Il medico miracoloso
John Silence
Caso III. La vendetta del fuoco
di
Algernon Blackwood
tempo di lettura: 118 minuti
CASO III La vendetta del fuoco
I
Con certi mezzi che non ho mai potuto sondare, il Dr. Silence cercava sempre di tenere lo scompartimento per sè, e poichè il treno doveva percorrere un tratto di due ore prima di arrivare alla fermata successiva, c’era tempo da dedicare ai fatti preliminari del caso. Mi aveva telefonato quella stessa mattina e, attraverso il filo metallico, avevo sentito vibrare nella sua voce il brivido di un’avventura eccezionale.
«Come se si trattasse di una semplice visita ad un paese», aveva detto in risposta alla mia domanda; «e non dimenticate di portare il fucile».
«Con cartucce a salve, suppongo!» poichè conoscevo che i suoi severi principî gli vietavano di togliere comunque la vita, e riteneva che i fucili occorressero soltanto per una finta o a scopo precauzionale.
Mi ringraziò della promessa che gli feci di raggiungerlo, precisò il treno, appese il ricevitore, e mi lasciò vibrante d’eccitazione, nell’aspettativa, a preparare il mio bagaglio. L’onore di accompagnare il Dr. Silence ad uno dei suoi importanti casi era qualche cosa che molti avrebbero considerato un onore inutile e piuttosto rischioso. Certo, l’avventura aveva possibilità di ogni genere, e io arrivai alla stazione di Waterloo coi sentimenti di un uomo che stava per avventurarsi in qualche missione pericolosa in cui i pericoli da affrontare non sono quelli ordinari per la vita e la salvezza del corpo, ma di carattere più segreto e difficile a determinare, e tanto più difficile ad affrontare.
«’Castello’ è una parola forte», mi disse, quando ci trovammo seduti, con le gambe distese. «Credo sia poco più di uni fattoria incolta nella desolata landa di eriche oltre ’D’… Il suo proprietario, il Colonnello Wragge, un soldato a riposo, bibliofilo, vi vive si può dire da solo, cioè, con una sorella anziana invalida. Non occorre perciò che vi prepariate ad una visita vivace, ammenochè il caso non tenga in serbo qualche eccitazione particolare».
«Il che è probabile?».
A guisa di risposta, egli mi diede da leggere una lettera con l’indicazione «riservata». Recava la data di una settimana prima e la firma «vostro dev.mo Horace Wragge».
«Ha saputo di me, vedete, per mezzo del Capitano Anderson», spiegò modestamente il dottore, come se la sua fama non fosse quasi mondiale; «ricordate quel caso indiano d’ossessione?…».
Lessi la lettera. Perchè portasse l’indicazione «riservata» era difficile capire. Era assai breve, rapida, concisa. Si riferiva, come introduzione, al Capitano Anderson, e dichiarava poi, con tutta semplicità, che lo scrivente aveva bisogno d’un aiuto di genere particolare e chiedeva un incontro personale, di mattina, dato che gli era impossibile assentarsi da casa di sera. La lettera era in uno stile dignitoso sino all’asprezza, e l’autore mi dava l’impressione d’un uomo forte, abbattuto e preoccupato. Forse ne era causa l’impressione di terrore, e il mistero dell’avventura. Il riferimento al caso di Anderson, l’orrore del quale è ancor vivo nella mia memoria, può aver influito sull’impressione di qualche cosa di piuttosto allarmante. Ma, qualunque ne fosse la causa, non vi era dubbio che un’impressione di serio pericolo sorgeva in qualche modo da quella carta bianca con le poche righe in una calligrafia ferma. Uno spirito di profondo disagio aleggiava dalle parole e colpiva la mente senza visibile forma di espressione.
«E quando lo avete visto…», chiesi nel rendergli la lettera, mentre il treno correva rapidamente attraverso Clapham-Junction.
«Non l’ho visto», fu la risposta. «La mente dell’uomo era evidentemente colma da traboccare quando scriveva questo, piena di vivide immagini mentali. Notate la concisione. Nel carattere principale di questo caso la psicometria potrebbe trovare vasta applicazione, e il pezzetto di carta che le sue mani hanno toccato basta a comunicare a un’altra mente, una mente sensitiva e partecipe, delle chiare immagini mentali di quanto accade. Penso di avere già un’idea generale abbastanza chiara in merito a questo problema».
«Sarà una cosa interessante, allora?».
Il Dr. Silence attese un momento prima di rispondere.
«Vi è qualche cosa di assai serio», disse infine con gravità. «Qualcuno… non lui stesso, per quanto mi risulta,… ha manipolato con un tipo di polvere da sparo. E allora… già, sarà una cosa interessante, come voi dite».
«E il mio compito?» domandai, con interesse sempre più vivo. «Ricordate che sono vostro ’assistente’».
«Comportatevi come un segretario intelligente e fidato. Osservate ogni cosa, senza averne l’aria. Non dite nulla… nulla che significhi qualche cosa. Siate presente a tutti i colloqui. Potrò esigere parecchio da voi, poichè se le mie impressioni sono esatte si tratta di…».
S’interruppe di colpo.
«Non vorrei ancora dirvi le mie impressioni», concluse, dopo un momento di riflessione. «Vigilate soltanto, e ascoltate, mentre il caso si svolgerà. Formatevi le impressioni vostre e affinate le vostre intuizioni. Arriveremo come visitatori comuni, naturalmente», soggiunse, ammiccando per un momento con l’occhio; «poi, i fucili».
Benchè deluso di non poter apprendere di più, riconobbi la saggezza delle sue parole. Sapevo per esperienza quanto prive di valore sarebbero state le mie impressioni una volta che la potente suggestione del conoscer le sue le avesse sopraffatte. Ritenevo inoltre che l’intuizione abbinata a un poco di immaginazione, recasse maggiore profitto che non il raddoppiamento quantitativo della potenza intellettuale.
Prima di riporre la lettera, tuttavia, egli me la rimise in mano, dicendomi di premerla contro la mia fronte per qualche istante, e di descrivergli poi qualsiasi immagine mi si fosse spontaneamente presentata alla mente.
«Non cercate intenzionalmente qualche cosa. Figuratevi soltanto di vedere l’interno delle vostre palpebre, e attendete le immagini che sorgeranno dietro di esse».
Seguii le sue istruzioni, rendendo la mia mente per quanto possibile, vuota. Ma nessuna visione si presentò. Non vidi altro che le linee di una luce che passavano qua e là come i cambiamenti di un caleidoscopio attraverso il buio. Una momentanea sensazione di calore venne e svanì subito, curiosamente.
«Che cosa vedete?», chiese.
«Nulla», fui costretto a confessare deluso; «null’altro che i soliti guizzi di luce. Soltanto che, forse, sono più vivi del solito».
Non disse nulla, nè a titolo di commento nè come risposta.
«Si raggruppano, ora», continuai, con penoso candore, poichè avrei desiderato vedere le immagini di cui aveva parlato, «si raggruppano a globi e palle rotonde di fuoco. Le linee che ogni tanto vi guizzano intorno, sembrano triangoli e croci… quasi come delle figure geometriche. Null’altro».
Riaprii gli occhi, e gli resi la lettera.
«Questo mi riscalda la testa», dissi, scontento di non aver visto nulla di interessante. Ma lo sguardo dei suoi occhi richiamò subito la mia attenzione.
«Questa sensazione di calore è importante», disse con accento significativo.
«Questa era certamente reale, e piuttosto sgradevole», risposi, sperando che si sarebbe diffuso e avrebbe spiegato. «C’è stata una sensazione distinta di calore… di calore interno in qualche parte… oppressiva in un certo senso».
«Interessante!», osservò rimettendosi la lettera in tasca, e sistemandosi nell’angolo con giornali e libri. Rimase assorto; sapevo ch’era inutile, ormai, ogni tentativo di farlo parlare. Seguendo il suo esempio, mi misi pure io a sfogliare le riviste. Quando richiusi gli occhi per vedere guizzare le luci e riprovare la sensazione di calore, non vidi nulla, tranne la solita fantasmagoria degli avvenimenti del giorno: facce, scene, ricordi. Poi, naturalmente, mi addormentai e non vidi più nulla.
Scendemmo dal treno, dopo un viaggio di sei ore, a una piccola stazione di passaggio, situata in uno spiazzo, senza alberi, in un paesaggio di sabbia e di eriche. Le ombre del tardo ottobre avevano già disteso il loro oscuro velo dovunque, e il sole declinava dietro le colline della brughiera. Sistemati in un’alta carretta, dietro un veloce cavallo, ci facemmo subito portare, con fracasso e scosse, attraverso i tratti ondulati di una plaga aperta e squallida, mentre il vento freddo e penetrante ci punzecchiava le gote, e l’aria profumata di pino e di torba ci avvolgeva, deliziandoci. Colline brulle erano visibili, indistinte, contro l’orizzonte, e il cocchiere puntò verso un rilievo di ombre alla nostra sinistra, dove, ci disse, si stendeva il mare. Poche fattorie di pietra, lontane dalla strada, disperse fra gli abeti, e grandi capanne nere che sembravano scivolare accanto a noi con strani movimenti nel buio, rappresentavano gli unici segni d’umanità e di civilizzazione, finchè, dopo cinque leghe, i lumi di uno steccato tremolarono davanti a noi e ci sprofondammo in un folto viale di pini che ci nascosero il castello sino al momento del nostro arrivo.
Il Colonnello Wragge in persona ci venne incontro nell’atrio. Era la figura tipica di soldato che aveva prestato servizio, servizio vero, e che si era trovato in linea. Era alto di statura, ben piantato, dalle spalle larghe, ma scarno come un levriero, con gli occhi gravi, alquanto austeri, e coi baffi volgenti al grigio. Giudicai avesse circa sessant’anni, ma i suoi movimenti avevano una flessuosità mista di forza e di agilità, che contrastava con gli anni. Il volto era pieno di carattere e di risoluzione; il volto d’un uomo di cui ci si poteva fidare. Gli occhi grigi, diritti, mi sembravano velati di ansia perplessa, che non faceva alcun tentativo di dissimulare. L’aspetto dell’uomo dava subito all’avventura un tono di gravità e di importanza. Sentivo che, una faccenda che a un uomo di quella fatta desse motivo di serio allarme, doveva avere una base ben solida e una costituzione genuina.
Il suo modo di parlare e di comportarsi nel darci il benvenuto, fu, come la sua lettera, semplice e sincero. Era di natura rettilinea ed estranea ad ogni deviazione, come una palla da fucile. Perciò, non nascose la sua sorpresa per il fatto che il Dr. Silence non era venuto solo.
«Il mio segretario di fiducia, Signor Hubbard», disse il dottore, presentandomi. Lo sguardo fisso e la potente stretta di mano che mi ebbi, mi confermarono nell’impressione di aver a che fare con un uomo che non poteva essere preso alla leggera, e la cui perplessità doveva aver origine da una causa reale e tangibile. Com’era naturale, si sentiva sollevato per il nostro arrivo. Il suo benvenuto era indubbiamente sincero.
C’introdusse subito in una stanza, metà biblioteca, metà sala da fumo, che si apriva sull’atrio dal soffitto basso. Il castello dava l’impressione di una fattoria sperduta, solida, antica, comoda, e del tutto priva di pretese, che per qualche ragione particolare fosse stata eretta a monumento storico. Così era infatti. Soltanto, il calore di quel luogo mi colpiva come una cosa non naturale. Quella stanza col fuoco divampante poteva sembrar calda da far star male, dopo la lunga corsa nell’aria notturna. Eppure, mi sembrava che l’atrio stesso, e tutta l’atmosfera della casa, respirassero un calore che difficilmente proveniva da camini ben carichi o da tubi di aria e acqua calda. Non era il calore della serra; era un calore opprimente che in qualche modo entrava nella testa e nella mente. Eccitava in me un curioso senso di disagio, e ritornai col pensiero alla sensazione del calore che emanava dalla lettera, nel treno.
Sentii che ringraziava il Dr. Silence per essere venuto. Lo scambio dei convenevoli fu breve. Evidentemente era un uomo che, come il mio compagno, amava l’azione più delle parole. I suoi modi erano precisi e perentori. Vedevo che era confuso, oppresso, tormentato da uno stato di allarme per qualche cosa che non poteva comprendere; costretto ad avere a che fare con cose che avrebbe preferito trascurare. Eppure, affrontava tutto ciò con ostinato impegno, non facendo nessun tentativo di nascondere la vergogna che sentiva per la sua incompetenza.
«Non posso offrirvi molto svago, oltre a quello della mia compagnia, e naturalmente, oltre allo strano affare che qui si è verificato, e che tuttora si ripete», disse, con una lieve inclinazione della testa verso di me, come per includermi nella sua confidenza.
«Credo, Colonnello», rispose il Dr. Silence, «che nessuno di noi troverà il tempo lungo e pesante. Sono convinto che avremo da occuparci intensamente».
I due uomini si guardarono per un istante. C’era qualche cosa di indefinibile nel loro silenzio, che in un primo tempo fece sorgere un’improvvisa domanda nella mente. Mi rimproveravo un poco per la mia avventatezza nell’essermi immischiato in un caso di tanta gravità con quel dottore tanto singolare. Ma a ritirarmi, ormai, non era naturalmente neanche da pensarci. I ponti erano tagliati, dietro di me, e lo spirito dell’avventura mi occupava già la mente con la sua avanguardia di piccole speranze e paure.
Spiegando che avrebbe atteso sino a dopo cena per discutere qualche cosa di serio, dato che nessun accenno ne aveva mai fatto davanti a sua sorella, il nostro ospite ci condusse personalmente alle nostre stanze. Proprio quando stavo per finire di vestirmi, entrò il Dr. Silence.
Era sempre ciò che si dice un uomo serio, tanto che, perfino nei momenti di commedia, non perdeva mai la profonda gravità del suo aspetto, ma mentre attraversò la stanza per raggiungermi, colsi l’espressione del suo volto e compresi in un lampo che si trovava in uno stato d’animo di estrema serietà. Sembrava quasi turbato. Lo guardai sorpreso, mentre stavo allacciandomi la cravatta nera.
«È veramente un caso serio», disse, parlando con voce bassa, «anche più serio di quanto immaginassi. La padronanza che il Colonnello Wragge ha sui suoi pensieri ha pregiudicato in gran parte la mia psicometria della lettera. Sono entrato per mettervi in guardia, perchè facciate molta attenzione a voi stesso… parlo così in generale».
«È una casa infestata?» chiesi, sentendo scorrermi un lungo brivido giù per la schiena.
Sorrise gravemente alla mia domanda.
«Una casa infestata di vita, molto probabilmente», rispose, e vidi nei suoi occhi quella espressione che solo vi scorgevo quando un’anima umana si trovava nei guai ed egli era proteso nella lotta per liberarla. Era agitato fino in fondo al suo essere.
«Il Colonnello Wragge… o la sorella?» domandai in fretta, perchè suonava il gong.
«Nessuno dei due, direttamente», disse guardandomi. «Qualche cosa di assai più antico, qualche cosa di antichissimo, anzi. Questa cosa riguarda i millenni, a meno che non mi sbagli di grosso, dei millenni su cui le nebbie della memoria sono rimaste indisturbate per molto tempo».
Si avanzò rapidamente attraverso la camera, con un dito sulle labbra, guardandomi con occhio intento e scrutatore.
«Avvertite qui qualche cosa di… strano?» domandò sottovoce. «Qualche cosa che non potete bene spiegare, ad esempio? Parlate, Hubbard, perchè ho bisogno di conoscere tutte le vostre impressioni. Esse potranno aiutarmi».
Scossi la testa, evitando il suo sguardo, poichè c’era qualche cosa nei suoi occhi che mi spaventava un poco. Ma era talmente grave, che mi misi d’impegno e cercai bene nella mia mente.
«Nulla ancora», risposi con sincerità, desiderando di poter riferire qualche cosa di realmente emozionante; «nulla, all’infuori dello strano calore del luogo».
Fece un piccolo balzo in avanti, verso di me.
«Il calore di nuovo, per l’appunto!» esclamò, quasi contento della mia conferma. «E come lo descrivereste, ad esempio?».
«Non sembra ordinario calore fisico», dissi, rovistando nei miei pensieri per arrivare a una definizione.
«Piuttosto un calore mentale», interruppe, «un ardore di pensiero e di desiderio, una specie di calore di febbre dello spirito. Nevvero?».
Ammisi che aveva esattamente reso le mie sensazioni.
«Bene!» disse aprendo la porta, e con un gesto indescrivibile che era ad un tempo segno di ammonimento di tenermi pronto e segno di compiacimento per il mio esatto intuito, se ne andò.
Mi affrettai a raggiungerlo e trovai i due uomini ad attendermi di fronte al fuoco. «Devo mettervi in guardia», disse il nostro ospite, mentre entravo, «che mia sorella, che incontrerete a cena, non è al corrente del vero scopo della vostra visita. Si trova sotto l’impressione che siamo tutti interessati ad uno stesso ramo di studio, quello del costume, e che le vostre ricerche vi abbiano indotti a cercare la mia conoscenza. Viene a cenare nella sua poltrona. Sarà un gran piacere per lei di incontrarvi entrambi. Abbiamo pochi visitatori».
Entrando nella sala da pranzo eravamo così preparati a trovare Miss Wragge già al suo posto, seduta in una specie di sedia sdraio. Era una vecchia signora, vivace e simpatica, con una espressione sorridente e con gli occhi luminosi. Chiacchierò durante tutto il pasto con inesauribile spontaneità. Aveva quel volto fresco e senza rughe, che alcune persone conservano attraverso la vita, dalla culla sino alla tomba; le sue guance soffici e pienotte erano rosee e bianche, i suoi capelli, ancora scuri, erano divisi in due metà lucide e lisce da un’accurata discriminatura. Portava occhiali orlati d’oro, e al collo un grande scarabeo di diaspro verde che formava uno spillone di ottimo gusto.
Suo fratello e il Dr. Silence parlavano poco, cosicchè la massima parte della conversazione si svolgeva fra lei e me. Mi raccontò molte cose intorno alla storia di quella vecchia casa, ma temo di avere ascoltato solo a metà quello che mi diceva.
«Poi si è fermato qui Cromwell», chiacchierava sempre la signora. «Occupava le stesse stanze di sopra che occupavo io una volta. Ma mio fratello crede che sia ora più sicuro farmi dormire al pianterreno, per l’eventualità di un incendio».
Questa frase mi è rimasta impressa nella memoria soltanto per il modo improvviso con cui suo fratello la interruppe e portò subito la conversazione su un altro argomento. L’accenno, per quanto di passaggio, a un incendio, sembrava averlo disturbato, e da quel momento la conversazione fu sostenuta da lui.
Era difficile credere che quella vecchia signora, vivace e animata, seduta accanto a me, che prendeva un interesse tanto ardente alle vicende della vita, fosse praticamente, come comprendemmo, privata dell’uso delle estremità inferiori, e che tutta la sua esistenza per anni si fosse svolta fra il divano, il letto e la poltrona nella quale chiacchierava con tanta naturalezza a tavola. Essa non fece alcuna allusione alla sua disgrazia, finchè la cena fu finita. Allora, premendo un campanello, essa si fece spingere fuori dal maggiordomo, sulla sua poltrona a rotelle, per raggiungere le sue stanze, all’altra estremità della casa.
Noi non tardammo molto a seguire l’esempio, poichè io e il Dr. Silence eravamo altrettanto impazienti di conoscere la natura della nostra incombenza, quanto il nostro ospite era ansioso di comunicarcela. Ci condusse perciò, attraverso un lungo corridoio, ad una stanza sul lato opposto della casa, una stanza provvista di porte a due battenti, e di finestre dalle pesanti imposte. Libri rivestivano le pareti su ogni lato, e su un’ampia scrivania nella finestra ad arco erano ammonticchiati altri volumi, in parte aperti, in parte chiusi, in parte con dei pezzi di carta inseriti tra le pagine, il tutto in una confusione quasi indescrivibile.
«Il mio studio e stanza di lavoro», spiegò il Colonnello Wragge, con un gesto di compiacenza, come se fosse uno studioso molto serio. Collocò per noi delle poltrone intorno al fuoco. «Qui», soggiunse con tono significativo, «saremo al sicuro da interruzioni e potremo parlare liberamente».
Durante la cena i modi del dottore erano stati del tutto naturali e spontanei, benchè fosse impossibile per me, così come lo conoscevo, di non accorgermi che nel sub-cosciente stava vigile e in guardia e già ricevendo sulla superficie ultra-sensitiva della sua mente impressioni assai vivide. Vi era ora qualche cosa nella gravità del suo volto, come pure nel tono significativo della voce del Colonnello Wragge, e qualche cosa pure nel fatto che noi tre ci trovavamo appartati in quella camera riservata, in procinto di ascoltare cose probabilmente assai strane, e certamente misteriose, qualche cosa che toccava sensibilmente la mia immaginazione e scuoteva i miei nervi con un brivido evidente. Prendendo posto sulla sedia assegnatami dall’ospite, accesi il sigaro e attesi l’inizio dell’attacco, pienamente cosciente che ci eravamo ormai troppo inoltrati nell’avventura per potercene ritrarre, e chiedendomi con un po’ di ansia dove l’avventura stessa ci avrebbe condotti.
Che cosa esattamente mi attendessi, è difficile dire. Nulla di definito, forse. Soltanto, l’improvviso cambiamento era drammatico. Poche ore prima mi avvolgeva la prosaica atmosfera di Piccadilly. Ora sedevo in una camera segreta di un’antica costruzione fuori mano, in attesa di udire un racconto di cose che forse contenevano un’autentica nota di terrore. Pensai alle tristi brughiere e alle colline di fuori, e alle tetre pinete cedue sospiranti nel vento notturno; ricordai le singolari parole del mio compagno su nella stanza da letto prima della cena; e mi volsi ad osservare attentamente il contegno del colonnello mentre si metteva in faccia a noi e accendeva il suo grosso sigaro scuro, prima di parlare.
