.
Questa idea della mamma entusiasta della mia bellezza mi fece venire una tal voglia di scappare che spiccai il volo senza volere.
Goretto rimase a bocca aperta, coi sopraccigli alzati, seguendomi cogli occhi ma senza muovere palpebra. Era la prima volta che volavo.
Battei ripetutamente il petto nei vetri della finestra, poi caddi giù a terra sfinito, ansante.
— Vede che cosa segue? — venne fuori a dire la cameriera colla sua voce agra — Un bel giorno gli scappa… non ha forza di volare, e va nella bocca di un gatto… gli tagli, gli tagli le ali, signorino… ripeté l’antipatica donna.
E lui — No, no, non voglio! — E se quella faceva atto di riprendere in mano le forbici, urli disperati.
È altresì vero che da quel di Goretto non ebbe più pace.
La mia prima volata lo aveva proprio reso irrequieto. In gabbia gli facevo pena, e mi ci teneva poco, le ali non me le voleva tagliare e al tempo stesso gli stava molto ma molto a cuore che io non me la svignassi; anche per la paura di quel benedetto gatto, dal quale dovevo essere ingoiato, conforme aveva predetto la cameriera.
— Non trovo Cecco, — gridava talvolta col pianto alla gola, — e Cecco ero io — non lo trovo più… O dov’è?? o dov’è andato?? me l’hanno fatto scappare…
Sua madre dava subito l’ordine che le persone di servizio mi cercassero e accorreva lei stessa in aiuto.
Si frugava sotto i mobili, mi si cercava dietro le sedie, sulle cornici degli usci e dei quadri, sulle aste delle tende, sui fili di ferro e sulla leva del campanello, in ogni canto in ogni buco…
— Ecco qui — brontolava intanto la cameriera. — Mi fa perdere un tesoro di tempo quel benedetto uccello… se ti trovo te le taglio io le ali… ho da stirare una montagna di panni… Se non è oggi è domani…
E io per dispetto a lei, stavo fermo accovacciato, respirando appena, perché spendesse più tempo a cercarmi.
— No signora, le ali non gli si tagliano — diceva il bambino tutto arrabbiato e colla voce di pianto — e se ti provi!…
Ma quella strega di donna approfittò una volta d’esser sola in casa e mi mozzò le più belle penne che avessi.
Quando il bambino tornò, apriti cielo e serrati finestra! gridi, pianti, disperazioni! Ma le ali e la coda erano tagliate e non c’era più rimedio!
— Almeno ora, si può tenere i vetri aperti — diceva lei — ci sapeva sempre di rinserrato in questa camera… eppoi perché tante storie! per quel brutto passerottaccio.
Siccome nello stato in cui essa mi aveva ridotto ero brutto davvero, mi canzonava, mi sbeffeggiava, diceva che parevo un topo… mi chiamava brutto scodato, e mi rivolgeva altre simili impertinenze. Almeno, soggiungeva, si fruga un po’ sotto i mobili ora, ed eccotelo fuori subito…
Io avevo paura d’essere sbuzzato… che del resto avrei potuto farla ammattire più che mai la signorina…
⁂
Una sera m’ero accoccolato sulla traversa d’una sedia per passarvi la nottata.
Stavo tra il sonno e un dolce dormiveglia e come accade sul morire del giorno, mille pensieri cari e poetici, mi popolavano la mente. Pensavo alla gioia di possedere una buona sposa, ai figliuoletti che avrei potuto avere, e a molte altre cose tenere e affettuose… quando tu pu tum sento un tonfo, e veggo un gatto nella stanza. Cosa seguisse di me non lo so perché persi la memoria per la paura che n’ebbi. Non la riacquistai che in casa dei suoi padroni, ove mi trasportò.
Là mi lasciò andare in terra ed io mi riebbi; ma subito dopo mi corse dietro, acchiappandomi quando colla bocca, quando colle zampe, per poi lasciarmi di nuovo, e di nuovo rincorrermi e chiapparmi. Questa alternativa di boccate e di zampate mi dava un tale crepacuore e mi strapazzava in modo che sarei morto anche se non mi avesse mangiato; se una donna non fosse apparsa e non gli avesse tirato sulla schiena una granata, nel momento in cui stava per riabboccarmi.
