Come spesso accade per le opere teatrali di Pirandello, il testo è ispirato a sue novelle. In questo caso si tratta de I pensionati della memoria (1914) e La camera in attesa (1916). La prima rappresentazione de La vita che ti diedi avvenne nell’ottobre 1923 al Teatro Quirino di Roma con la compagnia di Alda Borelli. Il dramma era stato pensato per Eleonora Duse, profonda interprete del teatro moderno, allora in ultima tournée negli Stati Uniti e che morì a Pittsburgh nell’aprile 1924. Il testo teatrale fu poi pubblicato nel 1924 da Bemporad. Un’altra messa in scena, nel 1942, ebbe come protagonista Paola Borboni.

«A noi stessi e alla vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà. […] No, no, cari signori, [il ricordo] quella era una realtà mia, unicamente mia, che non può cangiare né perire, finché io vivrò, che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza di eternarla in qualche pagina…» (I pensionati della memoria, in “Le grandi firme” 1 novembre 1924 pp. 30-32)

Il dramma è considerato far parte del periodo creativo di Pirandello definito del ‘teatro nel teatro’: l’autore fa ‘cadere’ la quarta parete del palcoscenico, quella rivolta verso il pubblico, in modo da rendere questo molto più coinvolto nell’azione scenica. Non si tratta di una innovazione dell’autore siciliano; molti esempi di questa tecnica metateatrale già si trovano ad esempio in Shakespeare. Ma in Pirandello questa nuova concezione del teatro aprì un periodo di grandi opere a partire dal suo testo forse più famoso: Sei personaggi in cerca d’autore (1921).

L’azione si svolge nel giro di pochissimi giorni, «in una villa solitaria della campagna toscana. Oggi», con una stretta unità di luogo: la scena è un ambiente di rappresentanza della casa, nei pressi di una camera da letto, nella quale sta morendo il figlio di Donna Anna Luna, giovane uomo, vissuto lontano negli ultimi sette anni. Qui l’idea del teatro nel teatro si realizza nella divisione virtuale del palcoscenico tra la sala in cui accade ciò di cui sono testimoni e partecipi le attrici, gli attori ed il pubblico e la stanza accanto, dove il giovane muore e dalla quale il pubblico è escluso.

Tema centrale del dramma è la relazione tra l’amore di una madre e la morte di suo figlio. Il tema provoca profonde riflessioni e coinvolge, nel suo svolgimento, altri elementi tra i quali il senso della memoria, il valore della consuetudine, il sentimento della lontananza, il trascorrere del tempo. Donna Anna infrange le regole non accettando i comportamenti che la consuetudine e la religione le suggeriscono di fronte alla tragedia. Dio ha dato una vita a suo figlio, Dio gliela può togliere. Ma, dichiara Anna, questo non influisce sulla sua vita di madre, vita di cui ha nutrito e nutre suo figlio; di questa solo lei può decidere, può determinare il momento della fine.

Questo modo di sentire la morte del figlio ovviamente all’inizio è considerato dagli astanti una manifestazione di alterazione mentale, ancorché comprensibilissima. Ma Donna Anna difende con laceranti argomentazioni la sua tesi: è la madre che è capace di mantenere, continuando a donargli la sua, la vita del figlio partito e fattosi uomo lontano dai suoi occhi; è la madre che può decidere che ora non è vera morte: il figlio ora è di nuovo lontano e tornerà; quel corpo steso sul letto non è lui. Il buon parroco le suggerisce di “vivere nel ricordo”, ma:

«Sì, don Giorgio; ma [il ricordo] è come una morte per me. Se non ho mai, mai vissuto d’altro? se non ho altra vita che questa ‒ l’unica che possa toccare: precisa, presente ‒ lei mi dice «ricordo», e subito me l’allontana, me la fa mancare.»

Suo figlio non può più vivere di quella vita che Dio gli ha voluto donare e che ora gli ha tolta;

«ma di quella che gli ho data io, sì, sempre! Questa non gli può finire finchè la vita duri a me.» «Ma sì che egli è vivo per me, vivo di tutta la vita che io gli ho sempre data: la mia, la mia; non la sua che io non so! Se l’era vissuta lui, la sua, lontano da me, senza che io ne sapessi più nulla. E come per sette anni gliel’ho data senza che lui ci fosse più, non posso forse seguitare a dargliela ancora, allo stesso modo? Che è morto di lui, che non fosse già morto per me?»

Tuttavia non si vive solo della vita di una madre. Esiste, a volte, dopo, qualcosa… Tutto questo naturalmente secondo Pirandello.

L’autore nel testo, come è consueto, detta le indicazioni per attrici ed attori, fino allo straordinario:

«Non abbiano, per carità, i comici timore del silenzio, perchè il silenzio parla più delle parole in certi momenti, se essi lo sapranno far parlare.»

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del dramma:

ATTO PRIMO
Stanza quasi nuda e fredda, di grigia pietra, nella villa solitaria di Donn’Anna Luna. Una panca, uno stipo, una tavola da scrivere, altri pochi arredi antichi da cui spira un senso di pace esiliata dal mondo. Anche la luce che entra da un’ampia finestra pare provenga da una lontanissima vita. Un uscio è in fondo e un altro nella parete di destra, molto più prossimo alla parete di fondo che al proscenio.
Al levarsi della tela, davanti all’uscio di destra che immette nella stanza dove si suppone giaccia moribondo il figlio di Donn’Anna Luna, si vedranno alcune donne del contado, parte inginocchiate e parte in piedi, ma curve in atteggiamento di preghiera, con le mani congiunte innanzi alla bocca. Le prime, quasi toccando terra con la fronte, reciteranno sommessamente la litania per gli agonizzanti; le altre spieranno ansiose e sgomente il momento del trapasso e a un certo punto faranno segno a quelle d’interrompere la litania e, dopo un breve silenzio d’angoscia, s’inginocchieranno anch’esse e ora l’una ora l’altra faranno le invocazioni supreme per il defunto.

Scarica gratis: La vita che ti diedi di Luigi Pirandello.