L’inizio di un’avventura, riflettei, mentre attendevo le sue parole, rappresenta sempre il momento più raccapricciante… finchè arriva il punto cruciale.
Ma il Colonnello Wragge indugiò, mentalmente, per alquanto tempo, prima di cominciare. Parlò brevemente del nostro viaggio, del tempo, del paese, di altri argomenti indifferenti, mentre frugava nella mente per trovare un’introduzione adatta all’argomento che dominava i pensieri di noi tutti. Il fatto è che trovava difficile parlarne in un modo qualsiasi, e fu il Dr. Silence che finalmente lo trasse d’impaccio.
«Il signor Hubbard si farà qualche annotazione quando sarete pronto… se nulla avete in contrario», suggerì; «in questo modo io potrò dedicare tutta la mia attenzione al vostro racconto».
«Ad ogni modo…», disse volgendosi a prendere alcuni fogli volanti sulla scrivania, e guardandoci. Esitava ancora. «Mi chiedo», disse in tono di scusa, «se sia giusto da parte mia disturbarvi tanto presto. La luce del giorno potrebbe essere più propizia perchè porgiate attenzione a quanto ho da dire. Il vostro sonno, credo, sarebbe meno disturbato, forse».
«Apprezzo il vostro scrupolo», rispose il Dr. Silence con gentile sorriso, assumendo, per così dire, il comando da quel momento, «ma, realmente, siamo entrambi preparati. Non c’è nulla, credo, che possa impedirci, nè l’uno nè l’altro, di dormire,… eccetto, lo scoppio di un incendio, o qualche disturbo fisico del genere».
Il Colonnello Wragge alzò gli occhi e lo guardò fisso. Ero certo che quell’accenno allo scoppio di un incendio fosse fatto intenzionalmente. Certo valse a dissipare nel nostro ospite gli ultimi segni di esitazione.
«Perdonatemi», disse. «Naturalmente, non so nulla dei vostri metodi in faccende di questo genere… Allora, vorreste, forse, che cominciassi subito e vi dessi un riassunto della situazione?».
Il Dr. Silence s’inchinò in segno di consenso. «Potrò allora prendere le mie precauzioni del caso», soggiunse con calma.
Il Colonnello levò lo sguardo per un attimo, come se non avesse pienamente afferrato il senso di quelle parole; ma non fece ulteriori obiezioni; ed entrò subito in argomento, malgrado l’evidente avversione e diffidenza che ne sentiva.
«Si tratta di una cosa talmente straordinaria», cominciò, «e c’è tanto poco da dire con qualche reale evidenza, che è quasi impossibile farvene un racconto attendibile. È l’effetto totale e comprensivo che si presenta così… così inquietante». Sceglieva le parole con cura, determinato a non lasciarsi andare neanche per un filo al di là del vero.
«Sono venuto qui vent’anni or sono, alla morte del mio fratello maggiore», continuò, «ma non avevo mezzi sufficienti per vivere qui, allora. Mia sorella, che avete visto a cena, ha tenuto la casa per lui sino alla fine. Durante tutti questi anni, mentre prestavo servizio all’estero, essa ha tenuto d’occhio questo luogo, perchè non abbiamo mai trovato un fattore soddisfacente e si è preoccupata che non andasse in rovina. Quanto a me, invece, ne ho preso possesso soltanto un anno fa.
«Mio fratello», continuò, dopo una pausa, «ha passato anche pure lui molto del suo tempo all’estero. Era un grande viaggiatore, e riempiva la casa di materiale che portava dai suoi viaggi in tutto il mondo. La lavanderia, una piccola costruzione staccata vicino alle abitazioni della servitù, è stata da lui trasformata in un piccolo museo. I cimeli e le cose in generale le ho fatte sgombrare… vi si accumulava la polvere e si rompevano ad ogni momento… ma la lavanderia la vedrete domani.».
Il Colonnello Wragge parlava con tanta deliberazione e tante pause che questo inizio gli costò parecchio tempo. A questo punto si interruppe del tutto. Evidentemente, vi era qualche cosa che desiderava di dire, ma che gli costava un grande sforzo. Infine, guardò fermamente nel volto del mio compagno.
«Posso chiedervi… beninteso, se non lo riterrete strano», disse, e la sua voce e i suoi modi parvero attenuarsi, «se non avete notato qualche cosa di insolito… qualche cosa di straordinario, quando siete questa casa?».
Il Dr. Silence rispose senza un attimo di esitazione.
«Sì», disse. «C’è una curiosa sensazione di calore in questo luogo».
«Ah!» esclamò l’altro, con un lieve sussulto. «Allora lo avete notato. Questo inesplicabile calore…».
«Ma la sua causa, mi risulta, non si trova nella casa… bensì fuori», fui sorpreso di sentire affermare da parte del dottore.
Il colonnello si alzò dalla sedia e si volse per sganciare una carta topografica incorniciata che pendeva dal muro. Ebbi l’impressione che il movimento fosse dovuto al suo deliberato proposito di nascondere il proprio viso.
«La vostra diagnosi, sorprende per la sua esattezza», disse dopo un momento, volgendosi con la carta topografica in mano. «Benchè, naturalmente, non posso avere un’idea di come possiate supporlo…».
Il Dr. Silence si strinse nelle spalle.
«È unicamente una mia impressione», disse. «Se fate attenzione alle impressioni, ed evitate che abbiano a confondersi con deduzioni di carattere intellettuale, le troverete spesso sorprendentemente esatte, allarmanti addirittura».
Il Colonnello Wragge sedette di nuovo e si posò la carta topografica sulle ginocchia. Il suo volto si fece molto pensoso quando riprese nuovamente il racconto.
«Entrando in possesso di questo luogo», disse, guardandoci alternativamente in viso, «vi ho trovato una quantità di storie, ognuna più straordinaria e inverosimile dell’altra… storie che dapprima trattavo con divertita indifferenza, ma che fui poi costretto a rivedere seriamente, se volevo conservarmi la servitù. Queste storie le facevo risalire alla morte di mio fratello… e, in un certo senso, la penso tuttora così».
Si sporse in avanti e consegnò la carta topografica al Dr. Silence.
«È una vecchia pianta della tenuta», spiegò, «ma abbastanza precisa per il nostro scopo, e desidererei notaste la posizione delle culture, specialmente di quelle vicino alla casa. Questa», e indicò il punto col dito, «si chiama la tenuta dei dodici acri. Fu appunto qui, sul lato più vicino alla casa, che mio fratello e il fattore capo hanno trovato la morte».
Parlava come un uomo costretto ad ammettere fatti da lui deplorati, e che avrebbe preferito non menzionare… cose che, personalmente, avrebbe piuttosto ritenute del tutto ridicole, se gli fosse stato possibile. Pronunciava le parole in modo particolarmente dignitoso e incisivo, e io ascoltavo con crescente disagio, pensando al genere di aiuto che il dottore mi avrebbe chiesto più tardi. Mi sembrava di essere spettatore di qualche dramma misterioso, nel quale, ad ogni istante, avrei potuto essere chiamato a sostenere una parte.
«È accaduto venti anni or sono», proseguì il Colonnello, «ma se n’è parlato molto a suo tempo, purtroppo, e forse ne avrete sentito parlare anche voi. Stride, il fattore, era un uomo appassionato, di temperamento collerico, ma mi rincresce dirlo, altrettanto era pure mio fratello, e i bisticci fra di loro pare fossero frequenti».
«Non ricordo l’accaduto», disse il dottore. «Posso chiedervi quale fosse la causa della morte?». Qualche cosa nella sua voce mi fece aguzzare le orecchie, in attesa della risposta.
«Il fattore, si disse, per asfissia. E all’inchiesta il medico constatò che entrambi dovevano essere morti alla stessa ora».
«E vostro fratello?» chiese il Dr. Silence, avvertendo l’omissione e ascoltando attentamente.
«Altrettanto misterioso», disse il nostro ospite, parlando a bassa voce, con sforzo. «Ma vi era un certo sintomo disorientante, che credo dover menzionare. Poichè coloro che hanno visto il viso… non l’ho veduto io stesso… e benchè Stride recasse un fucile, le cui canne non erano scariche…» balbettava ed esitava confuso. Di nuovo quel senso di terrore si agitava tra le parole.
«Ebbene?» domandò l’ascoltatore principale, incoraggiando.
«La faccia di mio fratello, dicevano, sembrava essere stata bruciacchiata. Sembrava, per così dire, che qualche cosa che ardeva… che scoppiava, le fosse passata sopra. Era, mi hanno detto, veramente spaventevole. I cadaveri erano stati trovati l’uno accanto all’altro, con le facce all’ingiù, entrambe in direzione contraria al bosco, come se fossero stati colpiti nell’atto di correre, e a non più di una dozzina di metri dal margine del bosco stesso».
Il Dr. Silence non fece alcuna osservazione. Sembrava studiare attentamente la carta topografica.
«Non ho visto il viso io stesso», ripetè l’altro, mentre il suo modo di fare esprimeva il senso di terrore che cercava di eliminare dalla sua voce, «ma mia sorella purtroppo l’ha visto e il suo stato attuale credo sia proprio dovuto alla scossa terribile che ne hanno avuto i suoi nervi. Non potrà mai essere indotta ad attribuirlo a questo naturalmente, e tendo perfino a credere che il ricordo sia pietosamente svanito dalla sua mente. Ma ne parlava a suo tempo come di un viso violato… distrutto dalle fiamme».
Il Dr. Silence levò lo sguardo dalla pianta topografica con l’aria di uno che desideri di ascoltare, non di parlare, e il colonnello proseguì col suo racconto. Stava ritto sulla stuoia e le sue larghe spalle nascondevano la maggior parte della cappa del camino.
«Tutte queste storie facevano capo a quella particolare cultura. Era naturale, perchè la gente, da queste parti, è superstiziosa quanto i contadini irlandesi, e benchè punissi esemplarmente una o due persone per arrestare quelle folli dicerie, tuttavia non ebbe effetto, e nuove versioni giungevano al mio orecchio ogni settimana. Potete immaginare quanto pochi licenziamenti facessi, se vi dico che i domestici si licenziavano da soli. Non erano i domestici di casa, ma gli uomini che lavoravano fuori, sulla tenuta. I guardiani si licenziarono l’uno dopo l’altro, tutti senza alcuna ragione plausibile che potessi accettare. I guardaboschi si rifiutarono di entrare nella foresta, e i battitori di farvi le loro battute. La voce si sparse per tutta la contrada che occorreva evitare la «Tenuta dei dodici acri», sia di giorno che di notte.
«Allora subentrò un fatto», continuò il Colonnello, ormai lanciato in pieno, «che mi costrinse a intraprendere delle indagini per conto mio. Non potevo eliminare la cosa col fingere d’ignorarla; perciò raccolsi e analizzai tutte quelle storie dapprincipio. Questo bosco dei dodici acri, come vedete nella pianta, arriva abbastanza vicino alla casa. Il suo limite inferiore, se volete vedere, tocca quasi il limite della radura dietro la casa, come vi mostrerò domani, e la sua densa vegetazione di pini forma la protezione principale di cui gode la casa dai venti d’oriente, che soffiano dal mare. E un tempo, prima che mio fratello intervenisse e ne scacciasse tutta la selvaggina, era una delle migliori riserve di fagiani di tutta la tenuta».
«E in quale forma, se posso saperlo, questo suo intervento si esplicava?» domandò il Dr. Silence.
«Nei particolari non saprei dirvelo, perchè non lo so… ma credo che fosse l’argomento delle sue frequenti discussioni col capo guardiano. Nel corso degli ultimi due anni della sua vita, quando abbandonò i viaggi e si stabilì qui, s’interessò in modo particolare a quel bosco, e per qualche ragione inesplicabile, cominciò a erigere un basso muricciuolo d’intorno. Questo muro non è mai stato portato a termine, ma ne potrete vedere domani le rovine alla luce del giorno».
«E il risultato delle vostre indagini… circa quelle storie?» interloquì il dottore, preoccupandosi di tenerlo in argomento.
«Sì, ve le dirò», disse lentamente. «Ma prima debbo parlarvi del bosco, poichè quel bosco, dal quale le dicerie sono spuntate come i funghi, non presenta assolutamente nulla di particolare. È assai folto, e si eleva, ad un certo punto più rado, nel centro, in una specie di terrapieno dove vi è un cerchio di grossi macigni… antiche pietre druidiche, per quanto mi risulta. In un altro punto vi è un piccolo stagno. Non vi è assolutamente nulla di particolare che io possa menzionare… proprio una comune pineta, comunissima… soltanto che gli alberi vi sono un po’ ritorti nei fusti, alcuni cioè, e molto folti. Nulla di più.
«E quanto alle storie… Ebbene, nessuna di esse aveva a che vedere col mio povero fratello, o col fattore. Tutte cose bizzarre… assai bizzarre, voglio dire, come invenzione o immaginazione. Non ho mai potuto scoprire come mai a questa gente siano venute in mente simili fantasticherie».
Fece una breve pausa per riaccendersi il sigaro.
«Non c’è un sentiero vero e proprio che lo attraversi», concluse, fumando vigorosamente «ma i campi d’intorno vengono continuamente battuti, e uno degli ortolani, la cui capanna è situata da quella parte, dichiarava che spesso vi vedeva muoversi delle luci di notte, e affiorare forme luminose, simili a globi di fuoco sospese alla cima degli alberi, che emettevano un suono lievemente sibilante. Molti, fra quella gente, lo affermavano, infatti. E un altro vedeva svolazzare delle forme fra gli alberi, forme che non erano nè esseri umani nè animali, e tutte fiocamente luminose. Nessuno pretendeva di aver visto forme umane… Sempre cose strane, enormi, che non sapevano descrivere con esattezza. Talvolta tutto il bosco era illuminato, e un giovane, che è ancora qui e che vedrete domani, si vanta di poter raccontare tutta una storia mirabolante, perchè dice di aver visto delle grosse stelle che giacevano al suolo intorno al margine del bosco, a intervalli regolari…».
«Che tipo di stelle?», interloquì il Dr. Silence di punto in bianco, in modo tanto inatteso, che mi fece trasalire.
«Oh, non lo so esattamente. Stelle comuni, credo dicesse, ma molto grandi, e dallo splendore molto vivo, come se il suolo fosse illuminato. Era troppo atterrito per avvicinarsi ad esaminare, e non le ha mai più rivedute, da allora».
Si arrestò e riattizzò il fuoco, più per la luce che emanava che per il suo calore. Nella stanza vi era già una sensazione stranamente penetrante di calore; quasi opprimente, nel suo effetto, e tutt’altro che confortante.
«Naturalmente», proseguì, drizzandosi di nuovo, «tutto ciò era abbastanza comune… questo vedere luci e figure di notte. La maggior parte di questa gente beve, e l’immaginazione e il terrore possono spiegare molte cose. Ma c’è stato chi ha visto cose alla piena luce del giorno. Uno dei boscaiuoli, uomo sobrio e rispettabile, infilava un giorno la scorciatoia verso casa, per andare a colazione, e giurò di esser stato seguito per tutta la lunghezza del bosco da qualche cosa che non si mostrava mai, ma che scivolava d’albero in albero, sempre mantenendosi fuori della vista; qualche cosa di abbastanza solido da agitare il fogliame e piegare le frasche al suolo. E faceva un rumore, affermava… ma veramente…» e qui il Colonnello si interruppe e diede in una breve risata «…è troppo assurdo,..».
«Dite, dite!» insistette il dottore. «Sono questi piccoli particolari che mi forniscono sempre gli spunti più preziosi».
«…faceva un rumore crepitante, come un falò. Queste erano le sue testuali parole: come il crepitìo di un falò», terminò il Colonnello, ripetendo la sua breve risata.
«Interessantissimo», osservò gravemente il Dr. Silente. «Favorite non omettere nulla».
«Sì» egli proseguì, «e fu subito dopo che i fuochi ebbero inizio… i fuochi nel bosco. Cominciarono con l’ardere misteriosamente nelle chiazze d’erba chiara e ruvida che ricoprono le parti più esposte della tenuta. Nessuno li ha mai effettivamente visti nascere, ma molti, ed io fra di essi, li hanno visti ardere lentamente. Sono sempre piccoli e di forma circolare, in tutto simili a un fuocherello da bivacco. Il fattore ha in serbo una dozzina di spiegazioni, dalle faville eruttate dai camini delle case sino alla luce del sole materializzata attraverso le goccie di rugiada, ma nessuna di esse, devo ammetterlo, mi può convincere come minimamente probabile o verosimile. Sono veramente singolari, credo, veramente singolari, quei fuochi misteriosi, e sono lieto di dire che si verificano a intervalli piuttosto lunghi e non si estendono mai, per fortuna!
«Ma il guardiano aveva pure altre strane storie da raccontare su cose verificabili. Dichiarava che nessun essere vivente sarebbe mai entrato di sua volontà nella tenuta. E per di più, che esseri viventi non vi esistano affatto. Nessun uccello nidifica negli alberi, nè vola all’ombra delle loro piante. Dice che vi ha messo una quantità di trappole, senza mai acchiappare un solo coniglio o una donnola. Gli animali la evitano, e dice di aver raccolto più d’una volta degli animali stecchiti intorno ai margini di essa, animali che non recavano alcun segno palese del modo con cui erano morti.
«Inoltre, mi raccontò una storia straordinaria sul suo bracco, a caccia di qualche cosa di invisibile attraverso il campo, un giorno che era uscito col fucile. Il cane, improvvisamente, puntò su qualche cosa. Poi si diede alla caccia, latrando come se fosse impazzito. Inseguì la sua preda immaginaria sino a margini del bosco, e vi entrò, cosa questa che non lo aveva mai visto fare, prima. Lo stesso momento in cui attraversò il margine, là dentro è buio anche di giorno, cominciò a lottare nel modo più feroce e terribile. Disse che egli stesso ebbe paura di intervenire. Infine, quando il cane uscì, con la coda tra le gambe e tutto ansante, gli trovò qualche cosa come un pelame bianco appiccicato alle ganasce, e me lo portò per farmelo vedere. Vi riferisco questi particolari perchè…».
«Sono importanti, credetemi», lo interruppe il dottore. «E lo conservate ancora, quel pelame?», domandò.
«È scomparso nel modo più strano», spiegò il Colonnello. «Era una materia di aspetto curioso, qualche cosa come asbesto, e l’ho mandata per l’analisi al laboratorio chimico locale. Ma, o che l’uomo abbia avuto sentore della sua origine, o forse che non l’avesse veduto volentieri per qualche altra ragione, fatto sta che me la ritornò e disse che per quanto aveva potuto constatare, quella sostanza non era nè animale, nè vegetale, nè minerale, e che non desiderava averne altra da esaminare. La incartai e la misi in un luogo sicuro per conservarla, ma una settimana dopo, aprendo il pacchetto… trovai che era sparita! Oh! le storie sono semplicemente interminabili! Potrei raccontarvene un centinaio, tutte dello stesso tipo».
«Ed esperienze personali vostre, Colonnello?» domandò il Dr. Silence con voce grave mentre il suo atteggiamento manifestava il più vivo interesse e la più ansiosa comprensione.
Il Colonnello diede un sussulto quasi impercettibile. Si sentiva evidentemente a disagio.
«Nulla, credo», disse lentamente, «nulla… già… di cui possa essere certo. Intendo dire nulla di cui io abbia il diritto di parlare, forse… ecco!».
E tacque d’improvviso. Il Dr. Silence, dopo aver atteso un po’, per vedere se avesse aggiunto qualche cosa, non cercò più di sollecitarlo su questo punto.
«Ebbene!», concluse, come se volesse parlarne in modo sprezzante, senza precisamente osarlo. «Questo genere di cose si ripete ad intervalli, da tempo incalcolabile. Con quel misterioso chiacchierìo la gente ha cominciato a invadere tutta la tenuta, per vedere il bosco, ed ha arrecato un danno enorme. Trappole da uomini e fucili a scarica automatica sembravano soltanto aumentare l’insistenza dei fenomeni… E… pensate un po’!», sbuffò, «una società locale di ricerche scrisse addirittura e chiese il permesso perchè uno dei suoi membri potesse passare una notte nel bosco! Pazzi anche più sfacciati, che non chiesero il permesso per iscritto, vennero e asportarono pezzetti di corteccia dagli alberi e li diedero ai chiaroveggenti, i quali a lor volta inventarono un ulteriore groviglio di frottole. Insomma, non se ne vedeva più la fine!».
«Molto affliggente e seccante, tutto questo, posso ben rendermene conto», mormorò il dottore.
«Poi, improvvisamente, questi fenomeni cessarono altrettanto misteriosamente come erano cominciati, e l’interesse si afflosciò. Le storie cessarono. La gente s’interessò ad altro. Tutto sembrava essersi spento. Fu lo scorso luglio. Posso dirvelo con esattezza, poichè ho tenuto un diario più o meno esatto di quanto è accaduto».
«Ah!».
«Ma ora, molto recentemente, in queste ultime tre settimane, tutto ha ripreso, ad un tratto come per un furioso attacco. È diventata veramente una cosa insopportabile. Potete immaginare a che punto sono arrivate le cose, se vi dico che mi si è affacciata l’idea di andarmene via!».
«Incendiarismo?», suggerì il Dr. Silence, sottovoce, ma non tanto che il Colonnello non potesse udirlo.
«Per Giove, dottore, mi levate addirittura le parole di bocca!» esclamò sorpreso l’uomo, guardando entrambi, con insistenza, e facendo tintinnare il denaro in tasca come se potesse in tal modo trovare qualche spiegazione delle facoltà divinatorie del mio amico.
«È che voi pensate in modo molto vivo», disse tranquillamente il dottore, «e i vostri pensieri dànno vita a immagini nella mia mente prima che li esprimiate. È solo un po’ di elementare lettura del pensiero».