Povero micio… povero micino! gridò tutta irata una vecchia ragazza dalla voce nasale, accorsa là contemporaneamente. Non avete un’oncia di cuore voi… disse alla donna e facendo l’occhio tenero al mio aggressore che d’un salto schizzò dalla finestra sul tetto, tentò di chiamarlo a sé.
Non appena vide però di che si trattava prese me, colla sua mano scarna e ghiaccia continuando pur sempre a compassionare il gatto, e s’intenerì nel vedere che facevo sangue da un’ala. Mi portò sul suo letto, e poverino qui, poverino là mi curò con vera sollecitudine materna. Ma dopo tutto fui rinchiuso in una gabbia come tanti altri uccelli che la vecchia zitella teneva in schiavitù.
Essa capitava ogni mattina e quando aveva fatto intorno a me quanto stimava opportuno di fare, appendeva la mia gabbia ad uno dei chiodi più alti di una certa parete e fino al giorno dopo, non la rivedevo più. Era capace di prender subito subito il signor gatto in collo, prodigando a lui pure tutte le galanterie del mondo e baci e carezze a profusione.
Che stizza mi facesse con quelle moine non posso dirlo. E fargliele proprio sotto i miei occhi!
Allora più che mai apprezzavo l’affetto di Goretto, le cure che mi aveva prodigate… Quello si chiama voler bene!… dicevo tra me e me. Lui dei gatti in casa non ne avrebbe voluti… lui non mi avrebbe lasciato tante ore qui rinchiuso… solo… E che pena gli faceva, di sacrificarmi, povero bambino… tanto che un giorno o l’altro mi avrebbe lasciato in libertà, lui! Non l’aveva mica come questa brutta, la passione di tenere in gabbia delle creature per il gusto di farle soffrire…
La secca donna pareva che godesse, facendo degli oppressi o degli schiavi. Lei un canino, lei un coniglio, un porco spino, uno scoiattolo, un piccione.
— Bada, bada — gridava col naso — che non passi il cane di qua… chiudi l’uscio che non entri il gatto… stai attenta che lo spinoso non vada dalla tortora… lesta, chiudi, che ho messo fuori il canarino…, ho il coniglio sui ginocchi. E così di seguito tutto il santo giorno; poiché avendo essa riunito in poco spazio un’infinità di animali che non possono vivere insieme, era obbligata a stornare il pericolo sovrastante or sull’uno or sull’altro di quegli esseri a lei tanto cari, ma da lei medesima tanto sacrificati.
Una volta, quando già ero guarito, ed avevo rimesso le ali, le saltò il ticchio di mettermi in una gran voliera coi signori canarini. Io li salutai subito con gran rispetto e umiliato della loro bella voce e del lusso delle loro vesti, mi misi in un canto mogio mogio. Ma essi sdegnosi della mia presenza mi vennero addosso e se non riuscirono ad ammazzarmi, perché seppi difendermi, riuscirono a ferirmi e a spelacchiarmi assai. La zitellona ricevé l’annunzio di tale avvenimento dalla sua donna e dritta, stecchita, ruvida come un ferro da calza arrugginito, mi levò subito di là e mi mise in una gabbia. Poi diventando a un tratto tutta muta e carezzevole levò di tasca un savoiardo e… carini… carini loro… andava dicendo, mentre ne dava dei bravi pezzi a quei furfanti, — non ce l’hanno voluto… è troppo brutto per stare insieme… hanno ragione poverini…
Udendo queste frasi melate e vedendo che a me di quel savoiardo non me ne toccava; fui preso da un accesso di stizza furente e incominciai a sbatacchiarmi per la gabbia dando beccate di qua, beccate di là.
Oh! gioia! uno stecchino si muove, mi si apre un varco ed io via per la finestra, che non avevano avvertito di chiudere.
Ero libero, padrone del mondo! che felicità! Ormai la forza di volare l’avevo e sebbene ferito, feci una volata che mi rimesse in vita.
Sfido io, ero nel pieno sviluppo del mio organismo ed avevo tanto bisogno di spazio… di moto!
Dopo questa prima girata mi nacque il desiderio dell’asilo materno e quello di rivedere Goretto. Pensavo d’entrare nella stanza del bambino, posarmi sulle spalle di lui e beccargli, secondo il solito, gli orecchi, le labbra, i denti; far di tutto insomma, perché riconoscesse il suo Cecco. Ora sì che avevo bisogno di dirgli che gli volevo bene! Quale confronto, tra il suo bel cuore e quello dell’ultima padrona.