La sua intenzione, mi avvidi, non era quella di rendere perplesso il buon uomo, ma d’impressionarlo coi suoi poteri, così da assicurarsene l’obbedienza per più tardi.
«Buon Dio! non ne avevo un’idea…». Non terminò la frase, e s’immerse di nuovo immediatamente nella sua narrazione.
«Non ho visto nulla io stesso, devo ammetterlo, ma i racconti di testimoni oculari indipendenti erano concordi nell’affermare che delle linee luminose, come correnti di fuoco tenue, attraversavano il bosco e talvolta si vedevano uscire, al di sopra, precisamente come delle fiamme… in direzione di questa casa. Là», spiegò con voce più alta, che mi fece sussultare, puntando un grosso dito sulla pianta, «dove il limite occidentale della tenuta giunge al termine della radura più bassa, dietro la casa… dove la radura si ricollega a quelle macchie scure che sono arbusti di alloro, e che arrivano sino alle adiacenze della casa… ecco dove si vedevano quelle luci. Passavano dal bosco agli arbusti, raggiungendo in tal modo la casa. Un tale le ha descritte, come dei razzi silenziosi, rapidi come il fulmine, ed oltremodo luminosi».
«E la prova di tutto questo?».
«Effettivamente hanno raggiunto i lati della casa. Hanno lasciato un segno di bruciaticcio sui muri… sui muri della lavanderia all’altra estremità. Li vedrete domani». Puntò il dito sulla pianta per indicare il luogo, e poi si raddrizzò e si guardò intorno nella stanza come se avesse detto qualche cosa che nessuno avrebbe potuto credere e si attendesse delle obiezioni.
«Arsi… proprio come lo erano i visi», mormorò il dottore, guardandomi in modo significativo.
«Arsi… sì!», ripetè il Colonnello, che non colse il resto della frase, nella sua eccitazione.
Vi fu un silenzio prolungato, durante il quale sentii gorgogliare l’olio nella lampada, scricchiolare le braci e respirare pesantemente il nostro ospite. Le sensazioni più sgradevoli mi percorrevano la spina dorsale, e mi chiedevo se il mio compagno mi avrebbe totalmente disprezzato se gli avessi chiesto di lasciarmi dormire sul divano in quella stanza. Erano le undici, lo vidi all’orologio sulla cappa del camino. Avevamo varcato il limite di confine e ci trovavamo ora in pieno nell’avventura. La lotta fra l’interessamento e il terrore si fece acuta. Ma, anche se mi fosse stato possibile ritirarmi, credo che l’interessamento l’avrebbe facilmente spuntata su di me.
«Ho naturalmente dei nemici», disse ancora la rude voce del Colonnello «e ho licenziato un certo numero di domestici…».
«Non si tratta certamente di questo» interruppe brevemente il Dr. Silence.
«Credete di no? In un certo senso ne sono contento, eppure… vi sono delle cose che si possono considerare e discutere…».
Lasciò la frase incompleta, e abbassò lo sguardo al suolo con espressione di arcigna severità che ne rivelò istantaneamente il carattere. Quell’uomo, abituato a combattere, detestava e aborriva il pensiero di un nemico che non potesse vedere e col quale non potesse venire alle prese. Si sedette in mezzo a noi e qualche cosa come un sospiro gli sfuggì. Il Dr. Silence non disse nulla.
«Mia sorella, naturalmente, è tenuta nell’ignoranza, per quanto possibile, di tutto questo», disse in modo sommesso, e come se parlasse a se stesso. «Ma anche se sapesse, troverebbe spiegazioni concrete e soddisfacenti. Soltanto desidererei poterne trovare qualcuna anch’io. Sono certo che esistono».
Subentrò allora nella conversazione un intervallo molto significativo. Non sembrava una pausa vera e propria, poichè entrambi gli uomini continuavano a pensare tanto rapidamente e intensamente, che quasi si potevano immaginare i loro pensieri, rivestirsi di parole, sospesi nell’aria della stanza. Io ero non poco scosso dalla strana eccitazione di quanto avevo udito, ma ciò che stimolava i miei nervi più d’ogni altra cosa era il fatto evidente che il dottore si trovava chiaramente sulla traccia della scoperta. Nella sua mente, ritengo, aveva già risolto in quell’istante la natura di quell’imbarazzante problema psichico. Il suo volto era impenetrabile come una maschera. Usava il minimo assoluto di gesti e di parole. Tutte le sue energie erano dirette verso il suo intimo, e con questi straordinari metodi e processi, che con tanta infinita pazienza e studi si era appropriati, ero sicuro che si trovava ormai a contatto delle forze operanti dietro quei singolari fenomeni e stava concependo i suoi piani in profondità per farli affiorare in qualche manifestazione, allo scopo di potersene poi effettivamente occupare.
Il Colonnello intanto diventava sempre più agitato. Ogni tanto si rivolgeva al mio compagno, come se stesse per parlare, cambiando poi avviso all’ultimo momento. Una volta aprì improvvisamente la porta, apparentemente per vedere se vi fosse qualcuno ad origliare, poichè scomparve per un momento fra i due battenti e lo sentii poi aprire quella esterna. Vi si fermò alcuni secondi, e fece un rumore come se fiutasse l’aria alla guisa di un cane. Poi chiuse entrambe le porte con precauzione e ritornò al camino. Una strana eccitazione sembrava invaderlo. Evidentemente cercava di raccogliere la mente per dire qualche cosa che trovava difficile a dirsi. E il Dr. Silence, come giustamente intuii, attendeva pazientemente. Infine, si volse e ci guardò, alzando le ampie spalle, e irrigidendosi visibilmente.
Il Dr. Silence alzò lo sguardo incoraggiante.
«Le vostre esperienze mi aiutano moltissimo» osservò tranquillamente.
«Il fatto è», disse il Colonnello, parlando a voce bassissima, «che la settimana scorsa sono scoppiati incendi nella casa stessa. Tre incendi separati… e tutti… nella stanza di mia sorella».
«Già!» disse il dottore, come se ciò fosse appunto quanto si aspettava.
«È veramente inesplicabile… tutto questo», aggiunse l’altro, poi si sedette. Cominciai a capire qualche cosa del motivo della sua eccitazione. Stava per rendersi conto, infine, che la spiegazione «naturale», cui finora si era attenuto, stava per diventare impossibile, e cominciava a respingerla egli stesso. Quella spiegazione lo irritava.
«Per fortuna», proseguì, «era fuori della stanza e non ne ha saputo nulla. Ma la faccio dormire, ora, in una stanza al pianterreno».
«Una saggia precauzione», disse semplicemente il dottore. Avanzò una o due domande. Gli incendi erano partiti dalle cantine, una volta presso la finestra e un’altra volta presso il letto. La terza volta il fumo era stato scoperto dalla fantesca, come proveniente dall’armadio e si era trovato che i vestiti della Signora Wragge, appesi ai ganci, stavano per bruciare. Il dottore ascoltò attentamente, ma non fece commenti.
«Ora potete dirmi», disse, «qual’è la vostra opinione al riguardo… la vostra impressione generale?».
«Sembra pazzesco dirlo», rispose il Colonnello, dopo un momento di esitazione, «ma ho la stessa, esatta impressione che ho spesso avuta durante il servizio attivo, nelle mie campagne in India: come se la casa e tutto quanto è in essa, si trovi in uno stato d’assedio; come se un nemico nascosto si fosse accampato intorno a noi… in agguato,… in qualche luogo». Diede in un riso sommesso e nervoso. Come se il prossimo indizio di fumo fosse per farlo precipitare nel panico… un panico spaventoso.
Mi si presentò il quadro della notte tenebrosa, attorno alla casa, e dei pini ritorti che egli aveva descritto pigiarsi intorno ad essa; e, guardando il voltò risoluto e la figura energica del vecchio soldato, costretto finalmente alla confessione, compresi vagamente quante prove aveva dovuto attraversare, prima di cercare l’assistenza del Dr. Silence.
«E domani, se non erro, è luna piena», disse ad un tratto il dottore, osservando la faccia dell’altro per vedervi l’effetto delle sue parole apparentemente buttate là, senza che vi avesse dato importanza.
Il colonnello Wragge sussultò quasi impercettibilmente, e il suo volto per la prima volta ebbe un inconfondibile pallore.
«Come mai…?» egli cominciò, con le labbra tremanti.
«È semplicemente che comincio a vedere chiaro in questo straordinario affare» rispose l’altro con calma, «e se la mia teoria è esatta, ogni mese, durante il plenilunio dovrebbe verificarsi una intensificazione nell’attività dei fenomeni».
«Non vedo il nesso, fra una cosa e l’altra», rispose il colonnello in modo quasi brutale. «Debbo dirvi che il mio diario vi fa uscire di carreggiata». Egli mostrò l’espressione più imbarazzata che abbia mai notata su un volto onesto. Evidentemente quella ulteriore riprova di una spiegazione, che lo rendeva perplesso, non gli squadrava affatto.
«Confesso», ripetè, «che non riesco a vedere il nesso».
«E perchè dovreste vederlo?» domandò il dottore, con la sua prima risata di quella sera. Si alzò e riappese la carta topografica al muro. «Ma io il nesso lo vedo… poichè queste cose rientrano nei miei studi speciali… e lasciatemi aggiungere che devo ancora risolvere un problema che non è naturale, e che non implica una spiegazione naturale. Si tratta soltanto di quanto si sa… e si ammette».
Il Colonnello lo guardò di nuovo con uno strano senso di rispetto nel volto. Ma i suoi sentimenti si erano raddolciti. Inoltre, il riso e il mutamento nel contegno del dottore giunse come un sollievo, e ruppe l’incanto di grave sospensione che ci aveva tenuto quasi paralizzati per tanto tempo. Ci alzammo tutti e ci sgranchimmo le membra, passeggiando un poco per la camera.
«Sono molto lieto, dottore, lasciatemelo dire, che vi troviate qui», disse con semplicità, «molto lieto davvero. Temo di avervi trattenuti a vegliare assai a lungo», aggiunse con uno sguardo su di me, come per includermi nel suo pensiero, «poichè dovete essere stanchi, e dovete aver sonno. Vi ho detto tutto quanto vi è da dire», concluse, «e domani dovete sentirvi perfettamente liberi di intraprendere tutti i passi che riterrete necessari».
La fine fu rapida, eppure naturale, poichè non c’era più nulla da dire, e nessuno dei due uomini parlava tanto per parlare.
Fuori, nel freddo e squallido vestibolo, il Colonnello accese le nostre candele e ci condusse su, per le scale. La casa riposava tranquilla, silenziosa, tutto dormiva. Salimmo lentamente. Attraverso le finestre, sulle scale, vedevamo il chiaro di luna innondare la radura, proiettando ombre cupe. I pini più vicini erano appena visibili, ed oltre, non si vedeva nulla, all’infuori di un muro di tenebra impenetrabile.
Il nostro ospite passò per un momento nelle nostre stanze per sincerarsi che avessimo ogni cosa a nostra disposizione. Ci indicò poi un rotolo di grossa corda che giaceva accanto alla finestra, con un capo fissato alla parete a mezzo di un anello di ferro. Evidentemente vi era stata collocata di recente.
«Non credo che ne avremo bisogno», disse il Dr. Silence, con un sorriso.
«Speriamo di no», rispose gravemente il nostro ospite. «Dormo vicinissimo a voi, dall’altra parte del pianerottolo», sussurrò, indicando la sua porta, «se avrete bisogno di qualche cosa durante la notte, saprete dove trovarmi».
Ci augurò sogni propizi e scomparve nella sua camera, facendo ombra alla candela con la grossa mano per proteggerla dalle correnti d’aria.
Il Dr. Silence mi fermò un momento, prima che me ne andassi.
«Sapete di che si tratta?» domandai, con una eccitazione che ebbe perfino ragione della mia stanchezza.
«Sì», disse, «ne sono quasi certo. E voi?».
«Non ne ho la più pallida idea».
Sembrava deluso, ma neanche la metà di quanto lo ero io.
«Egitto!» sussurrò, «Egitto!».
II
Nulla venne a disturbarmi durante la notte… nulla, cioè, ad eccezione di un incubo in cui mi pareva che il colonnello Wragge mi inseguisse in mezzo a sottili strisce di fuoco, e sua sorella mi impedisse sempre la fuga scattando… morta… dal fondo della sua sedia… Un cupo latrare di cani mi svegliò una volta, proprio prima dell’alba, così mi parve, poichè vidi il telaio della finestra tagliarsi nettamente contro il cielo. Vi era pure il guizzo d’un lampo, pensai, mentre mi voltavo nel letto. E faceva caldo, per essere ottobre, un caldo opprimente.
Erano le undici passate, quando il nostro ospite ci suggerì di uscire coi fucili, benchè li considerassimo una finta piuttosto meschina per i nostri veri scopi. Personalmente, ero contento di trovarmi all’aria aperta, poichè l’atmosfera della casa era greve di presentimenti. Il senso di un disastro incombente era diffuso dappertutto. La paura si insinuava nei corridoi, si appiattava negli angoli di ogni stanza. Era una casa infestata, veramente; non da qualche vaga ombra di trapassato, ma da una definita, per quanto incalcolabile influenza, viva, attiva, pericolosa. Al minimo sentore di fumo tutti rabbrividivano. Un odore di bruciaticcio, ero convinto, avrebbe paralizzato tutta la gente di casa. Poichè la servitù, benchè ignorasse cosa ne pensasse il padrone, condivideva l’orrore comune. La terribile incertezza produceva una specie di nera condanna che si ripercuoteva, non soltanto sulle pareti, ma anche sulla mentalità delle persone che vi abitavano.
Soltanto la vista luminosa e allegra della vecchia Signorina Wragge che si faceva spingere per la casa nella sua silenziosa sedia a rotelle, chiacchierando e gesticolando vivacemente con chiunque incontrasse, ci impedì di lasciarci invadere completamente dalla depressione che regnava fra di noi. La vista di lei fu come uno sprazzo di sole nei profondi recessi di qualche bosco malfamato. Proprio mentre uscivamo la vidi, mentre veniva spinta dalla sua governante nel sole della radura, dietro la casa. Raccolsi il suo festoso sorriso, mentre volgeva il capo e ci augurava buon divertimento.
La mattina era la più bella che ci si potesse attendere in quel mese di ottobre. Il sole si rifletteva sull’erba morbida di rugiada e sul fogliame colorato in rosso oro. Gli impalpabili preannunzi della brina già vagavano nell’aria, in cerca di un permanente quartiere invernale. Dalle estese brughiere che dovunque si sperdevano all’orizzonte, come un mare purpureo chiazzato qua e là dal grigio dei crepacci rocciosi, soffiava il vento fresco e profumato dell’occidente. L’acre sapore del mare si diffondeva dappertutto come un aroma dominante, forse recato sopra gli spazi dai gabbiani che stridevano e volteggiavano in alto, nell’aria.
Ma il nostro ospite s’interessava poco di quella splendente bellezza, e non pensò nemmeno a presentarci lo scenario della sua proprietà. La sua mente era assorta in altre cose, e per quanto ci si riferiva, anche le nostre erano tutte assorbite dal problema che ci si presentava.
«Queste squallide brughiere e colline si estendono senza interruzione per ore e ore», disse, stendendo la mano; «e laggiù, a circa quattro leghe», aggiunse puntando in altra direzione, «si apre la baia di «S…», una lunga insenatura paludosa dalla parte del mare, frequentata da miriadi di uccelli marini. Dall’altra parte della casa vi sono le culture e le pinete. Credo che dovremmo andar prima a prendere i cani ed avviarci poi al bosco dei dodici acri, di cui vi ho parlato ieri sera. È vicinissimo».
Trovammo i cani nel canile e ricordai il cupo latrato nella notte. Un bel bracco e due grossi danesi saltarono fuori per salutarci. Singolari compagni per i fucili, pensai tra me, mentre prendevamo la strada attraverso i campi ed i grossi animali balzavano e correvano accanto a noi, coi musi rivolti al terreno.
La conversazione fu scarsa. Il grave volto del Dr. Silence non la incoraggiava. Aveva l’espressione che ben conoscevo… lo sguardo di sincera sollecitudine che significava che tutto il suo essere era profondamente assorbito e preoccupato. Spaventato non l’ho mai visto, bensì spesso ansioso. La sua ansia mi emozionava sempre. E proprio allora il dottore si dimostrava ansioso.
«Sulla via del ritorno vedrete il fabbricato della lavanderia», osservò brevemente il Colonnello, poichè anch’egli trovava poco da dire. «Così, attireremo meno l’attenzione».
Neppure tutta la fresca bellezza della mattinata sembrava capace di diradare le sensazioni di un pauroso malessere che si addensava nelle nostre menti, mentre camminavamo.
Dopo pochissimi minuti, un gruppo di pini nascose la casa alla nostra vista, e ci trovammo sui limiti di una cultura densamente coperta di conifere. Il Colonnello si fermò all’improvviso, ed estraendo dalla tasca una carta topografica, spiegò ancora una volta brevemente la sua posizione rispetto alla casa. Ci mostrò come la cultura si estendesse quasi sino ai muri della lavanderia, che si trovava al momento fuori della nostra visuale, e ci additò le finestre della stanza da letto di sua sorella, dove erano stati scoperti i principî d’incendio. La camera, ora vuota, dava direttamente sul bosco. Poi, guardandosi nervosamente intorno e chiamando i cani presso di sè, ci propose di entrare nella cultura e di effettuare un’ispezione generale, se lo ritenevamo opportuno. I cani, soggiunse, avrebbero forse potuto essere indotti ad accompagnarci per un piccolo tratto, ma ne dubitava. «Nè la voce nè la frusta, credo li porterebbero molto avanti», disse. «Lo so per esperienza».
«Se non avete nulla in contrario», rispose il Dr. Silence, deciso, parlando forse per la prima volta, «faremo il nostro esame da soli… Io e il Signor Hubbard. Sarà meglio».
Il suo tono era assolutamente deciso. Il Colonnello acconsentì con tanta cortesia, che anche un uomo meno intuitivo avrebbe potuto accorgersi che si sentiva veramente sollevato.
«Senza dubbio avrete le vostre buone ragioni», disse.
«Desidero di ricevere le mie prime impressioni, senza influenze estranee: ecco tutto. Il delicato spunto su cui sto lavorando potrebbe assai facilmente essere influenzato dalle correnti di pensiero d’un’altra mente, che sia, come la vostra, fortemente prevenuta».
«Perfettamente. Comprendo», soggiunse il Colonnello, con un’espressione nel volto che contrastava però con le parole. «Allora vi attenderò qui coi cani. Visiteremo la lavanderia al nostro ritorno».
Mi volsi ancora, mentre ci arrampicavamo e scavalcavamo il basso muro costruito dal proprietario precedente, defunto, e vidi la sua figura dritta e soldatesca, nel campo assolato, mentre ci osservava con uno sguardo curiosamente intento nel volto. C’era qualche cosa in apparenza incongruente, eppure vivamente patetico, nello sforzo di quell’uomo di disprezzare tutte le spiegazioni del mistero che sapessero di assurdo e, al tempo stesso, nelle rigide indagini che si rendevano necessarie in quella terribile occasione. Chinò il capo verso di me, e fece un gesto d’addio con la mano. Quella visione di lui, ritta nel sole coi suoi grossi cani, fermo ad osservarci, mi è rimasta impressa sino ad oggi.
Il Dr. Silence si avviò fra i fusti contorti, piantati l’uno accanto all’altro in file serrate, ed io lo seguii, stretto alle calcagna. Non appena fummo fuori di vista si volse e depose il fucile contro le radici di un grosso albero, ed io feci altrettanto.
«Difficilmente avremo bisogno di questi incomodi strumenti di assassinio», osservò con un fuggevole sorriso.
«Siete dunque sicuro sul da farsi?» chiesi ad un tratto, manifestando in parte la mia curiosità e pur temendo di tradirla, e sfigurare così ai suoi occhi. I suoi metodi erano molto semplici e scevri da ogni teatralità.
«Sono sicuro sul da farsi», rispose gravemente. «E credo che siamo arrivati proprio in tempo. Lo saprete al momento opportuno. Per ora… accontentatevi di seguirmi e di osservare. E pensateci costantemente! L’appoggio della vostra mente mi riuscirà utile».
La sua voce aveva quel calmo dominio che porta gli uomini ad affrontare la morte con una specie di felicità e di orgoglio. In quell’istante lo avrei seguito dappertutto. Al tempo stesso, le sue parole ispiravano un senso di tremenda serietà. Fui confortato dalla fiducia che gli vibrava nella voce, ma ciò malgrado, in quella luce diffusa del giorno, sentii con tutta intensità la nota di allarme che si celava dietro le sue parole.
«Non avete percepito forti impressioni?» domandò. «Non è accaduto nulla questa notte, per caso? Nessun sogno vivace?».
Attendeva una mia risposta, e replicai:
«Ho dormito con un sonno quasi ininterrotto. Ero tremendamente stanco, sapete. Ma quel calore opprimente…».
«Bene! Avete ancora notato il calore, dunque», disse a se stesso, piuttosto che attendere una risposta. «E il fulmine?» aggiunse, «quel fulmine a ciel sereno… quel lampo… lo avete notato?».
Risposi francamente che credevo di aver visto un lampo mentre mi ero svegliato per un attimo, ed egli richiamò la mia attenzione su alcuni altri fatti, prima di proseguire.
«Dunque, ricordate la sensazione di calore quando portaste la lettera alla fronte, nel treno; il calore generale della casa ieri sera, e, come ora dite, di notte. Avete pure udito le storie del Colonnello intorno alle apparizioni di fuoco qui nel bosco e perfino nella casa, e il modo con cui suo fratello e il guardacaccia morirono vent’anni or sono».
Confermai con la testa, chiedendomi dove volesse andare a parare.
«E non vi sorse alcuna idea, da questi fatti?» mi domandò, un po’ sorpreso.
Frugai in ogni angolo della mia mente e della mia immaginazione per afferrare che cosa ciò potesse significare, ma fui costretto ad ammettere che non comprendevo nulla.
«Non importa; ci arriverete più tardi. E ora», soggiunse, «inoltriamoci nel bosco e vediamo che cosa vi possiamo trovare».
Le sue parole mi chiarirono qualche cosa del suo metodo. Dovevamo mantenere bene deste le nostre menti e riferirci a vicenda il minimo bagliore che avesse trapelato dai nostri pensieri. Poi, sul punto di avanzare, si volse di nuovo verso di me, con un ultimo avvertimento.
«Questo è per la vostra salvezza!», disse con gravità, «Immaginatevi ora, e a tale riguardo, immaginatelo sempre, finchè lasceremo questo posto, immaginate, dico, col massimo impegno, di essere circondato da un guscio che vi protegge. Immaginatevi dentro a un involucro protettivo, ed elaboratelo, con la più intensa immaginazione, per poterlo evocare. Versateci tutta la forza del vostro pensiero e della vostra volontà. Siate convinto seriamente durante tutta quest’avventura che quel guscio, costruito dal vostro pensiero dalla vostra volontà e dalla vostra immaginazione, vi avvolge completamente, e che nulla può attaccarlo e penetrarvi».
Parlava con drammatica convinzione, guardandomi seriamente, come per rafforzare quello che voleva dirmi. Poi avanzò e cominciò a internarsi nel terreno aspro e accidentato del bosco. Frattanto, conscio dell’efficacia della sua prescrizione, l’adottai senz’altro nel miglior modo che mi era possibile.
Gli alberi si chiusero ad un tratto intorno a noi creando il buio, come di notte. I loro rami si riunivano sopra di noi in un continuo intrico, i loro fusti si levavano sempre più serrati, i rovi al di sotto s’infittivano e moltiplicavano. Ci stracciammo i calzoni, ci graffiammo le mani, e i nostri occhi si riempirono di polvere fina che ci rendeva assai difficile evitare il groviglio appiccicaticcio e spinoso delle frasche e dei rampicanti. Un’erba ruvida e chiara, che ci afferrava i piedi come un laccio, cresceva a ciuffi qua e là. Essa coronava gli ammassi di efflorescenza torbosa che emergevano come teste umane, fantasticamente spettinate, che scattavano verso di noi dal fondo con le loro creste di crine morto. Ci facevano incespicare e barcollare. Era difficile camminare, là dentro, e potevo ben immaginare come fosse del tutto impossibile penetrarvi di notte. Saltavamo, per quanto possibile, da uno sterpo, all’altro, ed avevamo l’impressione di saltare fra teste disseminate su un campo di battaglia, e che quella chiara erba avvizzita nascondesse degli occhi che si volgevano a fissarci, mentre passavamo.
Il sole proiettava qua e là vivide chiazze di luce bianca, che abbagliavano la vista, ma che rendevano, per contrasto, tanto più profonda la penombra all’intorno. Attraversammo due volte dei punti oscuri circolari nell’erba, in cui il fuoco aveva impresso il suo segno e lasciato un cerchio di cenere. Il Dr. Silence li additò, ma senza commenti e senza fermarsi. La loro vista destò in me una singolare percezione di terrore che fino ad allora, in quell’avventura avevo soltanto avvertito in lontananza.
Era una fatica snervante, un avanzare arduo. Ci mantenevamo in contatto l’uno con l’altro. Anche il calore era fuori del normale. Non sembrava il calore del corpo, dovuto a un esercizio violento, ma piuttosto un calore interiore della mente, che dava l’impressione di mani infuocate appoggiate sul cuore e manteneva il cervello in una specie di continua arsura. Quando il mio compagno mi sorpassava di qualche passo, aspettava che lo raggiungessi, prima di proseguire. Il luogo, evidentemente, non era mai stato calcato da piede d’uomo (guardiano, boscaiuolo o turista che fosse), da molti anni. I miei pensieri, mentre ci inoltravamo penosamente, non erano dissimili dallo stato del bosco stesso… oscuri, confusi, pieni di un ossessionante stupore e dell’ombra del terrore.
In quel momento ogni indizio del campo aperto dietro di noi era scomparso. Non un barlume penetrava là dentro. Era come se brancolassimo nel cuore di una foresta vergine. Poi, improvvisamente, i rovi e i grovigli e l’erba che ci allacciava, terminarono; gli alberi si aprirono, e il terreno cominciò a salire, verso un ampio terrapieno centrale. Avevamo raggiunto il centro della cultura. Davanti a noi si ergevano gli informi macigni druidici che il nostro ospite ci aveva menzionato. Salimmo agevolmente su per la piccola collina, fra i fusti divenuti più radi, e, riposando su una delle pietre rivestite d’edera, ci guardammo in giro su uno spiazzo relativamente aperto, vasto, forse, quanto una piccola piazza cittadina.
Pensando alle cerimonie e ai sacrifici di cui questo rozzo cerchio di monoliti preistorici poteva essere stato testimonio, alzai lo sguardo al volto del mio compagno con una domanda non formulata. Ma egli lesse nei miei pensieri e scosse la testa.
«Il nostro mistero non ha nulla a che fare con questi simboli morti», disse, «ma con qualche cosa, forse, di molto più antico, e di un paese del tutto diverso».
«Egitto?» dissi quasi senza voce, disperatamente disorientato, ma ricordando le parole da lui pronunciate nella mia camera da letto.
Accennò di sì con la testa. Brancolavo sempre più nel buio, ma sembrava intensamente preoccupato, e non era quello il momento di fare delle domande. Perciò, mentre le sue parole si ripetevano incomprensibili nella mia mente, mi guardai in giro, contemplando la scena davanti a me, lieto dell’occasione di riprendere fiato e di ricompormi alquanto. Ma ebbi appena il tempo di osservare le sagome contratte e contorte di alcuni pini che mi sorgevano accanto, quando il Dr. Silence arretrò di un passo e mi toccò sulla spalla. Additava qualcosa laggiù, verso la discesa. E lo sguardo che gli vidi negli occhi mi fece tendere, fino al parossismo, ogni nervo nel corpo.
Un’esile, quasi impercettibile colonna di fumo azzurro si levava tra gli alberi alla distanza di circa una ventina di metri, ai piedi del terrapieno. S’increspava sempre più in alto, e scompariva alla vista fra i rami intrecciati. Era appena più grossa del fumo prodotto da un piccolo tizzone di legno in fiamme.
«Proteggetevi! Immaginate fortemente il vostro guscio», bisbigliò il dottore insistentemente, «e seguitemi da vicino».
Si levò d’improvviso e s’avviò rapidamente giù per la china, in direzione del fumo. Lo seguii, nella paura di dover rimanere solo. Udivo il morbido scricchiolare dei nostri passi sugli aghi di pino. Sopra la sua spalla osservavo costantemente l’esile spirale azzurra, senza mai distoglierne lo sguardo. Difficilmente riuscirei a descrivere il preciso senso di vago orrore che mi ispirava la vista di quella striscia di fumo salente verso l’alto fra gli alberi oscuri. E la sensazione di calore, mentre ci avvicinavamo, era straordinariamente aumentata, con fenomenale potenza. Era come un camminare verso un incendio fiammeggiante, eppure invisibile.
Man mano che ci avvicinavamo, il suo passo rallentava. Poi, si fermò e additò. Vidi allora un piccolo cerchio di erba bruciata sul terreno. I grovigli di erbacce erano anneriti e bruciavano lentamente. Dal centro si levava quel fumo; pallido, azzurro, costante. Allora io notai un movimento nell’atmosfera accanto a noi, come se l’aria calda stesse per salire e quella più fredda per entrarvi d’impeto, a prenderne il posto: come un piccolo centro di vento nella bonaccia. Sopra, le frasche si agitavano e tremavano laddove il fumo scompariva. Per il resto, non un albero si muoveva, non un suono si faceva udire. Il bosco era silenzioso come un cimitero. Una idea orribile mi assalì, che il corso della natura stesse per cambiarsi senza preavviso, anzi che già si fosse cambiato un poco, che il cielo stesse precipitando o la superficie della terra fosse sul punto di sprofondare come una bolla spezzata. Qualche cosa, certo, raggiungeva il centro della mia ragione, scuotendone la resistenza.
Il Dr. Silence avanzò di nuovo. Non potevo vedere il suo volto, ma il suo atteggiamento era senz’altro quello della risoluzione. Muscoli e mente pronti per qualche azione vigorosa. Ci trovavamo a dieci passi dal cerchio annerito, quando il fumo improvvisamente cessò di salire, e si dileguò. Il pennacchio della colonna scomparve nell’aria, e nello stesso istante mi sembrò che la sensazione di calore se ne andasse dal mio volto, e così pure il moto del vento. L’impressione calma e riposante della fresca giornata d’ottobre riprese il suo dominio.
Tenendoci fianco a fianco, avanzammo ed esaminammo il luogo. L’erba ardeva ancora lentamente, il terreno era ancora caldo. Il cerchio di terra arsa misurava da trenta a cinquanta centimetri di diametro. Appariva come un comune piccolo fuoco di bivacco. Mi chinai, prudentemente, per guardar meglio, ma in un attimo scattai indietro con un grido involontario di allarme, poichè, mentre il dottore calpestava le ceneri per impedirne la dispersione, ne era uscito un suono, come un sibilo, come se avesse calpestato coi piedi creatura vivente. Questo sibilo era fievolmente percettibile nell’aria. Muoveva sorpassandoci e dirigendosi verso la parte più fitta del bosco, verso il nostro campo. In un attimo, il Dr. Silence abbandonò il fuoco e si lanciò, all’inseguimento.
Allora cominciò la più straordinaria caccia che potessi mai concepire, dietro quella cosa invisibile.
Correva velocemente sin dall’inizio, e, naturalmente, era più che ovvio che stesse inseguendo qualche cosa. A giudicare dal portamento della testa, manteneva lo sguardo costantemente a un certo livello, appena al di sopra dell’altezza di un uomo, e la conseguenza ne fu che inciampò parecchie volte sul terreno accidentato. Il suono sibilante era cessato. Non c’era più suono di sorta. Ciò ch’egli vedeva ed inseguiva era completamente fuori della mia percezione visiva. So soltanto che, nel mortale terrore di poter essere lasciato indietro, e punto dalla curiosità di vedere cosa mai vi fosse di visibile, lo seguii più rapidamente che potei, e riuscii ciò malgrado a tenergli dietro a malapena.
Mentre correvamo, tutta la folle sarabanda delle storie del Colonnello mi attraversava la mente, destandovi un senso di riso misto a spavento che era solo trattenuto dalla vista di quella grave e precipitosa figura che correva davanti a me. Il Dr. Silence all’opera, m’inspirava quasi un senso di paura. Appariva più piccolo, fra quegli alberi giganti e contorti, mentre sapevo che i suoi propositi e la sua conoscenza erano tanto grandi. Ma, anche lanciato nella corsa, aveva sempre un aspetto dignitoso. L’idea che stavamo per giuocare insieme una bizzarra ed eccentrica partita si accordava perfettamente col fatto che ci trovavamo virtualmente sull’orlo di una possibile tragedia, e il miscuglio delle due emozioni nella mia mente era altrettanto grottesco quanto terrificante.
Non si volse mai nella sua folle caccia, ma si lanciava rapidamente in avanti, mentre lo seguivo ansante, come oppresso da qualche incubo irragionevole. Mentre correvo, mi venne in mente che egli si rendeva conto per tutto il tempo, nel suo silenzioso mondo interiore, di molte cose che aveva tenute per sè, per la propria segreta considerazione. Aveva osservato, aspettato, progettato sin dallo stesso istante in cui eravamo entrati nell’ombra del bosco. Per qualche interiore, concentrato processo della mente, dinamico se non addirittura magico, era stato a diretto contatto della sorgente di tutta la avventura, dell’essenza stessa del mistero che era poi affiorato nella realtà. E ora le sue forze muovevano verso una mèta. Qualche cosa stava per accadere, qualche cosa di importante, forse di spaventoso. Ogni moto, ogni senso, ogni gesto significativo della persona che mi correva davanti, proclamavano il fatto, con altrettanta certezza con cui il cielo, i venti, e la faccia della terra indicano agli uccelli il periodo di migrare e mettono in guardia gli animali che un pericolo avanza e che devono scostarsi.
In pochi momenti raggiungemmo la base del terrapieno e ci addentrammo nell’intricato groviglio che si stendeva tra noi e il campo assolato. Qui, le difficoltà d’una rapida corsa si centuplicarono. Vi erano rovi da schivare, bassi rami sporgenti da ripiegare, e innumerevoli tronchi d’albero che s’infittivano a precludere un passaggio diretto. Eppure il Dr. Silence non sembrava mai tentennare o esitare. Avanzava, strisciando, saltando, scartando, chinandosi, ma sempre nella medesima direzione principale, inseguendo una determinata traccia. Due volte posi il piede in fallo e caddi, e ambedue le volte, quando mi rimisi in piedi, lo vidi davanti a me, sempre in moto, lanciato come un cane dietro la preda. Talvolta, come un cane, si arrestava e puntava. Era una puntata umana, psichica. E ogni volta che si arrestava per puntare, sentivo quel fievole, alto sibilo nell’aria, davanti a noi. L’istinto di un infallibile bracco lo guidava, e non sbagliava.
Infine, ad un tratto, mi fermai con lui. Ci trovavamo sulla riva di quello stagno, poco profondo, che il Colonnello ci aveva menzionato nel suo racconto la sera prima. Era lungo e stretto, pieno di un’acqua bruna torbida, in cui gli alberi si riflettevano cupi. Non un’increspatura ne agitava la superficie.
«Osservate!» esclamò, mentre lo raggiungevo. «Sta per attraversare. È costretto a tradirsi. L’acqua è il suo naturale nemico. Vedremo dov’è diretto!».
Già mentre parlava, una linea sottile, come la scia di un ragno acquatico, scivolava rapidamente attraverso la lucida superficie. V’era una lieve scia di fumo nell’aria soprastante. Immediatamente mi accorsi di un odore di bruciaticcio.
Il Dr. Silence si volse e mi lanciò uno sguardo che mi fece pensare al lampo. Cominciai a sussultare per tutto il corpo.
«Presto!» gridò eccitato. «Inseguiamo la traccia! Dobbiamo correre intorno allo stagno! Sta andandosene verso la casa!».
L’allarme, che era nella sua voce, mi atterrì. Senza mettere un piede in fallo mi slanciai rapidamente intorno alle rive sdrucciolevoli e mi strinsi di nuovo alle sue calcagna, nel mare di cespugli e di fusti d’albero. Ci trovavamo ora nel folto della fascia fittissima che correva intorno al margine esteriore della cultura: il campo era vicino. Eppure l’intrico era tanto buio, che trascorse parecchio tempo prima che i primi sprazzi di chiara luce solare divenissero visibili. Il dottore correva ora a zigzag. Stava inseguendo qualche cosa che si scartava e si muoveva in modo del tutto bizzarro, ma che aveva cominciato, così almeno mi sembrava, a muoversi più lentamente di prima.
«Presto!» gridò. «Nella luce lo perderemo!».
Non vedevo ancora nulla, non sentivo nulla, non coglievo la suggestione di una traccia. Eppure quell’uomo, guidato da una divinazione interiore infallibile, non fece giri falsi, benchè sia rimasto un mistero per me, fin dal principio, come non fossimo andati a ruzzolare lunghi distesi fra gli alberi. Poi, all’improvviso, ci trovammo ai margini del bosco, col campo aperto disteso davanti ai nostri occhi.
«Troppo tardi!» lo udii esclamare, con accento di angoscia nella voce. «È finita!… E… Per Dio! Punta verso la casa!…».
Rividi il Colonnello nel campo coi suoi cani, nel punto dove lo avevamo lasciato. Stava chinato in avanti, scrutando nel bosco dove ci aveva sentiti correre. Scattò dritto come una frusta piegata lasciata libera e il Dr. Silence, che correva sorpassandolo, lo chiamò indicandogli di seguirci.
«Perderemo la traccia nella luce», lo sentii gridare mentre correva. «Presto! Potremmo ancora arrivare in tempo!».
Quella corsa selvaggia, attraverso il campo aperto, coi cani alle calcagna, che saltavano e abbaiavano, e il colonnello lanciato nella corsa dietro di noi, ansando, come se ne andasse della sua vita, non la dimenticherò mai! Benchè avessi soltanto idee vaghe sul significato di tutto questo, correvo lanciato in pieno, ed essendo il più giovane dei tre, raggiunsi agevolmente la casa per primo. Mi rizzai, ansante, e mi volsi in attesa degli altri. Ma, mentre mi volgevo, qualche cosa che si muoveva a breve distanza da me, attrasse il mio sguardo. In quel momento provai, lo giuro, il più opprimente e singolare colpo di sorpresa e di terrore che abbia mai provato, o possa aver mai concepito. Attraverso la porta principale, rimasta aperta, potevo vedere, al di là del vestibolo della sala da pranzo ed oltre, fino alla radura posteriore all’edificio. Ed è là che mi apparve la figura della signorina Wragge… che correva! Essa indubbiamente mi aveva visto da lontano e stava anzi correndo verso di me, con l’impeto frenetico di chi è colpito da paura, anzi da intenso terrore. La signorina Wragge, per ragioni a me allora inspiegabili, aveva evidentemente ricuperato l’uso delle gambe!
Il suo viso era di un pallore livido, come di morte, ma l’espressione generale era quella del riso, poichè la bocca era aperta, e gli occhi, sempre luminosi, splendevano di selvaggia allegrezza che sembrava l’allegrezza di una bambina, ed aveva, ciò malgrado, qualcosa di spettrale. In quello stesso istante, in cui essa sorpassandomi volò, fra le braccia di suo fratello, là dietro, fiutai di nuovo, inconfondibile, l’odore di bruciaticcio, e ancor oggi, l’odore di fumo e di fuoco mi rendono quasi malato, al ricordo di quanto ho visto allora.
Subito dopo, alle sue calcagna arrivò pure l’infermiera atterrita, con maggiore padronanza di se stessa, tuttavia, e capace di parlare, ciò che alla vecchia signorina non riusciva affatto, ma con una faccia quasi ugualmente, se non maggiormente invasa dal terrore.
«Eravamo laggiù fra i cespugli, al sole», ansimò e strillò in risposta alle domande direttele dal Colonnello. «Stavo spingendo la sedia come al solito, quando si è messa a gridare e ad agitarsi… non so esattamente come… Ero troppo spaventata per veder chiaro… Oh, mio Dio! è balzata nettamente fuori dalla sedia… e si è messa a correre! C’era una raffica di aria calda che veniva dal bosco, ed essa si nascose la testa e saltò. Non fece alcun rumore – non lanciò un grido, nè fece altro. Correva e nient’altro».
Ma l’orrore da incubo di tutto ciò raggiunse il punto culminante pochi minuti dopo, mentre stavo ancora nell’atrio, momentaneamente privo di parola e di movimento. Mentre il dottore, il colonnello e l’infermiera si trovavano infatti a metà scala ad aiutare la donna svenuta per portarla al riparo nella sua stanza, e formavano gruppo confuso di cupe figure, una voce si fece sentire dietro di me. Mi volsi e vidi il maggiordomo, col volto grondante di sudore e gli occhi quasi uscenti dalle orbite.
«La lavanderia è in fiamme!» gridò; «la lavanderia ha preso fuoco!».
Ricordo la sua buffa espressione e ricordo pure che avevo voglia di ridere, pur conservando la faccia rigida e inflessibile.
«Il diavolo è di nuovo in giro! Dio mi aiuti!» gridò, con voce soffocata dal terrore, girando intorno senza scopo.
Il gruppo sulle scale si sparpagliò come al rimbombo di uno sparo. Il Colonnello e il Dr. Silence discesero a tre scalini per volta, lasciando l’afflitta signorina Wragge alle cure della sua infermiera.
Uscimmo in un attimo attraverso la radura frontale girando intorno all’angolo della casa, il Colonnello in testa, io e il dottore alle sue calcagna, e il grasso maggiordomo che sbuffava dietro, a qualche distanza, sempre più confuso nelle sue invocazioni a Dio e al diavolo. Nel momento in cui passavamo per le stalle e giungevamo alla vista della lavanderia, vedemmo una colonna di fumo di brutto aspetto uscire dalle strette finestre, e le domestiche ed i lavoranti correre qua e là, schiamazzando ad alta voce.
L’arrivo del padrone ristabilì subito l’ordine, e quel soldato a riposo, povero pensatore, forse, ma uomo di azione capacissimo, prese sin dall’inizio l’iniziativa su di sè. Distribuiva ordini come un generale, e quasi prima che potessi avvedermene, vennero in scena secchie traboccanti e una fila di uomini e donne si formò fra la casa e la pompa della stalla.
«Dentro! Dentro!» gridò il Dr. Silence, e il Colonnello lo seguì attraverso la porta, mentre fui abbastanza svelto, alle loro calcagna, per sentirlo aggiungere, «Il fumo è la parte peggiore. Non c’è ancora nessun incendio, credo».
E, veramente, non c’era alcun incendio. L’interno era pieno di denso fumo, ma si schiarì ben presto, e neanche una secchia fu versata sul pavimento o sulle pareti. L’aria era soffocante, il calore impressionante.
«Di oggetti di valore ce ne sono ben pochi qui, da ardere; tutto è di pietra», esclamò il Colonnello, tossendo. Ma il dottore additò i coperchi di legno della grande caldaia in cui si lavavano gli indumenti, e vedemmo che stavano bruciando lentamente ed erano carbonizzati. Quando vi lanciammo una mezza secchia d’acqua, i mattoni sibilarono e fischiarono e nuvole di fumo salirono in alto. Attraverso la porta e le finestre, tutto il fumo svanì, e noi tre restammo là, ritti sul pavimento di mattoni fissando il punto dove si era sviluppato il principio d’incendio e chiedendoci, ognuno a modo suo, come mai, in nome delle leggi di natura, il luogo avesse potuto incendiarsi e fumare così abbondantemente. Ognuno di noi taceva; io, per pura incapacità e intontimento, il Colonnello per quel tranquillo coraggio che sa affrontare ogni cosa ma che parla poco, e il Dr. Silence per l’interna lotta psichica con quest’ultima manifestazione mentale di un profondo problema che richiedeva concentrazione di pensiero piuttosto di qualsiasi parola.