Il nido ove nacqui lo trovai mezzo disfatto ed invano chiesi dei miei genitori. Pare che avessero emigrato.
Rividi la finestra di Goretto, ma sempre chiusa, non vivendo egli in campagna stabilmente. Bisognava dunque cercarlo nella città; ma dove?… Volerò, volerò, — pensai — mi fermerò nei paesi più vicini e chi sa!…
Così feci, ma senza effetto.
E ritrovare Goretto, rivederlo, manifestargli affetto e gratitudine, era l’unico mio pensiero.
Volavo per lo spazio infinito, godevo respirando a pieni polmoni il mare d’aria che mi avvolgeva che mi cullava e tornavo tosto giù in basso a cercare di lui. Altre volte mi saltava l’estro di fare un giretto per il mondo e benché mi beassi proprio di molto nel vedere e siti pittoreschi e cascate d’acqua, montagne, collinette, vallate amene, foreste, giardini, boschetti, estensioni di acqua, di prati, di case, laghi, isole e che so io, una forza quasi istintiva mi riconduceva sempre sopra un dato punto di questa nostra Italia: nel circuito ove ero nato e quasi sempre nella grande ed antica città che vi era compresa. Là dove i monumenti, le torri, le guglie, le chiese, si elevano a centinaia sui colli che si addossano pittorescamente, cosparsi di case.
Dai monumenti più alti scendevo sulle chiese e da quelle sui tetti delle case. Di qui nelle strade e nei giardini di preferenza, perché vi udivo sovente delle voci argentine che mi facevano palpitare di speranza.
Il caso volle che mi posassi un giorno sopra una pianta di fico e udissi più voci insieme come se ci fosse sotto chi questionasse. Detti un poco ascolto e allettato dal genere di discussione, m’internai nell’albero: svolazzando di ramo in ramo, mi posai sopra uno dei rami più bassi.
C’era lì sotto una riunione di giovanetti.
— No signore — diceva uno di loro, dandosi l’aria di saccente. — Le passere sono tutt’altra cosa che i canarini.
E un altro. — Ti dico che appartengono proprio alla stessa famiglia.
— Neppur per sogno! — rispose il primo con sicurezza e con un sorriso di scherno.
— Ma sì — ma no — non ne sai niente — l’ho letto — è un errore — ci scommetto — scommettiamo — domandiamone…
— A don Luigi, a don Luigi! — disse la comitiva, desiderosa di sapere chi dei due litiganti avesse ragione.
— Che c’è ragazzi? di che si tratta? — Chiese in quel momento un ometto vestito di nero che si presentò sulla soglia d’un certo usciolino.
Il saccente espose il caso e come per ispiegare:
— Don Luigi, glie lo dica Lei a quell’ignorante che, le passere non appartengono…
Ma l’ometto vestito di nero, non gli dette tempo di formulare tutta la frase. Lo guardò con sguardo severo e, — Bada di non esser tu l’ignorante — gli disse cambiando il tono brusco in ironico; e quindi aggiunse. — Passeri e canarini appartengono alla classe dei conirostri, gli uccelli voglio dire che hanno il becco conico. Sono della stessissima famiglia gli uni e gli altri ed hanno una struttura identica tanto che pelando un passero ed un canarino, non è facile, neppure allo scienziato, di distinguere quale sia l’uno e quale l’altro.
Il canarino è oriundo delle isole Canarie: allo stato naturale è più grosso, di quelli che noi teniamo in gabbia, non è di un giallo così pallido, e così uguale per tutto il corpo, ma vince sempre in bellezza il passero.
Questo ultimo però, vince d’assai l’altro in coraggio, in forza d’animo, giacché mentre quello teme l’uomo e lo fugge vivendo lontano dalle abitazioni, questo lo teme, ma ne affronta con balda arditezza la vicinanza, andando a posarglisi talvolta a due passi ed a costruire il nido nel tetto medesimo della casa di lui.
I nostri canarini poi riprodottisi per parecchie generazioni nelle gabbie hanno ingentilito la loro forma ed il colore. Ma per la lunga schiavitù nella quale hanno vissuto, è diventata questa una schiatta senza fibra, molle, sdolcinata, vile, che preferisce la gabbia, ben fornita, alla vita libera.