Non c’era realmente nulla da dire. I fatti erano indiscutibili.
Il Colonnello Wragge fu il primo a parlare.
«Mia sorella!», disse brevemente, e se ne andò. Nel cortile lo sentii rinviare i domestici spaventati ai loro lavori con un’ottima voce, intonata alla realtà dei fatti, rimproverando or l’uno or l’altro perchè avevano lasciato svilupparsi un fuoco tanto grande e riscaldarsi eccessivamente le canne dei camini, e non badando menomamente alle loro risposte che nessun fuoco veniva acceso da parecchi giorni. Poi mandò un servo a cavallo a chiamare il medico locale.
Allora il Dr. Silence si volse e mi guardò. Conservava un’assoluta padronanza di sè, non soltanto nell’espressione esteriore, ma, come bene sapevo, nello stesso intimo del suo cuore. L’espressione impassibile del volto, che sapeva assumere a piacimento, rendeva estremamente difficile conoscere cosa vi fosse di operante nella sua coscienza interiore. Ora, tuttavia, quando si volse e mi guardò, non vi era nessuna espressione da sfinge, ma l’espressione penetrante e trionfante di un uomo che aveva risolto un pericoloso e complicato problema, e cercava l’accesso a una netta vittoria.
«Ora immaginate?» mi domandò tranquillamente, come se si trattasse della cosa più semplice del mondo, e l’ignoranza fosse cosa impossibile.
Non potei far altro che guardarlo istupidito e rimanere silenzioso. Egli abbassò lo sguardo sui coperchi delle caldaie carbonizzati, e tracciò una figura nell’aria, col dito. Ma ero troppo eccitato, o troppo mortificato, o ancora troppo abbagliato, forse, per vedere cosa stesse disegnando, o cosa intendesse dire. Continuai a guardarlo, scuotendo il capo, perplesso.
«Un elementale del fuoco!», esclamò. «Un elementale del fuoco della specie più potente e maligna…».
«Un che cosa?» tuonò dietro di noi la voce del Colonnello, che era improvvisamente ritornato e non avevamo udito.
«È un elementale del fuoco», ripetè il Dr. Silence più calmo, ma con una nota di trionfo nella voce, che non poteva sopprimere. «È un elementale del fuoco irritato».
La luce cominciò a spuntare infine nella mia mente. Ma il Colonnello, che non aveva mai prima udito il termine, e che inoltre si sentiva notevolmente fiaccato, per l’uomo semplice che era, da tutto quel mistero di cui non sapeva comprendere alcunchè… il Colonnello stava lì, con l’espressione più disorientata che si fosse mai riscontrata su volto umano, continuando a borbottare, a balbettare e a guardare fisso.
«E perchè», cominciò, reso furioso dal desiderio di trovare qualche cosa con cui poter lottare, «perchè, in nome di tutte le fiamme dell’Inferno?…» qui s’interruppe perchè il Dr. Silence si era avanzato e lo aveva preso per il braccio.
«Ecco, caro Colonnello», disse gentilmente, «che afferrate il nocciolo della questione. Voi vi chiedete ’Perchè?’. È questo appunto, il nostro problema». Fissò fermamente negli occhi il Colonnello. «Ed anche questo, credo, lo sapremo ben presto. Venite e discutiamo un piano d’azione… forse, in quella stanza con le porte chiuse a due battenti, potremo concludere qualche cosa».
La parola «azione» calmò un poco il Colonnello, che, senza dire altro, ci ricondusse in casa, e, in fondo al lungo corridoio di pietra, fino alla stanza in cui avevamo ascoltato il suo racconto, la sera del nostro arrivo. Compresi, dallo sguardo del dottore, che la mia presenza non avrebbe reso il colloquio più facile al nostro ospite, e salii per le scale verso la mia stanza, scuotendo il capo.
Ma, nella solitudine della mia stanza, i vivi ricordi dell’ultima ora s’intensificarono spietatamente, al punto che cominciai a sentire che non mi si sarebbe mai più, in vita mia, cancellata l’impressione del terrore della signorina Wragge, mentre fuggiva. Fui ben lieto, perciò, quando una domestica bussò alla mia porta e disse che il Colonnello sarebbe stato lieto se avessi voluto raggiungere lui e il dottore nella sala da fumatori.
«Credo sia meglio che siate presente», disse il Colonnello quando entrai nella stanza. Collocai la sedia in modo che la mia schiena fosse rivolta alla finestra. Mancava ancora un’ora all’ora di colazione, benchè l’usuale impiego del tempo difficilmente trovasse posto nei nostri pensieri.
L’atmosfera della stanza era ciò che potrei definire elettrica. Il colonnello si trovava in preda ad un’ira fredda, terribile. Stava là, con la schiena rivolta al fuoco, maneggiando uno scuro sigaro non acceso, col viso rosso e tutto l’essere visibilmente eccitato, pronto per l’azione. Odiava quel mistero. Era veleno per il suo temperamento. Avrebbe voluto incontrarsi con qualche cosa faccia a faccia… qualche cosa che potesse vedere e combattere. Il Dr. Silence, lo notai improvvisamente, stava seduto davanti alla carta topografica della tenuta, che si trovava distesa su un tavolo. Conobbi, dalla sua espressione, lo stato della sua mente. Si trovava nel pieno della questione, la conosceva, ne godeva, e stava lavorando a tutta pressione. Avvertì la mia presenza e con una palpebra sollevata e uno scintillare dell’occhio, contrastante con la sua calma compostezza, mi diceva un mondo di cose.
«Stavo per spiegare brevemente al nostro ospite cosa mi sembra sia in opera in tutto questo affare», disse senza alzare lo sguardo, «quando mi chiese che ci raggiungeste, in modo da potere tutti lavorare insieme». E, mentre formulavo un gesto di consenso, mi sorpresi a chiedermi a che cosa si ispirasse la calma di quell’uomo tanto poco dimostrativo, eppur tanto potente, che sembrava diffondere in giro la propria fiducia con un processo di radiazione.
«Il Signor Hubbard», continuò gravemente, rivolto al Colonnello, «sa qualche cosa dei miei metodi, e in più d’una… già… interessante situazione, si è dimostrato utile. Quanto ci occorre ora, per l’appunto!» e qui, improvvisamente si alzò, collocandosi accanto al colonnello, e lo guardò fisso: «Sono uomini che abbiano un controllo su se stessi, che occorrono, uomini che siano sicuri di se stessi, le cui menti al momento critico possano emettere forze positive, anzichè correnti fluttuanti e incerte dovute a sentimenti negativi… dovuti, per esempio, alla paura».
Ci guardò entrambi, uno per volta. Il Colonnello allargò le gambe e si erse sulle spalle. Io mi sentii punto sul vivo ma non dissi nulla, consapevole che una riserva latente di coraggio affiorava deliberatamente nella mia coscienza. Mi stavo caricando, come un orologio.
«Di quel che ancora dovrà succedere», continuò il nostro capo, «ciascuno di noi contribuirà con la propria parte di potenza, per assicurare il successo al mio piano».
«Non temo nulla di quel che posso vedere», disse rudemente il Colonnello.
«Sono pronto», dissi, quasi automaticamente, «a ogni cosa!». Poi ripetei, come se la dichiarazione fosse ancora insufficiente, «A qualunque cosa!».
Il Dr. Silence cominciò a camminare su e giù intorno alla stanza, con le mani affondate nelle tasche della sua giacca da caccia. Una vitalità tremenda emanava da lui. Non distolsi mai lo sguardo dalla piccola, agile figura; piccola, ma… che mi faceva in qualche modo pensare ad un gigante che ordisse la distruzione di mondi. Le sue maniere erano gentili, come sempre, quasi blande. Le sue parole, pronunciate tranquillamente, senza enfasi o emozione. Quello che diceva era rivolto, benchè senza troppa evidenza, al Colonnello.
«La violenza di questo improvviso attacco», disse con delicatezza, passando e ripassando accanto alla libreria in fondo alla stanza, «è dovuta, naturalmente, parte al fatto che stanotte è luna piena», e qui guardò me per un attimo «e parte al fatto che ci siamo tutti molto deliberatamente concentrati sulla faccenda. Le nostre riflessioni, le nostre indagini, ci hanno posti in una attività insolita. Intendo dire che il potere intelligente, che sta dietro queste manifestazioni, si è accorto che qualcuno tende alla sua distruzione. Si trova ora sulla difensiva. Per di più, è diventato aggressivo».
«Ma chi è?.., Chi è?…» proruppe il Colonnello smaniando. «Che cosa, in nome di Dio, che cosa è un elementale del fuoco?…».
«Non posso impartirvi in questo momento», rispose il Dr. Silence, volgendosi a lui, pazientemente, malgrado la violenta interruzione, «una lezione sulla natura e sulla storia della magia. Posso dire soltanto che un elementale è una forza attiva che sta dietro gli elementi: terra, aria, acqua, o fuoco. Una forza affatto impersonale nella sua natura essenziale, ma che può essere concentrata, personificata, resa “anima”, per così dire, ad opera di coloro che sanno come procedere… dai maghi, se così volete chiamarli, per certi scopi loro, molto simile al modo con cui il vapore e l’elettricità possono, ad esempio, essere adibiti ai pratici usi dell’uomo del nostro secolo.
«Da sole, queste cieche energie elementali possono compiere poco, ma governate e dirette dalla volontà allenata di un potente manipolatore, possono diventare attività formidabili, sia nel bene che nel male. Sono la base di ogni magia; ed è il “motivo” dietro di esse, che rende la magia “nera” o “bianca”. Possono essere veicoli di maledizioni o di benedizioni, poichè una maledizione non è altro che il pensiero di una volontà violenta, che si perpetui. In tali casi, casi come l’attuale, la volontà cosciente, direttiva della mente, che usa l’elementale, si trova sempre dietro ai fenomeni…».
«Credete che mio fratello!…» interruppe il Colonnello, atterrito.
«Non ha nulla a che vedere con questo… direttamente. L’elementale del fuoco che è qui a tormentare voi e la vostra gente è stato mandato in missione molto tempo prima che voi, o la vostra famiglia, o i vostri antenati, o perfino la nazione cui appartenete, siano mai esistiti. Potrei anche sbagliarmi, su ciò. Ci ritorneremo, comunque, più tardi. Dopo l’esperimento che mi propongo di fare, saremo più positivi. Per ora, posso dire soltanto che abbiamo a che fare, non già col solo fenomeno del fuoco diretto all’attacco, ma con l’intelligenza vendicativa e adirata che lo dirige, dietro le quinte… vendicativa e adirata», egli ripetè le parole, lentamente.
«Ciò spiega…» cominciò il Colonnello, cercando furiosamente le parole che non sapeva trovare abbastanza presto.
«Molto» disse il Dr. Silence, troncandolo con un gesto.
Si arrestò un momento nella sua passeggiata, e un profondo silenzio calò nella stanza. Attraverso le finestre, la luce del sole appariva ora meno luminosa, la lunga striscia di cupe colline meno amena, facendomi pensare a una vasta ondata torreggiante verso il cielo, che fosse sul punto di irrompere e sopraffarci. Qualche cosa di immane si era insinuato nel mondo, intorno a noi. Senza dubbio, c’era una preoccupazione inquietante, ondeggiante fra la paura e il terrore, nel quadro che quelle sue parole evocavano: il concetto cioè di una volontà umana, che tendeva la mano inflessibile, odiosa e distruttiva, attraverso i millenni, per colpire i viventi e affliggere gli innocenti.
«Ma qual’è il suo scopo?» scattò a dire il Colonnello, incapace di trattenersi più a lungo. «Perchè viene da quella cultura? E perchè dovrebbe attaccare noi, o chichessia in particolare»? Le domande cominciarono a fluire da lui come un fiume in piena.
«Tutto a tempo e luogo», rispose tranquillamente il dottore dopo averlo lasciato parlare per alcuni minuti. «Devo prima scoprire positivamente che cosa è, e dove è colui che dirige questo particolare elementale del fuoco. Per far ciò, dobbiamo prima», parlava con lenta deliberazione, «cercare di captare… di rendere visibile… di limitare la sua sfera in una forma concreta».
«Santo Cielo!» esclamò il Colonnello, manifestando con schiette parole la sua sincera sorpresa.
«Proprio così!», continuò l’altro, calmo; «Agendo in questo modo credo che potremo scioglierlo dallo scopo che lo lega, renderlo alla sua condizione normale di fuoco latente, ed inoltre…», ed abbassò impercettibilmente la voce, «e scoprire inoltre il volto e la forma dell’entità che lo rende anima».
«L’uomo dietro il fucile!» esclamò il Colonnello, cominciando a capire qualche cosa, e sporgendosi in avanti per non perdere una sillaba.
«Voglio dire che nell’ultimo ricorso, prima di ritornare nel grembo del fuoco potenziale, assumerà molto probabilmente il volto e la figura del suo dirigente, dell’uomo dalla scienza magica che l’ha originariamente legato coi suoi incantesimi e l’ha mandato in missione attraverso i secoli».
Il Colonnello si sedette e gli guardò apertamente in faccia, respirando forte. Fu con voce assai sommessa che formulò questa domanda:
«E come progettate di renderla visibile, questa entità? Come captarla e confinarla? Che intendete dire, Dr. Silence?».
«Col fornirla dei materiali per una forma. Col processo della materializzazione, semplicemente. Una volta limitata nelle dimensioni, essa diventerà lenta, pesante, visibile. Poi potremo disperderla. Il fuoco invisibile, lo comprenderete, è incalcolabilmente pericoloso. Racchiuso invece in una forma, possiamo forse manipolarlo. Dobbiamo tradirlo… per farlo morire».
«E questo materiale?» domandammo contemporaneamente, benchè lo avessi già indovinato.
«Non piacevole, ma efficace…», fu la tranquilla risposta; «Le esalazioni di sangue versato di fresco».
«Non sangue umano!» gridò il Colonnello, scattando come un’esplosione dalla sedia. Pareva che gli occhi gli uscissero dalle orbite.
Il volto del Dr. Silence si mitigò alquanto, e la sua spontanea risatina fu un gradito per quanto momentaneo sollievo.
«I giorni dei sacrifici umani, spero, non ritorneranno mai più», spiegò. «Il sangue di un animale farà al nostro scopo, e potremo rendere l’esperimento il più piacevole possibile. Ma il sangue dev’essere versato di fresco Sono le sue dense emanazioni vitali che attraggono questa particolare categoria di creature elementali. Forse… forse se qualche maiale della tenuta è pronto per il mercato…».
Si volse per nascondere un sorriso; ma la battuta comica non trovò eco nella mente del nostro ospite, che non poteva passare così repentinamente da un’emozione all’altra. Era evidente che stava laboriosamente dibattendo una quantità di cose nel suo cervello già confuso. Alla fine, la serietà e il disinteresse scientifico del dottore, la cui influenza su di lui era già molto grande, la spuntarono. Il Colonnello alzò lo sguardo con maggior calma, ed osservò brevemente che la cosa poteva forse essere sistemata.
«Vi sono altri metodi più piacevoli», continuò a spiegare il Dr. Silence, «ma richiedono tempo e preparazione, e le cose si sono già troppo spinte innanzi, secondo me, per ammettere dilazioni. Il procedimento non dovrebbe cagionarvi alcuna angoscia: ci sediamo intorno al recipiente contenente il sangue e attendiamo i risultati. Null’altro. Le emanazioni del sangue, che, come dice Elifas Levi, è la prima incarnazione del fluido universale, forniscono i materiali per mezzo dei quali le creature della vita disincarnata, cioè gli spiriti, possono procurarsi una temporanea apparizione. Il procedimento è antichissimo, e si riconnette al sacrificio sanguinoso. Era noto ai sacerdoti di Baal, ed è noto ai moderni danzatori dell’estasi che praticano ferite su se stessi per produrre fantasmi obiettivi che danzino con loro. I chiaroveggenti anche meno dotati potrebbero dirvi che le forme che si possono vedere in vicinanza dei mattatoi, o che aleggiano sui campi di battaglia abbandonati, sono… ebbene, semplicemente al di là di ogni possibile descrizione. Non intendo dire», soggiunse, notando la penosa inquietudine del suo ospite, «che ogni cosa nel nostro esperimento debba necessariamente apparire per atterrirci, poichè questo sembra un caso relativamente semplice, ed è soltanto il carattere vendicativo dell’intelligenza che dirige questo elementale del fuoco, che provoca l’ansia e comporta un pericolo personale».
«È curioso», disse il Colonnello, con improvvisa loquacità, tirando un profondo sospiro, come evocando cose a lui disgustose, «che durante gli anni da me trascorsi fra le tribù delle colline dell’India settentrionale, mi sono imbattuto, personalmente imbattuto, in casi di sacrifici sanguinari offerti a certe divinità. Orbene, quando questi sacrifici furono improvvisamente interrotti, si sono verificati tutti i disastri immaginabili, finchè non furono nuovamente ripresi. Incendi scoppiarono nelle capanne, e perfino sugli indumenti degli indigeni… e… confesso di aver letto nel corso dei miei studi», fece un gesto verso i suoi libri e il tavolo pesantemente carico, «degli Yezidi della Siria che evocano fantasmi con l’incidersi le carni coi coltelli durante le loro danze turbinose… enormi globi di fuoco che diventano mostruose e terribili forme. E ricordo di aver pure letto che le forme emaciate e i pallidi volti degli spettri, che apparvero all’imperatore Giuliano, pretendevano di essere i veri immortali, dicendogli di rinnovare i sacrifici di sangue i “fumi” dei quali sin dall’insediamento del cristianesimo, avevano sospirato… Questi sarebbero, dunque, i fantasmi evocati dai riti del sangue».
Tanto io che il Dr. Silence ascoltavamo sorpresi, tanto inaspettato appariva quell’improvviso discorso, anche perchè tradiva nel vecchio soldato una scienza di gran lunga superiore a quella che ciascuno di noi si sarebbe atteso.
«Forse avrete letto anche», disse il dottore, «che le divinità cosmiche di razze selvagge, elementali per loro natura, sono state mantenute in vita per millenni da questi riti sanguinari?».
«No!», rispose, «questo mi è nuovo».
«Ad ogni modo», soggiunse il Dr. Silence, «sono lieto che non siate del tutto digiuno in argomento, poichè avrete così maggiore comprensione, e recherete quindi un maggior aiuto al nostro esperimento. Poichè, infatti, in questo caso, abbiamo bisogno del sangue per eccitare la creatura ad uscire dalla sua tana e racchiuderla in una forma…».
«Comprendo benissimo! Ho esitato soltanto», continuò più lentamente, come se sentisse di aver già detto troppo, «perchè desideravo essere ben sicuro che non era semplice curiosità, ma un reale senso della necessità a spingere a questo orribile esperimento».
«È la vostra salvezza, e quella della vostra gente, e quella di vostra sorella, che è in giuoco», rispose il dottore. «Una volta che ho veduto, spero di scoprire donde questo elementale proviene, e quale sia il suo vero scopo».
Il Colonnello riconfermò il suo consenso con un inchino.
«E la luna ci aiuterà», disse l’altro, «poichè essa sarà piena nelle prime ore del mattino, e questa specie di esseri elementali è sempre assai attiva nel periodo del plenilunio».
Così, infine, ci si accordò. Il Colonnello avrebbe provveduto al materiale per l’esperimento, e ci saremmo ritrovati a mezzanotte. Come avrebbe fatto, a quell’ora, non sapevamo, ma era affar suo. So soltanto che entrambi eravamo sicuri che avrebbe mantenuto la parola.
«Stanotte, dunque, nella lavanderia!», disse il Dr. Silence infine, per ribadire il progetto. «Noi tre soli… e a mezzanotte, quando la gente di casa dormirà e non potremo essere disturbati».
Scambiò uno sguardo significativo col nostro ospite, che, in quel momento, fu chiamato fuori. Era arrivato il medico di famiglia, e doveva accompagnarlo nella stanza della sorella.
Per il resto del pomeriggio il Dr. Silence rimase assente. Ebbi un vago sospetto che facesse un’ispezione segreta alla «cultura» ed anche alla lavanderia. Ad ogni modo, non lo vedemmo affatto. Agiva strettamente per conto suo. Si stava preparando per la notte, ne ero certo, ma sulla natura dei suoi preparativi non potevo che fare delle vaghe congetture. C’era del movimento nella sua stanza, lo udivo bene, e un profumo come d’incenso trapelava dalle fessure della porta. Sapendo che considerava i riti come veicoli di energie, le mie congetture non erano probabilmente del tutto sbagliate.
Anche il Colonnello rimase assente per la maggior parte del pomeriggio. Profondamente afflitto, non aveva quasi mai abbandonato il capezzale di sua sorella. In risposta alla mia domanda, quando c’incontrammo per un momento all’ora del tè, mi disse che, benchè essa talora tentasse di parlare, le sue parole erano del tutto incoerenti e isteriche. Era poi del tutto incapace di spiegare la natura di quanto aveva visto. Il dottore, disse, temeva che avesse ricuperato l’uso delle membra, soltanto per perdere quello della memoria, e forse perfino della mente.
«Allora il ricupero delle gambe è cosa permanente…» avventurai, trovando difficile di manifestare il mio rincrescimento. Rispose con una curiosa risatina: «Oh sì! Su tale punto non può esservi dubbio di sorta!».
Fu unicamente dovuto al caso fortuito dell’aver io inteso, naturalmente senza volerlo, un frammento di conversazione, se riuscii a saperne di più sulle condizioni nelle quali la vecchia zitella effettivamente si trovava. Mentre uscivo dalla mia stanza, infatti, il Colonnello e il medico scendevano insieme le scale, e le loro parole raggiunsero le mie orecchie prima che potessi avvertirli della mia presenza foss’anche con un semplice colpo di tosse.
«Allora dovete trovare un modo», il medico stava dicendo con decisione. «Non insisterò mai abbastanza su questo punto… e costi quello che costi, dev’essere lasciata tranquilla. Questi tentativi di uscire devono essere impediti… se necessario, con la forza. Questo desiderio di visitare un bosco o qualcosa di simile, di cui sta parlando, è, naturalmente, di natura isterica. Non si dovrà acconsentirvi, neanche per un momento».
«Sta bene!», sentii il Colonnello rispondere, mentre raggiungevano il vestibolo abbasso.
«Questo ha impressionato la sua mente per qualche ragione…» proseguì il medico, evidentemente in cerca di una spiegazione confortante. Poi la distanza mi impedì di sentire di più.
Il Dr. Silence non venne nemmeno a cena, con la scusa di un mal di capo. Benchè del cibo fosse mandato alla sua stanza, sono incline a credere che non l’abbia toccato, ma che abbia trascorso tutto il tempo a digiuno.
Ci ritirammo presto, desiderando che la gente di casa facesse altrettanto, e debbo confessare che alle dieci, quando porsi al mio ospite un temporaneo «buona notte», e tornai nella mia stanza per attendere ai preparativi mentali a me possibili, mi resi conto in maniera non troppo piacevole che quel convegno a mezzanotte nella lavanderia era un affare singolare e formidabile, e che vi erano certo dei momenti, in ogni avventura della vita, in cui un uomo saggio, che conosceva le proprie limitazioni, avrebbe dovuto ritirarsi discretamente. Se non fosse stato per il carattere peculiare del nostro capo, avrei probabilmente avanzato la miglior scusa possibile, e mi sarei concesso tranquillamente un buon sonno, per ascoltare all’indomani un racconto eccitante su quanto sarebbe successo. Ma con un uomo come il Dr. Silence, una mancanza di questo genere era fuori questione. Mi sedetti perciò davanti al mio fuocherello, contando i minuti e pensando ogni cosa possibile per rafforzare la mia risoluzione e fissare la mia volontà onde essere ragionevolmente certo che la padronanza di me stesso l’avrebbe spuntata contro tutti gli attacchi degli uomini, dei diavoli, o degli elementali.
III
Un quarto d’ora prima di mezzanotte, avvolto in un pesante mantello, e colle pantofole ai piedi, uscii cautamente dalla stanza e strisciai lungo il corridoio sino al principio delle scale. Davanti alla porta del dottore, mi fermai un momento per ascoltare. Il silenzio regnava dappertutto. La casa era sprofondata in una completa oscurità. Nessun barlume di luce usciva da alcuna porta. Soltanto dalla stanza dell’ammalata provenivano fievoli suoni, come di risatine e di discorsi incoerenti, cose che non erano certo adatte a rassicurare una mente già duramente provata. Mi affrettai a raggiungere il vestibolo e mi lanciai fuori dal portone, nella notte.
L’aria era pungente e gelida, pregna di fresche fragranze notturne. Il cielo era tutto stellato e una lieve brezza spirava in lontananza, sulle cime dei pini. Il mio sangue sussultò per un attimo, poichè le stelle infondevano coraggio. Ma subito dopo, quando svoltai all’angolo della casa, spingendomi furtivamente per il viale di ghiaia, il mio morale calò di nuovo, fatalmente. Laggiù, sopra i funerei pennacchi della «cultura» dei dodici acri, vedevo il giallo disco della luna fissare lo sguardo come qualche maestosa entità, quasi per vigilare sul progresso della nostra condanna. Vista attraverso i vapori dell’atmosfera, il suo volto appariva sinistro e lugubre, con la sua usuale espressione di benigna vacuità in qualche modo deformata. Scivolai lungo le ombre del muro, fissando lo sguardo in fondo.
La lavanderia, come già descritto, stava staccata dagli altri locali, ed aveva dietro dei folti cespugli d’alloro. L’orto era talmente a ridosso sull’altro lato, che i forti profumi del suolo e delle piante giungevano pesantemente fin lì. Le ombre della «cultura» infestata, enormemente allungate dalla luna, arrivavano fino ai muri e coprivano le tegole dei tetti di un manto funereo. Tanto acuti vigilavano i miei sensi in quel momento che credo di poter riempire un capitolo con gli interminabili particolari dell’impressione che ricevetti… ombre, profumi, figure, suoni… nel giro dei pochi secondi che rimasi ad attendere davanti alla porta di legno, chiusa.
Allora mi accorsi di qualcuno che muoveva verso di me attraverso il chiaro di luna, e la figura del Dr. Silence, senza soprabito e a capo scoperto, venne rapidamente e senza rumore a raggiungermi. I suoi occhi, lo vidi subito, erano meravigliosamente lucenti, il suo volto era di uno splendente pallore.
Mi oltrepassò senza dir parola, accennandomi di seguirlo, spinse la porta, ed entrò.
L’aria fredda di quel luogo ci accolse come quella di una vôlta sotterranea. Il pavimento a mattoni e le pareti d’intonaco bianco, rigate di vapore e di fumo, riverberavano il freddo nelle nostre facce. Dirimpetto a noi sbadigliava la nera gola dell’enorme camino aperto. La cenere dei fuochi di legna stava ancora ammucchiata e sparpagliata intorno al forno, e da ambo i lati della colonna del camino sporgente c’erano gli ampi vani contenenti le grandi caldaie gemelle per la bollitura degli indumenti. Sui coperchi di quelle caldaie stavano due piccole lampade ad olio, ombreggiate in rosso, che diffondevano una luce debole. Immediatamente di fronte al camino, vi era una piccola tavola rotonda, con tre sedie collocate intorno. Al di sopra, i finestrini stretti come feritoie, praticati nell’alto delle pareti, puntavano contro un cupo intreccio di travi di legno mezzo sperdute nell’ombra, e più oltre si intravedeva la scura vôlta del tetto. Era certo triste e inospitale quell’ambiente, con tutta quella luce rossa. Mi ricordava un che di conventuale, un vuoto di banchi o di pulpito, un che di laido e squallido, e fui, forzatamente, colpito dal contrasto fra gli usi normali, cui il luogo ordinariamente era adibito, e il macabro scopo medioevale che, quella notte, ci aveva riuniti sotto il suo tetto.
È possibile che un brivido involontario mi pervadesse, poichè il mio compagno si volse a me, con uno sguardo fiducioso, per rassicurarmi. Era talmente padrone di sè, che mi sentii subito più rincuorato. Incontrare il suo sguardo in presenza del pericolo era come imbattersi in una ringhiera immaginaria che guidasse e sostenesse il pensiero lungo gli orli vertiginosi dell’abisso.
«Sono pronto!», bisbigliai, volgendomi per attendere l’arrivo del Colonnello.
Egli accennò con la testa, fissando sempre i suoi occhi nei miei. Il nostro bisbigliare risuonava vuoto, ripercuotendosi lassù fra le travi.
«Sono contento che siate qui», disse. «Non tutti ne troverebbero il coraggio. Conservate la padronanza dei vostri pensieri, e immaginate sempre il guscio protettivo intorno a voi… intorno al vostro essere interiore».
«Sono perfettamente a posto», ripetei, maledicendo i denti che mi battevano.
Egli mi afferrò la mano e la strinse. Scuotendola, sembrava che versasse in me qualche cosa della sua inesprimibile fiducia. Gli occhi e le mani di un uomo forte, possono toccare l’anima. Credo che indovinasse il mio pensiero, poichè un sorriso passeggero apparve un attimo sulle sue labbra.
«Vi sentirete più a vostro agio», disse a voce bassa, «quando la catena sarà completa. Sul colonnello possiamo contare, naturalmente. Ricordate, tuttavia», soggiunse ammonendomi, «che egli potrà forse venire dominato… posseduto… quando la cosa accadrà, perchè non sa come resistere. E per spiegare la bisogna a un uomo di tal fatta…!». Si strinse espressivamente nelle spalle. «Ma sarà una cosa passeggera, e veglierò perchè nulla gli accada».
Guardò quanto era stato predisposto, ed approvò.
«La luce rossa», disse, indicando le lampade in ombra, «possiede il più basso ritmo di vibrazione. Le materializzazioni vengono dissipate dalla luce forte… non si formerebbero, o non prenderebbero consistenza… nelle vibrazioni rapide».
Non ero certo di approvare pienamente quella luce scura, poichè nel buio completo vi è almeno qualche cosa di protettivo… la coscienza di non poter essere visti, probabilmente… ma ricordai l’avvertimento di mantenere i miei pensieri costanti, ed evitai di dar loro consistenza.
Fuori risuonò un passo, e la figura del Colonnello apparve sulla soglia. Benchè fosse entrato sulla punta dei piedi, fece parecchio strepito, perchè aveva i movimenti impediti dal peso che portava. Vedemmo infatti che reggeva con ambo le mani, tenendolo lontano dal corpo, un grosso recipiente gialliccio, con l’apertura coperta da un panno bianco. Il suo volto, notai, era rigidamente composto. Anch’egli era completamente padrone di sè. Osservando la sua impassibilità, compresi cosa volesse dire il. Dr. Silence, quando lo descriveva come un uomo «su cui si poteva contare».
Credo che non ci fosse null’altro, al di fuori di quella rigidità dei suoi duri lineamenti, e di un certo grigiore della carnagione, a tradire il tumulto delle emozioni che senza dubbio si agitavano nel suo animo. La qualità di quei due uomini, ciascuno a modo suo, mi elevarono il morale al punto che, una volta che il portone fu chiuso e ci fummo scambiati dei silenziosi saluti, tutto il latente coraggio che possedevo si trovò lanciato alla riscossa, e mi sentii sicuro di me stesso.
Il Colonnello collocò il recipiente accuratamente nel centro del tavolo.
«Mezzanotte», disse brevemente, guardando l’orologio, e tutti e tre ci avviammo alle nostre sedie.
Là, nel mezzo di quel luogo freddo e silenzioso, sedemmo col vile recipiente davanti a noi. Un fumo sottile, quasi impercettibile si levò attraverso l’aria umida, dalla superficie del panno bianco e scomparve verso l’alto, attraversando la zona di luce rossa ed entrando nelle ombre cupe proiettate dal muro sporgente del camino.
Il dottore ci aveva indicato i nostri posti. Mi trovai seduto con la schiena verso la porta, dirimpetto al forno. Il Colonnello era alla mia sinistra e il Dr. Silence alla mia destra, per metà di fronte a me, quest’ultimo più nell’ombra. Dividevamo in tal modo il piccolo tavolo a sezioni uguali e, reclinati sulle nostre sedie, attendemmo silenziosamente gli eventi.
Per circa un’ora credo non vi sia stato il minimo rumore entro quelle quattro mura. Le nostre calzature non facevano alcun attrito sul pavimento ghiaioso. Trattenevamo quasi completamente il respiro. Perfino il fruscìo dei nostri vestiti, mentre ogni tanto cambiavamo posizione sulle sedie, era impercettibile. Un assoluto silenzio ci avvolgeva… il silenzio della notte, di chi ascolta, il silenzio di un’attesa angosciosa, ossessionante. Lo stesso gorgoglìo della lampada era troppo debole per essere inteso. Se la luce avesse avuto suono, credo che avremmo notato il passo argentino del chiaro di luna mentre entrava attraverso le alte finestre e proiettava sul suolo le sue deboli tracce.
Sedevamo così, come figure di pietra, senza parole e senza gesti. I miei occhi correvano incessantemente dal recipiente alle loro facce, e dalle loro facce al recipiente. Potevano essere delle maschere, poichè non davano alcun segno di vita. Il lieve svaporare dell’orrido contenuto sotto il panno bianco aveva da lungo tempo cessato di essere visibile.
Mentre la luna si alzava nel cielo, il vento si levava con essa. Sospirava come una lieve ala che passasse sopra il tetto. Strisciava nel modo più delicato intorno alle mura. Agghiacciava il pavimento sotto i nostri piedi. Vedevo mentalmente il desolato paesaggio delle brughiere fluttuare come un mare intorno alla vecchia casa, nella distesa senza alberi delle solitarie colline. Vedevo pure la «cultura», e immaginavo di udire i lugubri sussurri che dovevano ora agitarsi fra le cime dei suoi alberi, mentre la brezza giuocava fra i fusti contorti. Nel fondo del locale, dietro di noi, i raggi del chiaro di luna s’incrociavano lentamente.
Era trascorsa un’ora in quella logorante e ininterrotta attesa, e avrei giurato che fosse circa l’una di mattina, quando ci giunse il latrato dei cani nel cortile delle stalle. Vidi allora il Dr. Silence muoversi improvvisamente sulla sedia e rizzarsi in un atteggiamento di attenzione. Ogni forza nel mio essere si organizzò immediatamente, per una più acuta vigilanza. Il Colonnello si mosse pure, benchè lentamente, senza alzare gli occhi dal tavolo davanti a lui.
Il dottore stese il braccio e levò il panno bianco dal recipiente.
Fu forse l’immaginazione a persuadermi che il rosso bagliore della lampada diminuisse e che l’aria sopra il tavolo davanti a noi si addensasse. Avevo atteso qualche cosa per tanto tempo che il movimento dei miei compagni, e il sollevamento del panno, avrebbero facilmente potuto causare la momentanea illusione che qualche cosa aleggiasse nell’aria davanti al mio viso, toccandomi la pelle delle gote con un fruscìo, come di seta. Ero tuttavia sicuro di non illudermi, quando vidi il Colonnello alzare lo sguardo, in quello stesso momento, e guardare al di sopra della spalla, come se i suoi occhi seguissero i movimenti di qualche cosa che compisse un andirivieni nel locale. Il Colonnello si abbottonò poi il soprabito più stretto intorno al corpo e i suoi occhi cercarono dapprima la mia faccia e poi quella del dottore. E non fu affatto illusione quando vidi il volto di quest’ultimo oscurarsi, in certo modo, come soffuso da una consistenza di ombre. Vidi le sue labbra contrarsi e la sua espressione farsi dura e torva. Mi venne poi in mente che, naturalmente, quell’uomo non ci aveva detto che una parte delle sue esperienze in quella casa, e che vi fosse ben altro, che non si sarebbe mai deciso a rivelare. Ne ero sicuro. Il modo col quale si volse e si guardò intorno tradiva certamente una familiarità con cose diverse da quelle che ci aveva descritte. Non era soltanto la vista di un fuoco che lo occupava. Era la vista di qualche cosa di vivente, di intelligente, qualche cosa che poteva eludere la sua ricerca. Era una persona! Era sempre la vigilanza su quell’entità antichissima, che cercava di ossessionarlo.
Il modo con cui il Dr. Silence cambiò il suo sguardo, benchè fosse soltanto per un’espressione di più aperto incoraggiamento, confermò la mia impressione.
«Possiamo essere pronti, ora», lo udii sussurrare, e compresi che le sue parole erano intese come un avvertimento e un monito, e mi irrigidii mentalmente col massimo delle mie forze.
Eppure, già molto prima il Colonnello si era volto per guardarsi intorno, e già molto prima che il dottore avesse confermato la mia impressione che le cose finalmente stavano per mettersi in moto, mi ero accorto nel modo più singolare che l’ambiente conteneva qualche cosa, oltre alle nostre tre personalità. Questo aumento del nostro numero si era verificato contemporaneamente al levarsi del vento. Sembrava quasi che il latrato dei cani l’avesse segnalato. Non so dire come sia possibile accorgersi che uno spazio vuoto, improvvisamente si sia fatto… non vuoto, quando il nuovo arrivo non sia materiato di nulla che colpisca l’uno o l’altro dei sensi, poichè il riconoscimento di un «invisibile», come cambiamento nell’equilibrio delle forze personali, in un gruppo umano, è indefinibile e al di là di ogni prova. Eppure, è inconfondibile. Sapevo perfettamente in quale momento l’atmosfera entro quelle quattro mura si fosse caricata della presenza di altri esseri viventi all’infuori di noi stessi. E riflettendoci, sono convinto che entrambi i miei compagni lo sapessero.
«Osservate la luce» disse il dottore sotto voce. Mi accorsi allora che non era soltanto immaginazione, quella mia impressione che l’aria si fosse fatta più scura. Il modo con cui egli si volse per esaminare il volto del nostro ospite mi diede la sensazione di una scossa elettrica che attraversasse ogni nervo del mio corpo.
Eppure, non era di terrore quello che provavo, ma piuttosto una specie di vertigine mentale, una sensazione di trovarmi quasi sospeso a remota e paurosa altezza, dove potevano verificarsi cose che non si sarebbero mai potute verificare nell’ambito dell’esperienza umana. L’orrore può averne costituito un coefficente, ma in sostanza non era orrore, e in nessun caso un orrore spettrale.
Pensieri insoliti cominciarono a picchiarmi nel cervello come piccoli martelli, in modo delicato ma persistente, cercando accesso. Il loro spontaneo afflusso cominciò a sciacquare lungo le remote spiagge della mia mente; le correnti di sensazioni inconsuete, a sollevarsi sui limiti lontani della mia coscienza. Mi accorsi che esistevano pensieri, che le mie fantasticherie precedenti mi avevan soltanto fatto intravvedere. Parti del mio essere si agitavano, mentre non s’erano mai agitate prima d’allora, e cose antiche e inesplicabili affioravano alla superfice della mia mente e mi facevano cenno di inseguirle. Mi sentivo come sul punto di involarmi, in direzione di qualche immane tangente, verso uno spazio fino ad allora sconosciuto, perfino nei sogni. Tanto singolare era l’effetto prodotto su di me, che fui ben lieto di ancorare la mia mente, e i miei occhi, sulla dominante personalità del dottore che stava al mio fianco, poichè là, me ne accorsi, potevo sempre attingere forze di salvezza e di sicurezza.
Con vigoroso sforzo di volontà ritornai alla scena davanti a me e cercai di concentrare con pensieri più decisi la mia attenzione sul tavolo, e sulle silenziose figure sedute intorno ad esso. Vidi allora che erano subentrati alcuni cambiamenti nel punto dove sedevamo.
Le chiazze di chiaro di luna sul pavimento, notai, si erano stranamente oscurate. I volti dei miei compagni, di fronte, non erano chiaramente visibili come prima. La fronte e le gote del Colonnello luccicavano di sudore. Mi accorsi inoltre che uno straordinario cambiamento era subentrato nella temperatura dell’atmosfera. Il calore era talmente aumentato da avere un penoso effetto, non soltanto sul Colonnello, ma su noi tutti. Era opprimente e innaturale. Ci faceva ansare in modo penoso.
«Siete il primo a sentirlo», disse il Dr. Silence sottovoce al Colonnello. «Vi trovate in contatto più stretto, naturalmente…».
Il Colonnello tremava, e appariva vivamente preoccupato. Le sue ginocchia tremavano fortemente, in modo che si sentiva lo strascicare dei suoi piedi calzati. Chinò la testa per far capire che aveva udito, ma non diede altra risposta. Penso che, anche in quel solo attimo, gli fosse difficile conservare il dominio su se stesso. Sapevo contro cosa stava lottando. Come il Dr. Silence mi aveva prevenuto, stava per essere ossessionato, e opponeva una selvaggia, sebbene inutile resistenza.
Nel frattempo, un curioso senso turbinante di euforia cominciò a invadermi. Il calore in aumento era delizioso, recava un senso di intensa attività, di pensieri balenanti nel cervello ad alta velocità, di vivide immagini nella mente, di fieri desideri, accendendo e avvivando le energie in ogni parte del corpo. Non ero cosciente di alcun malore fisico, come lo sentiva invece il Colonnello, ma provavo soltanto un vago sentimento che lo sforzo potesse improvvisamente diventare troppo intenso… che avrei potuto consumarmi… che la mia personalità, come pure il mio corpo, avrebbero potuto risolversi in una fiamma di puro spirito. Cominciai a vivere in un ritmo troppo vividamente intenso, per poter durare. Era come se migliaia di pensieri deliranti mi assediassero…
«Fermo!» bisbigliò la voce del Dr. Silence al mio orecchio. Alzai lo sguardo con un sussulto, vedendo che il Colonnello si era alzato dalla sedia. Anche il dottore si alzò. Ne seguii l’esempio, e per la prima volta guardai nel recipiente. Con mio stupore e massimo orrore vidi che il contenuto si agitava. Il sangue bolliva!
Al resto dell’esperimento assistemmo in piedi. Tutto ebbe luogo con una curiosa immediatezza. Non c’era più da sognare, almeno per me.
Non dimenticherò mai la figura del Colonnello, in piedi accanto a me, ritto e immobile, piantato saldamente sulle gambe, con lo sguardo errante, confuso oltre ogni dire, eppur tutto, rabbiosamente proteso nella lotta. Il rosso bagliore delle lampade spiccava sulle sue gote grondanti, contro lo sfondo delle bianche pareti, gli occhi sfavillavano nel mortale pallore della pelle. Respirava forte e tendeva con sforzi convulsi le mani e il corpo per conservare la padronanza di sè. Tutto il suo essere era teso nella lotta selvaggia, ma nulla era visibile d’intorno contro cui potersi avventare… Stava là, imperterrito, ad affrontare il nemico. Quello strano contrasto fra la pelle pallida e il volto ardente non l’avevo mai visto prima, nè desidero rivederlo mai più.