Date ad uno di loro la libertà e lo vedrete cascare di nuovo, quasi volontariamente, nelle mani dell’uomo; seppure non cade nelle granfie d’un gatto.
— In quanto a me — soggiunse scherzando — mi leverei di cappello ad un signor passero, ma ad un ozioso di canarino no davvero.
Se fossero venute delle formiche a passeggiarmi sulle zampe e magari delle mosche a posarmisi sul becco, non avrei avvertito nulla; tanto era grande il diletto, la soddisfazione di udire…
Il tema fu esaurito, e si parlò d’altre cose. Io rimasi dentro il fico pensando… riflettendo…
La dignità alla quale mi aveva inalzato l’ometto vestito di nero, mi rendeva proprio cieco d’orgoglio, mi dava quasi alla testa. Se vi ritrovo, bei canarini, dissi tra me in un accesso d’ira, rammentando quanto mi avevano umiliato e fatto soffrire i protetti della vecchia ragazza, — voglio venire ad appollaiarmi sulla vostra gabbia! E voglio dirvi: Ma che credete d’essere qualche cosa più di me, voi? Perché cantate bene e avete le penne chiare, pretendete forse di appartenere a stirpe più nobile della nostra?
Siamo tutti fratelli, miei cari, della stessa famiglia… E se noi passere vi si muovesse guerra… guai. Siamo più ardite noi, in maggior numero, e in casa nostra. Neppure le gabbie d’oro massiccio, vi difenderebbero dalle nostre beccate, vanitosa razza degenerata.
— Goretto! — chiamò una donna nel giardino attiguo, mentre battevo le ali e arrotavo il becco, come se già avessi davanti coloro che mi avevano crudelmente spelacchiato.
Udendo quel grido… quel nome, rimasi estatico colle ali spiegate e ferme, e col becco spalancato.
— Goretto! Goretto — ripeté la donna: Commosso e sorpreso volai sopra un gattice del giardino accanto.
A prima giunta, non vidi che una signora la quale faceva sventolare in aria un fascicolo, imitando scherzosamente la cantilena dei giornalai.
— Eccolo il giornale dei bambini… eccolo il giornale… — gridava.
— Il giornalino! Il giornalino! — dissero tutti insieme battendo le mani quattro o cinque ragazzi che sbucarono di sotto un pergolato e giunsero di volo dalla signora, col mio Goretto — il più piccino di tutti — in capofila.
Quanto era carino e vispo, lui! Certe gambette svelte… lunghe… una vivacità nella fisonomia, nei movimenti!…
Comparve e sparì lasciandomi là, con tanto di becco.
Uno dei ragazzi più grandi aveva preso in fretta e furia con aria di padronanza il giornale, ed erano rientrati tutti sotto il pergolato, mentre Goretto, stando addosso al ragazzo manifestava viva ansietà di vedere, di leggere.
Per qualche momento udii grandi scoppi di risate, un frastono di voci diverse che venivano dal pergolato, eppoi più nulla. Aspettai, aspettai, ma non rividi più nessuno. Per quel giorno, fui felice e indispettito al tempo stesso.
Presi stabile dimora sul gattice ma il caro ragazzino non si fece più vedere. Dopo qualche giorno che non mi ero mosso un momento dal giardino, ero veramente indispettito della contrarietà. Imprecavo alla mia sorte… mi arrabbiavo. Essermi sfuggita subito la felicità di vedere il mio Gorettino, era crudele, proprio crudele. Perfino le parole dell’ometto vestito di nero, non mi inebriavano più.
Stando in questa penosa aspettazione mi accadde un fatto che poteva avere per me ben triste conseguenze. Voglio narrarlo. Il terreno di quel luogo m’era stato avarissimo di lombrichi e di tutti quegli insetti, dei quali se noi uccelli non facessimo strage per nutrirci, si moltiplicherebbe spaventevolmente il numero, con danno della vegetazione, sicché oltre l’angoscia dell’aspettare senza effetto, soffrivo quasi la fame.
Avevo un bel girare sui tronchi degli alberi, posarmi su questa e quella pianta, aguzzare la vista per discernere qualche loro uovo, un bell’essere esperto a scuoprirli nei ricoveri più nascosti; lombrichi e altri insetti, non me ne capitavano che scarsissimo numero.