Ciò che ha lasciato, tuttavia, un’impressione acutissima nella mia memoria, fu l’ombra oscura che cominciò a strisciare sopra il suo volto, obliterandone le fattezze, celandone i lineamenti umani, sottraendolo, palmo per palmo, alla vista. Il fenomeno fu per me il primo avvertimento che il processo di materializzazione era all’opera. Il suo volto sembrava rannuvolarsi. Dovevo muovermi da una parte all’altra, per poterlo vedere di continuo, per non perderlo completamente di vista. Compresi soltanto allora che quell’ombra oscura non era esattamente sul volto del Colonnello. Qualche cosa si era invece inserito fra me e lui, nascondendone il viso con l’effetto di un cupo velo. Qualche cosa si era apparentemente levato attraverso il pavimento e passava lentamente nell’aria al di sopra del tavolo e al di sopra del recipiente. Il sangue nel recipiente era inoltre notevolmente diminuito, in confronto di prima.
In seguito al cambiamento nell’aria, davanti a noi, mi parve subentrasse, allo stesso tempo, un ulteriore cambiamento nel volto del Colonnello. Una metà di esso era rivolta verso le lampade rosse, mentre l’altra era rischiarata dal pallido chiarore della luna che cadeva obliquo dalle alte finestre, per cui risultava difficile precisare il cambiamento stesso nei minuti particolari.
Mi sembrava che, mentre i lineamenti, gli occhi, il naso, la bocca, rimanevano inalterati, lo sguardo che li animava, avesse subìto qualche profonda trasformazione. L’impronta di una nuova forza era infatti subentrata nel volto e vi aveva impresso le tracce di un’espressione oscura, e in qualche modo, inesplicabile, terribile.
Improvvisamente, egli aprì la bocca, e parlò. Il suono di quella voce completamente mutata, per quanto fosse profonda e musicale, mi fece gelare il sangue nelle vene e battere il cuore con una sconcertante rapidità. La entità misteriosa, come già aveva minacciato, gli dominava ora il cervello, facendo uso della stessa bocca.
«Vedo del nero, come il nero d’Egitto, davanti al mio viso», dicevano le parole di quella voce a me sconosciuta che sembrava metà sua e metà di altra persona. «E fuori da quel nero, essi vengono, vengono…».
Diedi un balzo, atterrito. Il dottore si volse per guardarmi un istante, e ritornò poi nella posizione primitiva per concentrare la sua attenzione sulla figura del nostro ospite. Intuii che stava sorvegliando la più strana contesa che uomo abbia mai vista… Sorvegliava allo scopo di intervenire e, se necessario, proteggere.
«Sta per essere dominato… posseduto», mi sussurrò nell’ombra. Il suo volto aveva una meravigliosa espressione, metà di trionfo, metà di ammirazione.
Mentre il Colonnello parlava, mi parve che l’ombra aumentasse. Si levava in dense volute, avvolgendo e nascondendo gli occhi ed i volti. Affiorava dal basso… Era una tenebra paurosa che sembrava assorbire tutte le radiazioni di luce esistenti nel fabbricato, non lasciando in sua vece che uno spettro di radiazione. Poi, da quel mare crescente di ombre, uscì una luce pallida e spettrale che si diffuse progressivamente intorno a noi, e al centro di quella luce vidi addensarsi e raccogliersi le sagome di fuoco. Non erano sagome umane, nè forme di alcuna cosa vivente, ma semplici contorni di fuoco che tracciavano corpi luminosi in forma di globi, triangoli, croci e varie figure geometriche. Quelle forme diventavano sempre più luminose, si facevano poi evanescenti, ridiventavano splendenti, come se un palpito li animasse. Passavano rapidamente di qua e di là, attraverso l’aria, levandosi e abbassandosi, vicinissime al Colonnello, spesso raccogliendosi intorno al suo capo e alle sue spalle. In certi momenti, sembrava si adagiassero addirittura su di lui come giganteschi insetti di fiamma. Erano inoltre accompagnate da un debole suono sibilante, lo stesso che avevamo sentito quel pomeriggio nella «cultura».
«Gli elementi del fuoco che precedono il loro maestro», disse il dottore sottovoce. «Siate pronto».
E mentre quel magico spiegamento di sagome di fuoco s’illuminava e svaniva alternativamente, e i sibili echeggiavano fievoli fra le oscure travi del soffitto, udivamo la voce paurosa uscir a intervalli dalle labbra del Colonnello. Era una voce di potenza, magnifica, che non so descrivere, con un tono di maestà nelle sue cadenze. Mentre l’ascoltavo col cuore che batteva rapido, immaginavo che fosse la stessa antichissima voce del Tempo che riecheggiasse attraverso immensi corridoi di pietra, dalle profondità di vasti templi, dal cuore stesso delle tombe scavate nelle montagne.
«Ho visto il mio divino Padre, Osiride» tuonò la grande voce. «Ho diradato le tenebre della notte. Sono ricomparso sulla terra. Sono una cosa sola con le Divinità sideree!».
Qualche cosa di grandioso si manifestò sul volto del Colonnello. Guardava fisso dinanzi a sè, come se non vedesse nulla.
«Fate attenzione!», mi sussurrò ancora una volta il Dr. Silence all’orecchio, e il suo sussurro sembrava mi arrivasse da molto lontano.
Di nuovo la bocca si aprì e la paurosa voce riecheggiò tonante.
«Thoth ha perduto le bende di Set che mi imbavagliavano la bocca. Ho preso il mio posto nei grandi venti del cielo».
Udii il lieve vento della notte, come una lugubre voce dai millenni, alitare intorno alle mura e sopra il tetto.
«Ascoltate!» disse il dottore al mio fianco, e il suono della voce continuò:
«Mi sono nascosto con voi,… oh voi stelle che non diminuite mai! Ricordo il mio nome… nella… casa… del… fuoco!».
La voce cessò e il suono si dileguò. Qualche cosa parve allentarsi nel viso e nel corpo del Colonnello. Il terribile sguardo sparì dal suo volto. L’entità che lo ossessionava se n’era andata.
«Il grande rituale», disse il Dr. Silence al mio fianco, sotto voce, «il Libro dei Morti. Ora lo abbandona! Presto il sangue lo ricostituirà nel fisico».
Il Colonnello che per tutto quel tempo era rimasto assolutamente immobile, improvvisamente barcollò. Credetti stesse per cadere. Se il dottore non lo avesse prontamente sostenuto, si sarebbe probabilmente afflosciato in preda al deliquio.
«Sono ebbro del vino di Osiride», gridò, e questa volta sembrava di più la sua voce. «Ma Oro, l’eternamente vecchio, mi sta d’intorno, sul mio sentiero… per… la salvezza». La voce si affievolì e venne a mancare, terminando in un lamento di spasimo.
«Fate la massima attenzione ora!», disse il Dr. Silence, parlando questa volta ad alta voce. «Poichè, dopo il lamento, verrà il fuoco!».
Cominciai a tremare involontariamente. Un pauroso cambiamento si era improvvisamente fatto sentire nell’aria. Le mie gambe diventarono deboli come carta sotto il mio peso. Dovevo sostenermi appoggiandomi al tavolo. Vidi che anche il Colonnello si appoggiava in avanti, in una specie di languore. Le sagome del fuoco erano tutte svanite, ma il suo volto era rischiarato dalle lampade rosse e il chiaro di luna, pallido e cangiante, si levava dietro di lui, come una nebbia.
Guardavamo entrambi verso il recipiente, ora quasi vuoto. Il Colonnello stava tanto curvato su di esso, che temevo ad ogni minuto che perdesse l’equilibrio e vi cadesse sopra. L’ombra, che da tanto tempo si trovava in via di formazione, cominciò alfine a prendere contorni e consistenza materiale, nell’aria, davanti a noi.
Allora il Dr. Silence si avanzò rapidamente e prese posizione fra noi e l’ombra. Eretto, formidabile, assolutamente padrone della situazione, lo vedevo là, ritto in piedi, col viso calmo e quasi sorridente, col fuoco negli occhi. La sua influenza protettiva era sbalorditiva, incalcolabile. Perfino l’odioso spavento che provavo alla vista della creatura che assumeva vita e sostanza dinanzi a noi, parve in qualche modo diminuire, cosicchè fui in grado di tener gli occhi fissi nell’aria, al di sopra del recipiente, senza eccessivo terrore.
Mentre prendeva forma, sorgendo dal nulla e precisandosi sempre più nei contorni, un completo e sorprendente silenzio calò sul fabbricato. Una calma di millenni, come l’improvviso centro di assoluta tranquillità nel cuore del ciclone turbinante, discese nella notte, e da quella calma, come già dalle emanazioni del sangue fumante, uscì la forma dell’antica entità che aveva lanciato in missione l’elementale del fuoco. Essa crebbe, si offuscò e si solidificò davanti ai nostri occhi. Si levava esattamente al di là del tavolo, cosicchè la parte inferiore rimaneva invisibile, ma vedevo disegnarsi i contorni nell’aria, come lentamente rivelati dal levarsi di un velario. A quanto mi sembrava, non si era ancora del tutto concentrata nelle proporzioni normali. Era diffusa da tutti i lati, nello spazio, gigantesca, benchè rapidamente in atto di condensarsi. Vidi le spalle, colossali, il collo, la parte inferiore delle mascelle oscure, la bocca terribile, e poi i denti e le labbra… e mentre il velo sembrava levarsi sempre più su quel tremendo… vidi le ossa del naso e degli zigomi. Ancora un attimo, ed avrei potuto guardarlo dritto negli occhi…
Ma quello che fece il Dr. Silence in quel momento fu talmente inaspettato, e mi colse talmente di sorpresa, che non riuscii mai a comprenderne la natura.
Il dottore non ha mai ritenuto opportuno, anche in seguito, di spiegarmi dettagliatamente il suo atto. Emise infatti un suono che implicava una nota di comando… e, così facendo, avanzò di un passo, frapponendosi tra me e quel volto. La figura, proprio nel momento in cui stava per completarsi e rivelarsi, scomparve così al mio sguardo… Ho sempre pensato che il dottore l’avesse fatto di proposito.
«Il fuoco!» gridò egli in quel momento. «Il fuoco! Attenzione!».
Vi fu un improvviso scroscio come di fiamma dalla cavità del recipiente e nello spazio di un solo secondo tutto s’illuminò a giorno. Un lampo abbagliante mi passò attraverso il viso. Vi fu, per un solo istante, un calore tale che avrebbe dovuto consumare la pelle, la carne e le ossa. Poi si udirono dei passi, e intesi il Colonnello emettere un forte grido, il grido più selvaggio di qualunque grido umano che io abbia mai udito. Il calore eccezionale assorbì d’impeto tutto il respiro dei miei polmoni, e la fiammata di luce, dileguandosi, offuscò la mia vista immergendola nelle più profonde tenebre.
Quando ricuperai l’uso dei sensi, alcuni momenti più tardi, vidi che il Colonnello, con un viso pallido come la morte, di un pallore stranamente macchiato, mi si era fatto più vicino. Il Dr. Silence stava accanto a lui con una espressione di trionfo e di successo negli occhi. Un minuto dopo, il Colonnello cercò di afferrarmi una mano. Poi, incapace di sostenersi oltre, barcollò e cadde con fracasso sul pavimento di mattoni.
Dopo la vampata, un vento violentissimo infuriò intorno al fabbricato come se volesse svellerne il tetto, ma tutto si acquetò subito dopo. Nella calma intensa che seguì, vidi che la forma si era dileguata. Il dottore stava chino sul Colonnello disteso sul pavimento, cercando di sollevarlo e metterlo a sedere.
«Luce!», disse egli con calma. «Più luce! Allontanate le ombre!».
Il Colonnello si era frattanto messo a sedere e il bagliore delle lampade non più ombreggiate, gli illuminò il viso. Era di un pallore terreo, aveva i lineamenti contratti ed era ancora tutto sudato. L’espressione degli occhi e intorno agli angoli della bocca denotava chiaramente che, in breve spazio di tempo, doveva essere invecchiato di parecchi anni. L’espressione di sforzo e di ansia lo aveva però abbandonato. Appariva più sollevato.
«Se n’è andato!» disse, guardando intontito il dottore. «Grazie a Dio, se n’è andato!». Si guardò fisso intorno, come per sincerarsi dove si trovasse. «Mi ha dominato… Si è impossessato di me?… Ho detto delle cose insensate?…» chiese affannosamente. «Poi è venuto il calore, e non ricordo più nulla…».
«Vi sentirete meglio, fra pochi minuti», disse il dottore.
Vidi, con infinito orrore che si tergeva furtivamente alcune macchie oscure dal viso. «Il nostro esperimento è stato un successo e…».
Mi lanciò così dicendo una rapida occhiata, invitandomi a nascondere il recipiente che si trovava ancora fra me e il nostro ospite. Lo misi subito sotto il coperchio della caldaia più vicina.
«…e nessuno di noi ne ha avuto danno», terminò.
«E i fuochi?» chiese il Colonnello, ancora intontito, «non ce ne saranno più?».
«Il fenomeno è dissipato… per lo meno in parte», rispose il Dr. Silence con prudenza.
«E l’uomo dietro il fucile…», continuò il Colonnello, rendendosi conto soltanto a metà di quanto stava dicendo, «…lo avete scoperto quello?».
«Una forma materializzata», disse il dottore brevemente. «So con certezza, ora, cosa fosse l’intelligenza direttiva che si nascondeva dietro tutto questo».
Il Colonnello si fece forza e si rimise in piedi. Si vedeva che aveva ancora le idee confuse. Ma la memoria gradatamente gli ritornava e cercava nuovamente di orientarsi. Rabbrividì un po’, perchè il luogo era diventato improvvisamente freddo. L’aria era di nuovo vuota, senza vita.
«Vi sentite tutti bene, ora», concluse il Dr. Silence, nel tono di un uomo che constata un fatto.
«Grazie a voi… sì!», rispose il Colonnello. Trasse un profondo respiro, contrasse la faccia, e abbozzò perfino un sorriso. Mi fece pensare a un uomo che tornasse dal campo di battaglia, con le tracce del combattimento ancora sul corpo, ma incurante delle proprie ferite. Poi, si volse gravemente verso il dottore con una domanda negli occhi. La memoria gli era ritornata. Era completamente rientrato in sè.
«Precisamente ciò che sospettavo», disse calmo il dottore. «Un elementale del fuoco, lanciato in missione ai giorni di Tebe, parecchi secoli avanti Cristo. Questa notte, per la prima volta nel corso dei millenni, è stato liberato dall’incantesimo che originariamente lo soggiogava».
Lo guardammo fissi per lo stupore, mentre il Colonnello apriva le labbra per pronunciare delle parole che gli morirono però sulle labbra.
«Se scavassimo», continuò significativo il dottore, additando il pavimento dove l’oscurità si era infittita, «troveremmo certamente qualche nesso sotterraneo… probabilmente una galleria… che conduce al bosco dei dodici acri. Dev’essere stata costruita… dal vostro predecessore».
«Una galleria costruita da mio fratello!» gridò l’altro. «Ma allora mia sorella dovrebbe sapere… viveva qui con lui…» e s’interruppe d’improvviso.
Il Dr. Silence chinò lentamente il capo. «Ne sono convinto», disse tranquillamente. «Vostro fratello, senza dubbio, era altrettanto tormentato quanto lo siete stato voi in seguito», continuò dopo una pausa mentre il Colonnello sembrava profondamente immerso nei suoi pensieri. «Cercava di ritrovar la pace col seppellirla nel bosco, e col cingere poi il bosco, in un ampio cerchio magico, con gli incantesimi delle antiche formule. Così, le stelle che quell’uomo ha viste splendere…».
«Ma col seppellire che cosa?» chiese debolmente il soldato, appoggiandosi alla parete come per cercarvi un sostegno.
Il Dr. Silence ci guardò entrambi attentamente per un attimo prima di rispondere. Credo che pensasse se doveva dircelo in quel momento, o aspettare quando la ricerca fosse stata assolutamente completa.
«La mummia!», disse infine placidamente. «La mummia che vostro fratello ha levato dal suo luogo di riposo di secoli, e ha portato a casa… qui!».
Il Colonnello si lasciò cadere sulla sedia più vicina, pur rimanendo attento senza fiatare, a ogni sua parola. Era troppo stupito per trovar parole.
«La mummia di qualche importante personaggio… probabilmente di un sacerdote… protetta contro la violazione e la profanazione, dalla magia cerimoniale dell’epoca. Sapevano infatti proteggere i resti mortali mummificati e chiudere con essi nella tomba, una forza elementale che si sarebbe scagliata, anche dopo millenni, contro chiunque avesse osato la profanazione. In questo caso è stato un elementale del fuoco».
Il Dr. Silence attraversò il pavimento e spense le lampade, una dopo l’altra. Non aveva più nulla da dire, per il momento. Seguendo il suo esempio, ripiegai il tavolo portatile e tolsi le sedie. Il nostro ospite, tuttora attonito e silenzioso, si diresse verso la porta.
Rimovemmo ogni traccia dell’esperimento, riportando il recipiente vuoto in casa, nascosto sotto un panno.
L’aria era fresca e profumata mentre ci dirigevamo verso casa, le stelle cominciavano a impallidire e il vento fresco della mattina soffiava da oriente dove il cielo già accennava le prime luci del giorno. Erano da poco passate le cinque.
Entrammo nell’atrio senza far rumore e chiudemmo la porta. Proseguimmo poi sulla punta dei piedi su per le scale verso le nostre stanze. Il Colonnello, mentre ci augurava la buona notte, ci sussurrò che, se lo desideravamo, lo scavo avrebbe potuto essere iniziato il giorno stesso.
Lo vidi dirigersi verso la stanza di sua sorella, dove scomparve.
IV
Nemmeno i misteriosi accenni alla mummia, nè la prospettiva di una rivelazione in seguito allo scavo progettato, valsero ad impedire la reazione che seguì l’intensa eccitazione delle ultime dodici ore. Dormii infatti di un sonno profondo, senza sogni e indisturbato. Mi destai di soprassalto, sentendomi toccare una spalla. Il Dr. Silence stava ritto accanto al mio letto, pronto per uscire.
«Venite!», disse. «È l’ora del tè. Avete dormito ben dodici ore!».
Balzai dal letto e feci toletta in fretta e furia, mentre il mio compagno sedeva e parlava. Aveva l’aspetto fresco e riposato. Il suo contegno era perfino più tranquillo del solito.
«Il Colonnello ha già provveduto alle vanghe e alle zappe. Andiamo a dissotterrare subito la mummia!» disse. «Potremo così ripartire col treno di domani».
«Anche questa sera, se volete!», dissi francamente.
Ma il Dr. Silence scosse la testa.
«Devo andare sino in fondo», disse gravemente, in un tono che mi fece pensare che prevedesse altre serie complicazioni.
«Questo è un caso veramente tipico fra tutti quelli che riguardano l’ossessione derivante dalle mummie. Non sono casi da prendersi alla leggera, infatti», spiegò. «Le mummie dei personaggi più importanti come i re, i sacerdoti e i maghi, erano seppellite con un cerimoniale profondamente significativo, e assai efficacemente protette, come avete visto, contro la profanazione, e soprattutto contro la distruzione.
«Per convinzione generale», proseguì, anticipando le mie domande, «si riteneva, naturalmente, che la perpetuità della mummia garantisse quella del suo Ka, cioè lo spirito del suo possessore. Ma non è improbabile che l’imbalsamazione magica fosse pure usata per ritardare la reincarnazione. La preservazione del corpo doveva cioè prevenire il ritorno dello spirito alla pena e alle costrizioni della vita terrena. Sapevano, ad ogni modo, applicare potenti forze a guardia delle mummie, allo scopo di trattenere i defunti. Chiunque osasse rimuovere la mummia, e specialmente distruggerla… ebbene», aggiunse in modo significativo, «avete visto… e vedrete!».
Colsi il suo volto nello specchio, mentre mi abbottonavo il colletto. Era profondamente serio. Non poteva esserci dubbio. Parlava di cose alle quali credeva e che conosceva bene.
«Il fratello del Colonnello che ha portato qui la mummia dev’essere stato ossessionato egli pure», continuò. «Ha cercato infatti di bandirla per sempre sotterrandola nel bosco e descrivendo un cerchio magico attorno ad essa per contenerla e imprigionarla. Dev’essere giunto in qualche modo a conoscenza del cerimoniale originario, almeno parzialmente. Le stelle che quel tale vedeva, erano senz’altro i resti dei pentagrammi ancora fiammeggianti che egli ha tracciato a intervalli nel cerchio magico. Non ne sapeva tuttavia abbastanza, o forse non gli era noto che il guardiano della mummia fosse una forza di fuoco. Il fuoco non può essere circoscritto dal fuoco, benchè, come avete visto, può esserne scaricato».
«E allora, quella terribile figura nella lavanderia?…» chiesi, sorpreso e lieto di trovarlo tanto comunicativo.
«Senza dubbio era l’effettivo Ka della mummia, sempre in opera dietro il suo agente, l’elementale, e risalente, come è assai probabile, ad alcuni millenni or sono».
«E la Signorina?…» domandai.
«Ah, la Signorina Wragge!», ripetè con maggiore gravità. «La Signorina Wragge…»
Ma in quel momento fu bussato alla porta e una domestica annunciò che il tè era pronto. L’aveva mandata il Colonnello perchè la raggiungessimo. Il filo del discorso s’era spezzato.
Il Dr. Silence si diresse alla porta e mi fece cenno di seguirlo. Ma compresi, dal suo modo di fare che, in ogni caso, nessuna risposta avrebbe fatto seguito alla mia domanda.
«E il luogo dove scavare?…», domandai, incapace di reprimere la mia curiosità. «Lo troverete mediante qualche processo di divinazione o…?».
Si fermò sulla porta e si volse un attimo verso di me, ma non aggiunse altro e mi lasciò perchè terminassi di vestirmi.
Faceva già buio quando ci avviammo silenziosamente tutti e tre alla «cultura» dei dodici acri. Il cielo era pesante e un vento minaccioso giungeva da oriente. Le tenebre incombevano intorno alla vecchia casa e l’aria sembrava piena di sospiri. Trovammo gli attrezzi pronti per terra, al margine del bosco e, ciascuno col proprio pezzo sulle spalle, seguimmo subito il nostro capo, destreggiandoci tra gli alberi. Egli camminò dritto in avanti per alcune diecine di metri, poi si fermò. Ai suoi piedi si distendeva il circolo annerito di uno dei punti bruciati. Si distingueva a malapena, nell’erba chiara che lo circondava.
«Ce ne sono tre!» disse. «E si trovano tutti su una unica direttrice. Ognuno di essi deve aprirsi sulla galleria che congiunge la lavanderia, già museo, con il punto in cui la mummia giace attualmente sepolta».
Egli divelse subito l’erba bruciata e cominciò a scavare. Mentre io usavo la zappa, gli altri vangavano di buona lena. Nessuno fiatava. Il Colonnello lavorava più fortemente degli altri due. Il suolo era leggero e sabbioso. Solo poche radici e qualche pietra isolata ostacolarono per poco il nostro lavoro. Le zappe ne ebbero ben presto ragione. Il buio ci aveva frattanto avvolto e il vento impetuoso stormiva, rumoreggiando fra gli alberi.
Ad un tratto, senza un grido, il Colonnello scomparve sino al collo.
«La galleria!» gridò il dottore, aiutandolo a tirarsi fuori, rosso, senza fiato, ricoperto di sabbia e di sudore. «Ora vi guiderò io». E si lasciò scivolare svelto, giù nella buca. Un momento dopo udimmo la sua voce, attutita dalla sabbia e dalla distanza.
«Hubbard, seguitemi per primo. Poi il Colonnello Wragge… se crede».
«Vi seguo, certamente», disse quello, guardandomi mentre mi calavo dentro.
Il buco era ora un po’ più grande. Avanzai carponi in un canale non molto più ampio di un grande condotto da fogna e mi trovai in una completa oscurità. Un minuto dopo, un pesante tonfo, seguito da un rovescio di sabbia, annunciò l’arrivo del Colonnello.
«Afferratemi il piede!», esclamò il Dr. Silence. «Il Colonnello Wragge potrà afferrare il vostro».
In questo modo, lento e laborioso, c’insinuavamo lungo la galleria che era stata rozzamente scavata nella sabbia, e grossolanamente sostenuta a mezzo di travi e assi di legno. Correvamo ad ogni momento il rischio di trovarci sepolti vivi. Non potevamo veder nulla davanti a noi, ma dovevamo brancolare in avanti tastando le travi e le pareti. Respiravamo con difficoltà. Il Colonnello dietro di me progrediva molto lentamente, poichè la posizione rattrappita dei nostri corpi era assai disagevole.
Avanzavamo in quel modo da dieci minuti, ed avevamo percorso un tratto di forse dieci metri, quando perdetti contatto col piede del dottore.
«Ah!» udii la sua voce, che risuonò in qualche luogo sopra di me. Egli si trovava già in piedi in uno spazio libero. Un momento dopo mi trovai in piedi io pure accanto a lui. Il Colonnello venne in seguito, con difficoltà, ed anch’egli si levò in piedi. Il Dr. Silence estrasse delle candele e dai gesti che faceva nell’oscurità comprendemmo che stava per accendere i fiammiferi.
Ma ancora prima che facesse luce, una sensazione indefinibile di paura ci invase tutti. In quel buco nella sabbia, a circa un metro sotto terra, ce ne stavamo l’uno accanto all’altro, ingranchiti e pigiati, colpiti improvvisamente da un’apprensione opprimente. Qualche cosa di antico, qualche cosa di formidabile, qualche cosa di incalcolabilmente miracoloso toccava in ciascuno di noi il senso del sublime e del terribile anche prima che potessimo vedere un palmo davanti a noi. Non saprei esprimere con parole quella singolare emozione che ci colse là nel buio completo. Non colpiva nessun senso direttamente, ma sembrava trasmetterci l’avvertenza che là davanti a noi, nell’oscurità del sottosuolo, giacesse qualche cosa permeata della potenza dei lunghi millenni trascorsi.
Sentii il Colonnello che si stringeva al mio fianco. Compresi il significato della sua pressione e l’approvai. Nessun contatto umano fu mai più eloquente di quello.
Poi il fiammifero s’accese abbagliandoci. Le ombre si diradarono e vidi il Dr. Silence andar tentoni con la candela, col volto grottescamente illuminato dalla luce tremolante di sotto in su.
Avevo temuto l’apparizione della luce. Eppure, quando essa brillò, mi accorsi che non c’era apparentemente nulla che potesse spiegare le profonde sensazioni di terrore che avevamo provato. Stavamo in un piccolo andito dalla vôlta scavata nella sabbia, con le pareti e il tetto sostenuti da travi di legno, e il fondo rozzamente pavimentato con dei mattoni. Esso aveva un’altezza di circa due metri, in modo che potevamo starci tutti comodamente, e poteva avere tre metri di lunghezza per due e mezzo di larghezza. Sulle travi di legno delle pareti, dei geroglifici egiziani erano stati rozzamente tracciati a fuoco.
Il Dr. Silence accese tre candele e ne consegnò una a ciascuno di noi. Una quarta la piantò nella sabbia contro la parete alla sua destra, ed un’altra ancora a segnare l’entrata alla galleria. Stavamo a guardare fissi intorno a noi, trattenendo istintivamente il respiro.
«Vuoto, per Dio!» esclamò il Colonnello. La sua voce tremava per l’eccitazione. Poi, mentre i suoi occhi si posavano sul fondo, aggiunse: «E dei passi… Guardate!… dei passi sulla sabbia!…».
Il Dr. Silence non disse nulla. Si chinò e cominciò a fare un giro d’ispezione nell’andito. Mentre si muoveva, i miei occhi seguivano la sua figura strisciante e osservavano le strane ombre deformi che si proiettavano sulle pareti e sul soffitto, dietro di lui. Qua e là, dei granelli di sabbia cadevano sibilando dai lati. L’atmosfera, grave di deboli ma penetranti odori, era completamente calma. Le fiamme delle candele avrebbero potuto essere dipinte nell’aria tanto erano immobili, e non tradivano alcun movimento.
Mentre osservavo, stentavo a persuadermi di trovarmi in quel momento in quel piccolo buco, sotto un giardino, in Inghilterra… Mi sembrava di trovarmi, come in sogno, all’entrata di qualche vasto tempio scavato nella roccia, lontano lontano lungo il fiume del tempo. L’illusione era potente, e persisteva. Colonne di granito si ergevano al cielo, si disponevano all’intorno, innalzandosi maestosamente, e una vôlta alta come il cielo ospitava una fila di colossali figure che si muovevano in una processione interminabile lungo stupende navate. Quella gigantesca e splendida fantasmagoria, nata non so da dove, si impadroniva con tanta vivezza del mio essere, che ero effettivamente costretto a concentrare tutta la mia attenzione sulla piccola figura prona del dottore, brancolante intorno alle pareti, allo scopo di distogliere l’occhio dell’immaginazione dalla scena soprannaturale che la fantasia dipingeva davanti a me.
Ma lo spazio limitato escludeva una ricerca prolungata. I suoi passi, anzichè trascinarsi nella sabbia friabile, calpestavano ora qualche cosa di qualità diversa, che diede un’eco vuota e rimbombante. Egli si chinò, per esaminare la cosa più da vicino.
Stava esattamente nel centro del piccolo vano, quando ciò avvenne, e si mise subito a spostare la sabbia coi piedi. In meno di un minuto divenne visibile una superficie liscia… la superficie di un coperchio di legno. Vidi subito dopo che lo aveva sollevato e stava guardando entro uno spazio vuoto al di sotto. In quell’istante, un forte odore di nitro e di bitume, mescolato con la strana fragranza di aromi sconosciuti e volatilizzanti, si levò dallo spazio scoperto e riempì la vôlta, prendendoci alla gola e facendoci bruciare e lacrimare gli occhi.
«La mummia!» bisbigliò il Dr. Silence, levando lo sguardo verso di noi, al di sopra della sua candela. Mentre pronunciava quelle due parole, sentii il Colonnello appoggiarsi contro di me, ed ebbi la sensazione del suo respiro nel mio orecchio.
«La mummia!» ripetè sottovoce, mentre ci sporgevamo innanzi per guardare.
Mi riesce difficile ricordare esattamente perchè quella vista eccitò in me un’emozione profonda di meraviglia e di venerazione. Avevo una certa familiarità con le mummie, ne avevo liberato una diecina dalle loro fascie ed avevo perfino fatto degli esperimenti magici con alcune di esse. Ma c’era qualche cosa, nell’aspetto di quella figura grigia e silenziosa, che giacente nel suo moderno sarcofago di piombo e di legno, nel fondo di quella fossa sabbiosa… Qualche cosa in quella figura ancora fasciata nelle bende dei secoli ed ancora avvolta nel lino profumato, sulla quale i sacerdoti d’Egitto avevano pregato coi loro potenti incantesimi migliaia di anni prima… Qualche cosa alla vista di quella forma distesa dinnanzi a noi, che respirava ancora la sua atmosfera carica di spezie perfino nell’oscurità del suo esilio in un paese remoto… Qualche cosa che penetrò sin nell’intimo del mio essere e toccò quella radice di terrore che sonnecchia in ogni uomo, risvegliando in me quasi un impeto di lacrime e la suggestione potente di un sentimento religioso.
Ricordo che, distogliendo rapidamente il volto dal Colonnello per timore che potesse vedere la mia emozione, mi volsi, senza comprenderne la ragione, e afferrai il Dr. Silence per il braccio. Vidi allora che anch’egli era tremante e accasciato, che anche lui aveva abbassato la testa e si nascondeva il volto tra le mani…
Uno sconvolgimento travolgente, sorgente da non so quali estreme profondità della memoria, sembrò poi impadronirsi di me. In una visione di abbagliante candore, mi parve udire l’antico cantare magico, dal Libro dei Morti, e vidi gli Dei passare in cupa processione… Erano i potenti, gli immemorabili Esseri che rappresentavano gli attributi personificati degli Dei veri, il dio dagli occhi di fuoco, il dio dal volto di fumo… Rividi Anubis, la divinità dalla faccia di cane, e i figli di Oro, l’eterno custode dei millenni… Li rividi, mentre fasciavano Osiride, la prima mummia del mondo, nelle bende mistiche e profumate… Provai qualche cosa dell’estasi dell’anima purificata, mentre s’imbarcava sulla navicella aurea di Ra, e navigava verso il largo, per andare a riposare nei campi dei beati…
Poi, mentre il Dr. Silence, con infinita riverenza, si chinava a toccare il volto silenzioso, così paurosamente fisso coi suoi occhi dipinti, quel profumo di millenni si levò nuovamente verso le nostre narici, ad ondate, e il tempo volò via, risalendo i secoli trascorsi come se fosse una entità trascurabile, mostrandomi, in una scena ossessionante, il sogno più meraviglioso che mente umana possa concepire.
Un sibilo sommesso si fece udire nell’aria. Il dottore rapidamente indietreggiò. Il sibilo si avvicinò sino a sfiorare i nostri visi e mi parve di udirlo poi risuonare in direzione delle pareti e del soffitto.
«L’ultimo del Fuoco… ancora in attesa del suo adempimento completo…», mormorò il dottore. Ma udivo le parole e il sibilo come cose assai lontane. Ero ancora tutto immerso nel viaggio mirabile dell’anima attraverso le sette sale della morte, ed ascoltavo gli echi del rituale più solenne che mai sia stato conosciuto dagli uomini…
Le lastre d’argilla coperte di geroglifici giacevano ancora accanto alla mummia. Intorno ad essa, accuratamente disposte secondo la rosa dei venti, stavano le quattro urne con le teste del falco, dello sciacallo, del cinocefalo, e dell’uomo. Nelle urne dovevano trovarsi i capelli, i ritagli delle unghie, il cuore, e altre parti del corpo. Vi erano perfino gli amuleti, lo specchio, le azzurre statue d’argilla del Ka, e la lampada a sette fiamme. Ma quello che vi mancava era lo scarabeo sacro!..
«Non soltanto è stato strappato dal suo antico luogo di riposo», diceva intanto il Dr. Silence con voce solenne, mentre guardava fisso il Colonnello, «ma la mummia è stata anche parzialmente sfasciata». Addittò le bende del petto. «E quello che è peggio… lo scarabeo è stato tolta dal collo!…».
Il sibilo, che assomigliava a quello di una fiamma invisibile, era cessato. Soltanto di quando in quando lo udivamo passare e ripassare nella galleria. Ci guardammo in viso senza parlare.
Il Colonnello con un grande sforzo, si riprese.
«Mia sorella…», disse lentamente. Seguì una lunga pausa, troncata infine dal Dr. Silence.
«Dev’essere rimesso al suo posto!», disse significativamente.
«Non ne sapevo nulla…», disse il Colonnello, sforzandosi a dire quelle parole che gli era quasi odioso pronunciare. «Assolutamente nulla!».
«Dev’essere restituito!…», ripetè l’altro. «Se non è troppo tardi. Poichè temo… temo…».
Il Colonnello fece un segno di assenso col capo.
Tutto tornò silenzioso come una tomba.
Non so cosa avvenne in seguito, che ci fece volgere tutti e tre con un sussulto repentino. Eppure, le mie orecchie non avevano percepito alcun suono.
Il dottore era sul punto di rimettere il coperchio sulla mummia, quando si raddrizzò come se fosse stato respinto.
«Qualche cosa sta per giungere…», disse il Colonnello sottovoce, e gli occhi del dottore, rivolti verso la piccola apertura della galleria, mi mostrarono la direzione giusta.
Un rumore lontano, strisciante, si fece distintamente udire. Proveniva da un punto, quasi a metà della galleria che avevamo tanto faticosamente percorsa.
«È la sabbia che cade là dentro», dissi, benchè sapessi che non era vero.
«No!», disse il Colonnello con calma. «L’ho già udito parecchie volte. È qualche cosa di vivente… e sta per avvicinarsi».
Si guardò intorno con un’espressione risoluta che diede al suo volto un’impronta di nobiltà! L’orrore nel suo cuore era opprimente, ma era pronto ad ogni evenienza.
«Non c’è altra via d’uscita», disse il Dr. Silence.
Egli appoggiò il coperchio sulla sabbia, e attese. Capivo dall’espressione immobile del suo volto, dal pallore, e dalla fermezza degli occhi, che si aspettava qualche cosa che doveva essere terribile… spaventevole.
Io e il Colonnello stavamo ciascuno ad un lato dell’apertura. Tenevo ancora in mano la candela, mi vergognavo del modo come tremava, imbrattandomi di cera. Il Colonnello aveva piantato la sua candela nella sabbia immediatamente dietro di sè.
Il pensiero di essere sepolti vivi, di essere soffocati come topi in una trappola, di essere afferrati e messi a morte da qualche forza invisibile e spietata contro cui non avremmo potuto lottare, mi invase in quel momento la mente. Poi pensai al fuoco… alla soffocazione… alla possibilità di essere arrostiti vivi. Il sudore cominciò a grondarmi dal viso.
«Fermi!» impose la voce del Dr. Silence, al di là della vôlta.
Per cinque minuti, che sembrarono secoli, stemmo ad aspettare, guardandoci reciprocamente in viso. I nostri sguardi correvano dalla mummia al foro e viceversa. Durante tutto quel tempo, il suono strisciante, sommesso e furtivo, si avvicinava sempre più. La tensione, per me almeno, era assai vicina al punto fatale, quando finalmente la causa del disturbo raggiunse l’estremità della galleria. Era nascosta per un momento ancora dietro quel margine… Un getto di sabbia, scossa da una vicina vibrazione, si riversò nel fondo. Non ho mai in vita mia osservato cadere qualche cosa con tanta allucinante intensità… Un istante dopo, emettendo un debole grido, si rivelò alla nostra vista.
Era una cosa assai più orribile e affliggente di quanto mi sarei aspettato.
Alla vista di un mostro egiziano, di qualche dio delle tombe, o persino di qualche demonio del fuoco, credo che sarei stato preparato… Ma quando, invece, vidi il bianco viso della signorina Wragge sbucare da quella apertura nella sabbia, seguito dal suo corpo strisciante carponi, con gli occhi sgranati riflettenti il giallo bagliore delle candele, il mio primo istinto fu quello di volgermi e fuggire come un animale impazzito in cerca di un’uscita.
Ma il Dr. Silence, che non sembrava affatto sorpreso, mi afferrò per un braccio e mi fermò. Vedemmo il Colonnello cadere in ginocchio e portarsi così a livello del viso di sua sorella. Per più di un minuto, come se fossero scolpiti nella pietra, quei due visi si fissarono in silenzio. Quello di lei, per la paurosa emozione provata, pareva piuttosto quello di un mostro che non quello di un essere umano. Il viso di lui era bianco e livido, con una espressione che oltrepassava quella della sorpresa e dello sbigottimento. Essa guardava in su, fissamente, egli in giù, verso di lei, immobile. Era una scena di incubo, e la candela, ficcata nella sabbia vicina al buco, vi proiettava il bagliore allucinante di un lume sotterraneo d’oltretomba.
Allora il Dr. Silence si avanzò e parlò con una voce molto bassa, ma perfettamente calma e naturale.
«Sono lieto che siate venuta», disse. «La vostra presenza, in questo momento, è oltremodo preziosa. Spero che siate ancora in tempo a pacificare l’ira del fuoco, e a riportare la pace nella vostra casa, e», soggiunse a voce ancora più bassa, tanto che potevo a malapena udirla, «la salvezza a voi stessa!».
A questo, mentre suo fratello barcollava indietro goffamente, schiacciando nel suo imbarazzo la candela ritta nella sabbia, la vecchia zitella strisciò avanti nel vano e si mise lentamente in piedi.
Alla vista della figura fasciata della mummia, ero già preparato a vederla strillare e svenire, ma al contrario, con mio completo disorientamento, essa chinò soltanto la testa e si inginocchiò quetamente. Poi, dopo una pausa di più di un minuto, essa levò gli occhi al soffitto e le sue labbra cominciarono a mormorare, come in preghiera. La sua destra, nel frattempo, si era alzata a cercare qualche cosa appeso al collo, e se ne staccò poi improvvisamente. Davanti allo sguardo di noi tutti essa distese la mano, con la palma verso l’alto, al di sopra della grigia e antica figura giacente là sotto. E in quella mano vedemmo rifulgere il diaspro verde dello scarabeo rubato.
Suo fratello, appoggiato pesantemente contro alla parete, emise un suono ch’era metà grido, metà esclamazione. Ma il Dr. Silence, standole direttamente di fronte, la fissò negli occhi e le additò il volto immobile, laggiù.
«Rimettetelo a posto», disse severamente, «dove è stato preso!».
La signorina Wragge stava inginocchiata ai piedi della mummia, quando ciò avvenne. Avevamo gli occhi inchiodati tutti e tre su quanto accadeva. Soltanto il lettore che, per una singolare circostanza, abbia visto una fila di mummie, riesumate di fresco e poste dalle loro tombe sulla sabbia, lentamente agitarsi e piegarsi, mentre il calore del sole egiziano ne riscalda i corpi antichissimi sino a dar loro una parvenza di vita, può formarsi una pallida idea dell’estremo orrore che sperimentammo quando la silenziosa figura dinnanzi a noi si mosse nella sua tomba di piombo e di sabbia. Lentamente, davanti ai nostri occhi, essa si contorse, e con un debole fruscìo dei suoi involucri, si drizzò. Attraverso gli occhi bendati, senza vista, fissò, nella gialla luce delle candele, la donna che l’aveva violata.
Tentai di muovermi… suo fratello tentò di muoversi… ma la sabbia sembrava trattenerci i piedi. Tentai di gridare… suo fratello tentò di gridare… ma la sabbia sembrava riempirci i polmoni e la gola. Potevamo soltanto guardare… E anche così, la sabbia sembrava sollevarsi come una tormenta del deserto e offuscarci la vista…
Quando infine cercai di riaprire gli occhi, la mummia stava di nuovo distesa sul dorso, immobile, col viso infossato e dipinto volto in alto, verso il soffitto. La vecchia zitella era ruzzolata in avanti, e stava distesa, morta, con la testa e le braccia sul corpo rigido della mummia.
Ma sulle bende intorno al collo vidi il diaspro verde dello scarabeo sacro risplendere di nuovo, come un occhio vivente.
Il Colonnello e il dottore si riebbero molto prima di me. Li aiutai goffamente a sollevare il fragile corpo della vecchia. Il Dr. Silence ricollocò scrupolosamente il coperchio sulla tomba, la ripulì dalla sabbia e vi eseguì sopra dei brevi esorcismi.
Udivo la sua voce come in sogno.
Ma la via del ritorno, lungo quella galleria stretta e sconvolta, col peso di quella donna morta, acciecati dalla sabbia, soffocati dal calore, non fu affatto un sogno. Durammo quasi mezz’ora per arrivare all’aria aperta. E, anche dopo, dovemmo attendere un certo tempo la comparsa del Dr. Silence. Portammo il corpo inanimato della signorina Wragge, senza essere visti da alcuno, nella casa e sopra, nella sua camera.
«La mummia non provocherà altri guai», disse il Dr. Silence al nostro ospite quella sera, sul tardi, mentre ci preparavamo a prendere la vettura per il treno della notte, «semprechè», soggiunse in modo significativo, «nè voi, nè i vostri, non arrechiate ad essa altro disturbo».
Fu pure come in sogno che partimmo.
«Non avete visto il viso di quella vecchia?», mi domandò, mentre ci avvolgevamo nelle nostre coperte nello scompartimento vuoto. Scossi la testa, del tutto incapace di spiegare l’intuizione che mi aveva spinto a non guardare quel viso. Egli si volse verso di me, col volto pallido e sinceramente rattristato.
«Arso e distrutto!» mormorò.
Fine.
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TITOLO: La vendetta del fuoco
AUTORE: Algernon Blackwood
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Il medico miracoloso : John Silence / Algernon Blackwood. - Milano : Bocca, 1946. - 390 p. ;
19 cm.
SOGGETTO: FIC009050 FICTION / Fantasy / Paranormale