Ma ecco che mi pare di vedere un verme, muoversi sul terreno. Mi slancio là sopra, batto forte le ali e mi rialzo inorridito del pericolo che ho corso.
Era una talpa che mi faceva la caccia, agitando un tantino il muso alla superficie della sua tana, e che mi avrebbe ghermito, se non fossi stato assai pronto a rialzarmi.
Questi animali, sotterranei per eccellenza, riescono qualche volta ad acchiapparci con quell’inganno. Tentano forse vendicarsi, perché mangiamo i lombrichi dei quali essi sono ghiotte, quanto i bambini dei dolci.
Oltre a fare la guerra ai topi che vivono nelle buche e nelle fessure del terreno, girano attorno alle radici delle piante e distruggono tutti gli insetti che vi si generano, ma i lombrichi sono il loro boccone prelibato.
Essendo esse zelanti protettrici dell’agricoltura, come siamo noi, che sterminiamo formiche, farfalle, mosche, zanzare e bachi d’ogni sorta, dovrebbero darci la mano come a dei buoni amici; ma secondo me, avide troppo di quelli insetti, non ci perdonano di andarne in cerca anche noi.
La fame crescendo maggiormente e avendo ormai perduto la speranza che Goretto tornasse in quel giardino, determinai tentare di rinvenirlo altrove.
Il pensiero di ricercare il caro e piccolo amico, aveva quasi sopito ogni altro bisogno del mio cuore; ma non posso nascondere che anche la speranza di ritrovare un certo passerotto, che avevo veduto svolazzarmi attorno qualche giorno innanzi, non influisse a farmi spiccare il volo.
Andai a fermarmi sopra altri giardini, su tutte le finestre e case del paese; col desiderio di Goretto, spingevo lo sguardo dentro le stanze, vedevo bambini più o meno grandi, ma lui non lo scorgevo.
Un momento! Mi batte il cuore forte forte… mi avvicino meglio ad un pian terreno… è lui… è lui!… Ma spietato d’un destino!! Goretto sparisce di nuovo.
Come può credersi, questo pian terreno, e più specialmente la stanza, entro la quale ho veduto il bambino, eccita molto la mia curiosità. C’è tanta gente là dentro che scrive… vi discerno fogli sui tavolini… in terra… lettere aperte, lettere chiuse. Delle cataste di fascicoli uguali al fascicolo che faceva svolazzare quella signora.
La stanza comunica con una corte per mezzo di uno sporto. Mi butto su questo e al tempo stesso eccoti a gettarsi lì il caro passerottino che non avevo mai più riveduto. Ho subito il cuore diviso fra lui e Goretto. Non vorrei che esso mi sfuggisse, e non vorrei perdere d’occhio la stanza.
Mi poso sulla soglia, poi svolazzo qua e là per la corte ove lui pure svolazza: poi torno sulla soglia, batto la coda, mi spennacchio, fo il bello; e saltellando, mi volto da destra e da sinistra, perché vegga tutte le mie bellezze: lui cinguetta, cinguetta e scodinzola.
Intanto guardo e ascolto. Intanto comprendo che là si dirige il giornale dei bambini; che vi si fanno gli abbuonamenti. Mi si presenta di subito alla fantasia Goretto che va a comprarsi il giornalino, che lo guarda, lo legge con attenzione e… mi viene un’idea!
Un desiderio intenso ma indefinito mi fa dare una volata dentro la stanza, intorno ad uno dei banchi sui quali scrivono; ma tutti gli occhi essendo posati su me, scappo via, palpitando di paura.
Il mio compagno mi ha aspettato tutto tremante, mi ha chiamato con voce di pianto; e nella gioia di rivedermi salvo, mi promette un tenero amplesso.
Spicchiamo il volo ambedue, stando uno vicino all’altro. Sebbene contento d’essere amato dal mio caro amico, l’idea concepita non mi abbandona; torno più volte nella corte — per me di felice memoria — più volte fuggo e ritorno; finché trovo finalmente la stanza libera, prendo possesso d’uno dei banchi e confidando molto nella cortesia di chi dirige il giornalino, scrivo questa storia per divertire il mio Goretto, mentre gli faccio sapere che gli voglio tanto bene e che non cesserò mai di esaltare il suo nome nel mondo dei passerotti.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La Vita d’un Passerotto raccontata da lui medesimo
AUTORE: La Zia Stefania
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti